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pubblicato il 23.01.06
Il colonnello anarchico: Emilio Canzi e la guerra civile spagnola.
·

Da www.fumettidicarta.it

“Il colonnello anarchico:
Emilio Canzi e la guerra civile spagnola”
(Editore “Scritture”– euro 12,00)

intervista con l’autore, Ivano Tagliaferri

di Francesco “baro” Barilli per Ecomancina.com

Ad oltre un anno dalla nostra chiacchierata del giugno 2004 sulle origini dell’antifascismo, torno ad incontrare Ivano Tagliaferri, per parlare della sua ultima fatica letteraria. Si tratta di un libro per certi versi in continuità col precedente lavoro. L’autore, infatti, ci parla di come proseguì la vita di Emilio Canzi, che avevamo già conosciuto in “Morte alla Morte” come istruttore militare degli Arditi del Popolo piacentini, soffermandosi in particolare sull’esperienza del militante anarchico nella guerra di Spagna.
Figura romantica ed idealista, Emilio Canzi “costringe” Tagliaferri ad adottare una scelta narrativa che si discosta dal consueto taglio storico-giornalistico, e ad optare per una narrazione più romanzesca. Una scommessa riuscita, quella di Ivano, ed in cui comunque l’autore non smarrisce il duplice obbiettivo: documentare un punto di vista “particolare” (e per certi versi sconcertante, come approfondiremo nell’intervista) sulla guerra civile spagnola, e nel contempo raccontare la vita avventurosa del “colonnello anarchico” fino al suo epilogo, anch’esso romantico ed amaramente paradossale. Infatti, dopo aver combattuto il fascismo su molti fronti, Emilio Canzi troverà la morte dopo la liberazione dell’Italia dai nazi-fascisti, in un banale incidente stradale con un camion militare alleato.


6 gennaio 2006, intervista con IVANO TAGLIAFERRI

Nell’introduzione parlo di una tua scelta stilistica nuova rispetto a “Morte alla morte”: una scelta in cui hai cercato di unire ricerca storica e “semplice” narrativa. Mi piacerebbe fossi tu a dirmi cosa ti ha portato a questa opzione: l’hai decisa da subito o sei stato portato ad essa in seguito alle tue ricerche?

Ivano Tagliaferri: In effetti ho deciso da subito di adottare uno stile più narrativo, per un insieme di ragioni. Innanzitutto, pur basandomi su una ricostruzione il più rigorosa possibile dal punto di vista delle fonti (documenti, testimonianze, vecchi articoli eccetera), ho pensato che la vita di Canzi andasse raccontata in modo da proporla su un piano accessibile a tutti, e non solo agli storici. Il personaggio, per come l’ho conosciuto io, era di uno spessore (anche umano) che il raccontarlo solo attraverso una fredda biografia non gli rendeva giustizia: avrei rischiato di non renderne pienamente l’umanità o il carisma. Intendiamoci: non ho intenzione di mitizzarlo, facendolo diventare un’icona, o di metterlo su un piedistallo, ma credo che la storia di Canzi sia esemplare per diversi motivi, e proseguendo nell’intervista vedremo di affrontarli.
L’altra ragione che mi ha spinto ad una scelta più narrativa è personale: mi piace la storia, certo, ma mi piace raccontarla con un taglio che sia meno cronachistico, meno freddo e più partecipato. Volevo misurarmi con uno stile che sentivo a me più vicino, anche se in passato non sempre l’ho adottato.

