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pubblicato il 22.11.05
Italiani brava gente? Colloquio con Del Boca
·

Da Lettera22 – Associazione Indipendente di Giornalisti

Ragionamenti a margine del nuovo libro dello storico dell’Italia coloniale (nella foto un giovane balilla)

Emanuele Giordana

Giovedi’ 17 Novembre 2005
Benché “Italiani brava gente?”, l’ultimo libro di Angelo Del Boca, osservi la manipolazione storica dell’identità italiana a partire dall’800, la cronaca recente continua a servirgli spunti. E l’ultimo capitolo gliel’ha offerto qualche settimana fa il presidente del Consiglio, secondo cui l’Italia della brava gente avrebbe sconsigliato la guerra in Iraq a Bush. Un’affermazione che ha lasciato stupefatto anche lo storico del colonialismo, che abbiamo raggiunto al telefono mentre è in giro per l’Italia a presentare la sua ultima fatica.
“Le dichiarazioni di Berlusconi sono perfettamente in linea con quello di cui parlo nel libro, che per altro non dimentica l’avventura irachena del governo. La verità è che c’è una sorta di linea di continuità, che va dall’Italia liberale ai nostri giorni, passando per il fascismo. Continuità nell’ostinarsi a nascondere le verità scomode sulle quali anzi viene costruito il mito del bravo italiano ”.

Il mito autoassolutorio

Proprio qui sta il tema del libro, che prende le mosse addirittura dalla visita dell’abate benedettino Jean Mabillon (autore di una memoria che, alla fine del Seicento, disegna la povertà contadina di alcune regioni italiane) o dalle pagine di Charles-Louis de Secondat, che nel Settecento taccia le repubbliche italiane di “miserabili aristocrazie in cui i nobili ambiscono a conservare il loro ozio e i loro privilegi”. Ma il libro si concentra poi sull’Italia unita che non può più accusare lo Stato pontifico o l’oscurantismo dei Borboni. E’ infatti dalla seconda metà dell’800 che prende avvio la costruzione di un mito buono per tutte le avventure. “Mi sono concentrato su una dozzina di episodi – dice lo storico – che dimostrano una capacità distruttiva illimitata. Ma l’intento del libro non è quello di mettere l’Italia al primo posto come campione di violazioni patenti in casa o nelle colonie. Il mio lavoro intende dimostrare semplicemente che gli italiani sono stati uguali agli altri, se non peggio, nel corso di una storia che, faticosamente, abbiamo ricostruito squarciando il velo su segreti e bugie. Uguali agli altri, nel bene e nel male, ma con una differenza: si è sempre cercato di dimenticare e nascondere le pagine buie della nostra storia per esaltare un’italianità della tolleranza, della diversità. Un mito che serviva a cancellare le tracce delle nostre nefandezze, sia che si trattasse dell’oppressione dei contadini poveri del meridione per finire con le bombe all’iprite della campagna etiopica. Il mito del buon italiano che costruisce scuole strade è semplicemente falso. Anche se continua a resistere nel tempo come dimostrano le dichiarazioni di Berlusconi”.

La linea di continuità da Giolitti a Berlusconi

Questo mito della diversità italiana è dunque il rimedio autoassolutorio, secondo Del Boca, che impedisce al nostro paese di fare i conti con la storia, con la memoria, con una coscienza nazionale monca. E’, dice lo storico, una passione che ha coinvolto le leadership e, da lì, sino all’ultimo protagonista della nostra storia recente. “Direi che sostanzialmente c’è un’assoluta linea di continuità tra la liberaldemocrazia, il fascismo e gli anni che hanno seguito la dittatura. Il mito resiste al di là dei governi. Certo durante un regime, diventa più facile propagandarlo perché non c’è controllo, non c’è opposizione, dibattito, non c’è stampa che possa contestare. Ma se si pensa all’avventura della Libia si comprende che la differenza non è poi molta. In questo non c’è molto di diverso tra Giolitti e Mussolini. Certo si potrebbe dire che la dittatura costruì una sorta di industrializzazione della barbarie il cui obiettivo in Africa era l’annientamento più che la conquista… Mussolini non dormiva la notte, tormentato com’era dallo spettro di Adua. Non voleva un bis. E allora il bravo italiano sganciò le bombe con i gas mortali di cui abbiamo avuto un’ammissione tardiva soltanto qualche anno fa”. Quella delle bombe all’iprite, su cui del Boca e altri storici avevano lavorato per anni, è diventata verità ufficiale solo negli anni Novanta. E ancora molti stentavano a credere che fosse potuto accadere.

