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pubblicato il 3.04.07
2007/04/09->22 Lombardia: sentieri partigiani
·

Da www.olinda.org

Sentieri Partigiani

“Certi uomini sono quello che i tempi richiedono. Si battono, a volte muoiono, per cose che prima di tutto riguardano loro stessi. Compiono scelte che il senno degli altri e il senno di poi stringono nella morsa tra diffamazione ed epica di stato. Scelte estreme, fatte a volte senza un chiaro perché, per il senso dell’ingiustizia provata sulla pelle, per elementare e sacrosanta volontà di riscatto….le storie non sono che asce di guerra da disseppellire”

(Da Asce di Guerra . Ravagli. WU MING)

Itinerari sulle montagne, che videro protagonisti i partigiani nella lotta di Liberazione dall’oppressore nazifascista. L’escursione naturalistica come strumento mnemonico, affinchè non si disperda quel patrimonio di ideali e di libertà, che furono nerbo nel sangue di queste donne ed uomini..

Info:
02-66200646 segreteria Olinda
339-7282610 “Fuori Percorso”

Lasciate un vostro contatto su sport@olinda.org


09/04/2007: La Battaglia di Buglio

Buglio in Monte il 16 Giugno 1944

Con lo sbarco in Normandia nel mese di giugno fu impartito l’ordine dal CLNAI alle forze partigiane di impegnare al massimo le truppe nazifasciste col fine di allargare il conflitto. In quest’ottica furono portate avanti dai partigiani tutte le azioni durante il mese di giugno e luglio; la liberazione di Buglio, caratterizzata da una forte partecipazione popolare, ebbe un valore essenzialmente simbolico, anche se sul piano strategico rivelò degli errori, poi duramente pagati dai partigiani e dalla popolazione civile.

Buglio per pochi giorni visse un clima che prefigurava l’istituzione della democrazia: fu deposto il podesta, simbolo del potere centrale, e venne eletto liberamente il sindaco; si tennero numerose assemblee popolari, dove uomini e donne potevano parlare liberamente; i viveri ammassati, destinati ai maggiorenti fascisti furono restituiti alla popolazione.

La repressione, preannunciata dal “Popolo valtellinese”, non si fece attendere. Il 16 giugno 1944 tedeschi, polacchi e brigatisti neri scatenarono un’offensiva in grande stile. Con un gran numero di uomini, erano circa mille, diedero alla caccia dei partigiani, che erano pochi e non tutti pratici dei luoghi (nel gruppo vi erano diversi milanesi).

Nonostante l’inferiorità numerica i partigiani si batterono da leoni. Gli avversari però furono implacabili: “venivano avanti i cosacchi, sparando all’impazzata e dietro i tedeschi ed i fascisti” (dal discorso di Camillo Buglio il 21 Giugno 1964). Accerchiati e catturati furono portati presso il ponte del mulino, e là fucilati. Alla fine rimasero sul terreno 8 civili e 9 patrioti tutti giovanissimi.

Clemente Valenti, Luciano Cecchiottini, Sergio Bollina, Virgilio Bianchi, Virginio Nicocelli, Ferruccio Zamboni, Luciano Gabella. Pierino Reda, “il taciturno fornaretto di Ardenno” secondo la poetica ed affettuosa definizione del partigiano Camillo, fu trucidati presso il cimitero di Buglio. Di solo 16 anni, il cui corpo, orrendamente bruciato dai fascisti, fu ritrovato solamente alcuni giorni dopo.

E come dimenticare l’angoscia della Caterina Borromini, che mentre lasciava il paese, mentre già bruciavano delle case, con i suoi quattro figli, vide cadere, raggiunti da una raffica di mitragliatrice, il figlio Tarcisio che portava sulle spalle la sorellina Gemma di soli due anni. “Giacevano a terra sanguinanti ed i loro lamenti erano soffocati dalle mie grida, mentre Oreste ed Amato, gli altri due miei figli, sdraiati a terra sembravano cuccioli impauriti. Non ricordo quanto tempo trascorse prima che i miei figli cessassero di vivere. Ricordo solo che la piccola Gemma chiamò tre volte il fratello prima di morire, ma lui non potè risponderle perché era già morto”. La testimonianza è stata raccolta da un altro figlio della signora Caterina, nato un anno dopoi fatti, e che porta il nome del fratello morto.

L’estate del 1944 per Buglio (e non solo per Buglio purtroppo) fu segnata dal terrore e dalle distruzioni: ben 36 case furono incendiate, e la stessa sorte toccò a stalle e fienili. Così la gente del paese, già stremata dalla guerra, e ridotta alla miseria, perse anche i beni essenziali per la modesta economia locale

Le ferite peggiori, tuttavia, furono quelle morali ed affettive, soprattutto per i ragazzi, costretti ad assistere a violenze di ogni genere. Benito De Giovanni che nel ’44 aveva 8 anni ben ricorda le grida dei morenti e la disperazione dei parenti e dei compaesani della montagna di Buglio….