Nel libro mi ha colpito una tua definizione: parli della guerra civile spagnola come dell’”ultima guerra romantica”, e mi piacerebbe sapere qualcosa di più su questa tua descrizione.
I.T.: Beh, è una definizione che a mia volta ho mutuato da altre citazioni; ma è una definizione in cui credo pienamente. In parte si tratta anche di reminiscenze giovanili, per me e per quelli della mia generazione. Penso a quando leggevo, a quando leggevamo, “Omaggio alla Catalogna”, “Per chi suona la campana?”, o in età più adulta a quando fu realizzato il bel film di Ken Loach, “Terra e libertà”. Poi c’è un dato oggettivo: credo che la guerra di Spagna sia un caso unico nel suo genere e per quel periodo storico, a livello di stimoli e di aspettative che suscitò, a livello di coinvolgimento che seppe creare. Se ci pensi, è il caso più clamoroso di partecipazione di migliaia di giovani (e meno giovani…), da tutti i paesi, che vanno a rischiare la vita per combattere in campo aperto il fascismo in difesa della repubblica spagnola.
Pensa pure a “come” fu vissuta da alcuni giovani entusiasti che andarono là e diventarono, da lì a pochi anni, intellettuali rinomati in tutto il mondo: questo per dirti il livello di partecipazione emotiva che quell’esperienza seppe generare nei già citati Hemingway o Orwell, ma pure in Arthur Koestler, in Andrè Malraux…
Per molti di questi intellettuali la Spagna è fondamentale, come esperienza e come spartiacque della loro vita. Questo perché la guerra di Spagna, pur con tutte le sue contraddizioni e brutalità, e pur con quello di orribile che accadrà all’interno della sinistra, sarà fondamentale. Fondamentale in positivo (per i fermenti che genera), come in negativo, costituendo un elemento di disillusione che spingerà molti ad allontanarsi da un’idea di comunismo ortodossa e burocratica… Sì, credo che la Spagna sia un caso che non si è più ripetuto, almeno non in quella dimensione…

Un livello di coinvolgimento che mi fa pensare a chi andò in Laos o in Vietnam, in tempi successivi…

I.T.: Certamente, ma le dimensioni del fenomeno furono ben diverse a livello di coinvolgimento “fisico”. Intendo dire che non si ebbe quel fenomeno di migliaia di persone che vanno in un Paese sconosciuto a difenderne i principi democratici. E quando parlo di un Paese lontano alludo, anche se può sembrare banale, anche all’amplificazione delle distanze dovute all’epoca. Perché andare in Spagna negli anni ’30 non era come andarci oggi; per questione di mezzi di trasporto, ma soprattutto perché attraversare frontiere era molto difficoltoso all’epoca. Per questo mi sembra unico il fenomeno, proprio nella sua dimensione fisica e quantitativa.

Hai accennato a disillusioni e contraddizioni a sinistra: un discorso che introduce la mia domanda più “scomoda”. La tua ricostruzione del drammatico epilogo della guerra civile spagnola, infatti, mi ha particolarmente colpito. Una sconfitta che non ha origine solo sul piano militare, ma pure su quello politico. E, restando su quest’ultimo livello, si tratta di una sconfitta generata non solo dalla posizione attendista delle democrazie europee, ma pure dall’atteggiamento ambiguo della Russia stalinista. Normalizzare, ridimensionare gli “eretici”, sembrano essere state le parole d’ordine dell’ortodossia comunista rispetto ai miliziani anarchici o comunque “non inquadrati”…
Questo mi porta ad un duplice quesito. Innanzitutto volevo sapere in che misura questa ricostruzione è stata un’amara sorpresa, e le riflessioni personali che ti ha provocato. In secondo luogo volevo chiederti se questa ricostruzione da “vittoria della realpolitik sull’idealismo” ti ha provocato problemi con quegli storici più distanti dalle posizioni di Canzi ed affini a posizioni più vicine al comunismo “ortodosso”.