Verità e buona fede

“Quando ho presentato il libro a Milano, al momento degli interventi, un signore che aveva fatto le campagne d’Africa mi disse che non poteva essere d’accordo perché lui le cose raccontate nel libro non le aveva viste. Commetteva lo stesso errore di Montanelli con cui ebbi una polemica durata anni, anche se poi Montanelli, che era una persona intellettualmente onesta, ammise di essersi sbagliato. Il fatto è che per lui la guerra era durata di fatto quaranta giorni (poi, ferito, era stato trasferito in Italia ndr) e in Africa le bombe non le aveva davvero viste. Il fatto è che l’iprite venne sganciata solo il 21 dicembre quando lui non era più lì. Come Montanelli, molti soldati non videro quel che faceva l’aviazione che del resto tenne ben nascoste le cose. Questi italiani in buona fede, al fronte o a casa, sono rimasti vittime di un mito che nasce verso al fine dell’800 e che si dipana per tutto il secolo successivo sino ad arrivare alla strage dei nostri soldati in Iraq. Tutti se ne stupirono: ma come? Noi che andiamo ad aiutare, noi che siamo forze di pace? Com’era possibile che venissimo colpiti? L’effetto del mito è anche questo. A differenza degli italiani i britannici, per fare un esempio, si sono sempre assunti le loro responsabilità Se vanno in guerra vanno in guerra e basta. Considerano insomma la brutalità un aspetto legittimo di una campagna militare. Noi invece questa ammissione non la vogliamo mai fare e allora ci andiamo mascherando le aggressioni con i ponti e le strade. Che alimentano il mito”.
Il libro di Del Boca passa in rassegna il suo dipanarsi dai giorni di Pechino durante la rivolta dei boxer, alle campagne in Libia e in Africa orientale, alla guerra in Slovenia, passando per le pagine buie firmate dal generale Cadorna nella Grande guerra. A salvarsi sono in pochi. E la sinistra italiana? C’è chi l’ha accusata di nascondere la verità. Nel dopoguerra ad esempio si è detto che ha cercato di occultare le prove di eccidi compiuti per vendetta o interesse personale approfittando della caduta del fascismo. “Certo ci sono state delle responsabilità individuali, come negarlo? Ma non si può far confusione e non si possono far lievitare i numeri come è stato fatto quando si parlò di 300mila morti…bilancio sceso poi a 30-40mila…Io mi rifaccio alle stime del governo democristiano che parlano di 10mila vittime. Il fatto è che la guerra non terminò il 25 aprile ma il 3 maggio. In quella settimana eravamo di fatto ancora in guerra. Lo ricordo bene perché comandavo un’unità partigiana a Piacenza. I cecchini, dopo il 25 aprile, ci sparavano dai tetti delle case e noi reagimmo. Quando capitavano occasioni di giustizia sommaria, intervenivo per evitarli”.

Un esercito senza caserme né bandiere

Resta un quadro a tinte fosche quello disegnato da Del Boca. Come se ne esce? “Il libro non è una condanna dell’Italia senza ritorno. Mi sento ad esempio di dire che i nostri contingenti militari nelle operazioni di peacekeeping, e intendo quelle di peacekeeping reale, cioè con mandato internazionale, si sono comportati bene salvo qualche raro episodio. C’è modo dunque di uscire dall’ambiguità purché si rispettino le regole. Eppoi c’è anche una nota di speranza e riguarda quell’esercito, senza elmetto e senza fucili, che ogni giorno combatte in nome della solidarietà: forse un italiano su dieci, che fa circa 4-5 milioni di persone. Si battono senza caserma e senza bandiera per fare del bene. Ed è a questo esercito del volontariato, che non ha paura di fare i conti con la memoria, che è dedicato il mio libro. Se ci sono italiani che meritano di essere definiti “brava gente”, nell’accezione vera, non assolutoria e non mitizzata, questi sono proprio gli splendidi e umili operai del volontariato. Ed è con queste parole che si conclude il mio lavoro”.

Questo articolo è uscito il 17 Novembre su il Manifesto

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