I.T.: Qui è opportuna una premessa: il mio libro non è un lavoro propriamente storico, o comunque non è “solo” storico. Nel senso che è basato su elementi che hanno riscontri storici e cronologici rigorosi, certo, ma tutti questi elementi li ho filtrati secondo il punto di vista di un singolo uomo: Emilio Canzi, un militante anarchico libertario che ha fatto la sua scelta di campo. Non ho mai cercato di essere obbiettivo, perché volevo raccontare come quella pagina di Storia l’ha vissuta Canzi, come è stata filtrata dalle sue convinzioni. Questa è una premessa importante, se vogliamo parlare ora del perché della sconfitta e delle responsabilità interne della sinistra, perché altrimenti sono possibili fraintendimenti. Io mi sono fatto un’idea un po’ più complessa dei motivi della sconfitta, e lo stesso Canzi, devo dire, mantenne un atteggiamento che si distingue da quello di altri anarchici che assunsero posizioni più radicali. Tutto questo ferme restando le pesanti responsabilità della Russia Stalinista. Per quanto riguarda la “sorpresa” di questa ricostruzione, ti dirò che sapevo già di molti di quegli episodi, ma non li avevo mai approfonditi né avevo cercato di inquadrarli in un’analisi politica complessiva. Ma soprattutto non mi ero mai domandato come quegli episodi poteva averli vissuti e letti un militante libertario.
Sulle valutazioni di merito, io penso che a Stalin le sorti della repubblica spagnola interessassero molto poco, e che il suo obbiettivo fosse crearsi un potere contrattuale maggiore nei confronti delle democrazie europee; e questo poteva ottenerlo proprio con una Spagna divisa in due (una parte con i franchisti, una parte controllata da Mosca). Stalin intervenne in Spagna quando la situazione cominciò ad investire i “suoi” obbiettivi: non è un caso se a pochi mesi dalla conclusione della guerra civile fu firmato il patto di non aggressione Ribbentrop/Molotov… Insomma, Stalin fu mosso molto poco da principi di solidarietà internazionale, ma sentì molto l’influenza degli interessi della “realpolitik”, come dici tu. Questo è assodato; ma è corretto dire anche che atteggiamento e finalità di Stalin non vanno confusi con atteggiamento e finalità di migliaia di militanti comunisti che andarono in Spagna: questi erano mossi invece da sincera partecipazione alle sorti della Repubblica, e sarebbe ingeneroso verso quei ragazzi accomunare le loro tensioni ideali a quelle di Stalin.
Bisogna ammettere che oggi, dopo la caduta del regime sovietico e l’apertura degli archivi, è più facile distriricarsi in questo ginepraio. Sotto questo aspetto mi ha colpito uno studio fatto recentemente, che dimostrava che una grande parte degli ufficiali inviati in Spagna da Stalin furono poi eliminati dallo stesso dittatore sovietico. Parlo di ufficiali che erano stati mandati nella penisola iberica con compiti non solo logistico-militari, ma pure di spionaggio, per imporre il dictat stalinista e normalizzare la situazione: la loro eliminazione mi sembra indicativa della volontà di non lasciare alcuna traccia di quanto successo. E direi che fa riflettere anche “la qualità” dell’approccio sovietico rispetto all’intervento, in campo avverso, di Italia e Germania. Hitler e Mussolini intervennero con energia a fianco di Franco, ma senza forzare Franco con richieste politiche (tanto è vero che la Spagna resterà fuori dalla seconda guerra mondiale); Stalin, invece, interverrà in modo più defilato, e al contrario porrà forti condizioni politiche agli alleati, cercando di condizionare il futuro della repubblica spagnola. Anche questo è un elemento che dimostra la vera logica che animava il gruppo dirigente sovietico nella sua decisione di intervenire in Spagna: una logica esclusivamente di potere. Al Cremlino non piaceva l’idea che si affermasse in Europa un modello di socialismo meno burocratico e meno oppressivo di quello imposto in Russia. A maggiore sostegno di questa tesi, tieni conto che il periodo in cui l’URSS intervenne in Spagna è contestuale, o di poco precedente, a quello in cui cominciarono le purghe staliniane interne, in cui venne eliminata tutta la “vecchia guardia” bolscevica.

C’è un’altra cosa che mi ha colpito nel tuo libro: tu descrivi tra il compiaciuto ed il sorpreso la “strana efficienza” delle file anarchiche all’interno delle milizie antifasciste spagnole. Un’organizzazione paradossale, in cui tutto funziona nonostante l’abolizione (o forse proprio GRAZIE all’abolizione…) di gerarchie, divise, saluti militari ecc. In tempi come questi, in cui “ordine e disciplina” sembrano concetti tornati in voga anche a sinistra, tutto ciò mi ha dato da pensare… E volevo chiederti una tua valutazione sull’attualità del messaggio anarchico (o, più ampiamente, libertario) di cui proprio Canzi era fautore.

I.T.: Sì, questa è stata una sorpresa piacevole, in parte purtroppo sepolta dalla Storia. La storia infatti, come si dice, la fanno i vincitori, ed anche nella competizione interna alla sinistra si è affermata (e questo proprio cominciando con gli anni della guerra civile spagnola) un’idea autoritaria e legata alla visione stalinista, mentre le esperienze della sinistra libertaria furono cancellate. Molti avevano capito proprio in quel periodo che l’autoritarismo andava affermandosi anche a sinistra. E non penso solo agli anarchici, ma anche ad un uomo come Rosselli: un “moderato” che va in Spagna e sceglie di stare con gli anarchici non per caso, ma perché ha già maturato riflessioni in comune con loro circa l’involuzione dittatoriale in corso in Unione Sovietica.

Anche l’elemento dell’autodisciplina all’interno delle file anarchiche, cui accennavi nella tua domanda, mi sembra interessante; e su questo aspetto è proprio Canzi che mi ha aiutato a capire. In tutta la prima fase della guerra, quando ancora non erano arrivati rinforzi, furono proprio le milizie formate su base volontaria a “tenere” il fronte, pagando un enorme tributo di sangue (per inesperienza militare e scarsità di mezzi a disposizione). E’ vero che si manifestarono episodi di indisciplina eccessiva (ad uno di questi episodi accenno nel libro: quando Canzi si vede arrivare un capo-centuria totalmente ubriaco). Però proprio su questi episodi si innestarono polemiche artificiose montate strumentalmente dagli stalinisti, amplificando la marginalità di quegli episodi e dimenticando l’eroismo ed i livelli di oggettiva efficienza dimostrata dalle milizie.
Ci fu chi cercò una sintesi, come il già citato Rosselli, fra l’impostazione originale delle milizie (dove la disciplina era su base esclusivamente volontaria) ed un principio di militarizzazione più rigorosa (che in una logorante guerra di posizione effettivamente può servire), senza però cedere a logiche puramente gerarchiche.
Questo tentativo fu cancellato perché alle altre componenti del Fronte Popolare non interessava sperimentare formule diverse, fossero pure di mediazione, mentre interessava solo ridimensionare il fenomeno libertario. Questo tipo di forma militare “sui generis” io penso fosse possibile proprio in Spagna, e specialmente in quella regione (la Catalogna) per una particolare inclinazione del popolo iberico, e di quello catalano in particolare. Il sentimento libertario era ampiamente diffuso: non è un caso se il PSUC (Partito Socialista Unificato Catalano), ortodossamente staliniano, raccolse le maggiori adesioni fra giovani ufficiali, ossia proprio fra coloro che per mentalità erano portati alla gerarchia…
Ecco, penso che il generalizzare sugli episodi (che indubbiamente ci furono, non voglio negarlo) di scarsa capacità di autogestione abbia finito col far buttare il bambino con l’acqua sporca. In questo senso ho letto alcuni articoli proprio di Canzi davvero illuminanti, in cui il “colonnello anarchico” ribatte con energia alle accuse contro le milizie e cita proprio episodi di eroismo dei giovani anarchici catalani. Un eroismo che, del resto, nasceva proprio dal fatto che quei ragazzi combattevano per una causa, non certo per gerarchie o in conseguenza di ordini.
Io mi spingerei addirittura a dire che non fu casuale se, anche con la creazione dell’Esercito Popolare, cui aderirono pure molti reggimenti anarchici, la Repubblica sarà comunque sconfitta. E’ chiaro che la storia non la si fa con i se o con i ma, ma mi sembra di poter dire che la creazione di un esercito più “canonico” ed organizzato non portò ad un miglioramento della situazione, anzi!… Analogamente non è casuale se contestualmente alla chiusura delle milizie autoorganizzate, finirà anche l’esperienza della collettivizzazione delle terre, delle comuni, un’esperienza straordinaria di costruzione di una società di sinistra. Secondo me ancora oggi si può ricavare un messaggio attuale, pur nella sua amarezza, da quella sconfitta: in ogni momento storico la costruzione di una società di sinistra deve essere basata su ideali di partecipazione, di giustizia sociale, di libertà individuali e di autocoscienza, non certo su coercizioni…

Sempre a proposito del messaggio libertario e delle divisioni a sinistra: Canzi stesso cercò di mantenere una funzione di “cerniera” tra le diverse anime degli insorti spagnoli. Tu dici “non lo appassionano le dispute che rischiano di fomentare le divisioni … Ha compreso da tempo che l’unità degli antifascisti è un elemento indispensabile per la vittoria …”; poi citi Koestler: “sembra che la Spagna debba essere non soltanto il palcoscenico per la prova generale della seconda guerra mondiale, ma quello per una lotta fratricida in seno alla sinistra europea”… In questa nostra chiacchierata abbiamo parlato molto della Spagna, e relativamente poco del protagonista del tuo libro. Volevo dunque concludere chiedendoti cosa ti ha lasciato la conoscenza di Canzi, sia per le qualità umane sia per le sue capacità di sintesi politica.

I.T.: La prima cosa che mi ha sorpreso positivamente è la profondità di quella capacità di sintesi. Canzi non è un ideologo, è un uomo d’azione; ciò nonostante dimostra incredibili capacità intuitive.
Direi però che nella sua capacità di cercare un punto di sintesi e nella volontà di perseguire sempre, ad ogni costo, l’unità degli antifascisti, gioca molto lo spessore umano, più che le attitudini politiche, ed al limite un certo pragmatismo. L’uomo Canzi ha capito, in buona sostanza, che per difendere l’idea libertaria (cui resterà profondamente legato per tutta la vita) bisogna innanzitutto scongiurare l’affermazione di un nemico “totale” quale è il fascismo. Direi che altra peculiarità dell’uomo è il non lasciare mai nulla di intentato, senza lasciarsi andare a bizantinismi. Ecco il perché di una vita vissuta sempre in trincea: nel 21/22 è con gli Arditi del Popolo a difendere i quartieri popolari di Piacenza; in esilio in Francia sarà in prima linea con gli attivisti antifascisti; in Spagna sarà fra i primi ad arrivare… Ma questa “stella polare” che lo guiderà non gli farà mai svendere la sua identità: lui resterà fedele all’anarchia per tutta la vita. E credo che tutti abbiano capito la sincerità delle sue scelte, e che questo abbia contribuito a dargli un’autorevolezza morale riconosciuta largamente, anche quando fu costretto a scelte minoritarie e sofferte. Devi sapere, infatti, che dopo i fatti sanguinosi del maggio ’37 a Barcellona, dopo la repressione stalinista, la maggior parte degli anarchici italiani sceglierà di tornare in patria. Canzi no, deciderà di restare, ma lo farà in modo dignitoso e manifestando con forza il suo sdegno. Lo farà in molti modi: a me piace ricordarne una lettera, in cui sceglierà di dare voce ad un compagno anarchico morto proprio in una battaglia attorno ad Huesca. “Non dimentichiamoci cosa diceva Vittorio: anche se nelle retrovie stanno sabotando la rivoluzione, il nostro posto è qui, a combattere il fascismo”.
Credo che in questo episodio ci sia tutto lo spessore umano di Canzi. Lui vive il maggio di sangue in prima persona, e ne esce profondamente segnato: è lui che va a riconoscere la salma di Camillo Berneri, uno dei militanti libertari uccisi dalla polizia stalinista. Berneri e Canzi erano molto legati (tra l’altro la vedova Berneri farà una bellissima orazione funebre, quando morirà Canzi), e di fronte a questa tragedia Canzi non starà certo zitto (anzi, comincerà a parlare chiaramente di “fascismo rosso”), ma ugualmente resterà in Spagna a combattere. Una contraddizione? No: semplicemente per lui era vitale far prevalere l’aspetto unitario dell’antifascismo, fin dove possibile…
Insomma, è vero che la storia non si ripete mai due volte allo stesso modo, ma penso che siamo di fronte ad una lezione che io sento molto attuale: Canzi ci dice che in determinate circostanze bisogna riuscire a coniugare la propria radicalità con l’esigenza di coesione. Ma ci dice pure che per fare questo non ci vuole solo intelligenza politica, ma anche (e soprattutto) sincera passione e forti tensioni ideali.

Francesco “baro” Barilli, di Ecomancina.com – Gennaio 2006

NOTA:
E’ possibile ricevere a casa “Il Colonnello anarchico. Emilio Canzi e la guerra civile spagnola” ordinandolo tramite vaglia postale (12 euro più un euro per spese postali), indicando nella causale il titolo del libro. Il vaglia è da intestare a:
Scritture s.c.
Via Buffalari 8/b
29100 Piacenza

Potete anche ordinarlo contattando via mail l’editore a questo indirizzo:
edizioniscritture@libero.it

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