Per la forte valenza simbolica che l’episodio di Buglio aveva acquistato nella contrapposizione tra libertà democratica ed arbitrio violento della dittatura, il paese, subito dopo la Liberazione, fu scelto per l’esecuzione della condanna a morte pronunciata dal tribunale insurrezionale, nei confronti di 13 fascisti, considerarti materialmente e moralmente responsabili di tante violenze inferte alla popolazione valtellinese.

Link utili:
ANPI Morbegno: 0342-610181


15/04/2007: VII Brigata Matteotti

I FATTI DI PROVAGLIO VAL SABBIA

Santo Persavalli, gavardese classe 1926, ricorda in queste pagine l’ultimo anno di guerra, che lo vide protagonista di numerosi fatti legati alla lotta partigiana, culminati, il 5 marzo 1945, con l’eccidio di Provaglio Val Sabbia, dove 10 partigiani della 7ª Brigata Matteotti vennero fucilati dalle Brigate Nere, dopo essere stati catturati in seguito ad uno scontro a fuoco sul Monte Besume. “Avevo solo 18 anni, ma il 16 giugno del 1944 fui chiamato per andare sotto le armi in Germania, per addestramento, così almeno si diceva allora. Con l’amico Capponi (che verrà poi ucciso a Provaglio) decidemmo di non presentarci e preferimmo nasconderci sul colle di San Martino, presso Rampeniga di Muscoline. La passammo liscia fino agli ultimi giorni di settembre, quando una mattina la polizia fascista ci trovò nascosti in un ricovero di fortuna scavato sotto un argine e ci arrestò. Portati in caserma a Gavardo, fummo interrogati e fortunatamente liberati il giorno successivo. Tornammo a nasconderci e non accadde più nulla di importante fino ai primi di dicembre del 44 quando, saputo che Rino Facchetti (altro partigiano gavardese) era sul Monte Tesio, agli ordini del comandante Stefano Allocchio, decisi di raggiungerlo, ma questa iniziale permanenza in Tesio durò poco, poiché verso la metà del mese Stefano venne arrestato dai fascisti e tradotto in carcere a Brescia.

Il Tesio era diventato un luogo pericoloso, per cui bisognava spostarsi nuovamente e quando venimmo informati che a Prandaglio, presso la Madonna della Neve, si trovavano i partigiani della 7ª Brigata Matteotti decidemmo, Rino ed io, di raggiungerli per arruolarci, cosa che in effetti facemmo rapidamente.

L’inverno di quell’anno fu lungo e molto freddo, con abbondanti nevicate che ci indussero a scendere a Prandaglio, dove restammo nascosti fino al 5 o al 6 di febbraio del 45, quando un avviso delle staffette partigiane ci informò di un imminente rastrellamento. Tutta la brigata (17 o 18 persone) si trasferì nuovamente sul Tesio, dopo aver nascosto le armi di cui disponevamo nel cimitero di Prandaglio. Venne il rastrellamento, i militi fascisti trovarono le armi ed arrestarono il Parroco del paese ed un partigiano chiamato Ridolini. Noi intanto eravamo di nuovo sul Tesio, dove restammo un paio di settimane nella cascina del Comune di Gavardo. Ogni rifugio non era mai sicuro per molto tempo e dunque occorreva trasferirsi continuamente, come in effetti avvenne anche in quella occasione perché un’altra informazione delle staffette ci informò dell’ennesimo rastrellamento.

In quel periodo, era circa la metà di febbraio, il nostro comandante Giorgio formò una squadra di uomini composta, oltre che da lui stesso, da Rino Facchetti , da un Ufficiale belga, un partigiano di Maderno e dal sottoscritto. Avevamo un compito pericoloso, si trattava di disarmare quattro poliziotti a Doneghe di Gavardo, per rifornire di armi la brigata. La cosa non andò come previsto e anzi si trasformò in una pericolosa tragedia; accadde infatti che mentre uscivamo dalla casa della sorella di Rino per recarci a compiere la nostra missione ci imbattemmo in due poliziotti. Prontamente Rino intimò loro la resa, seguito dal comandante Giorgio che impugnava una pistola dalla quale, involontariamente, partì un colpo che uccise il brigadiere. Fuggimmo verso le Coste di Sant’Eusebio, e naturalmente l’operazione andò a monte. Dopo due giorni ci raggiunse Vacinaletti, una staffetta di Vallio Terme, che ci guidò sul monte Ere da dove, il 27 febbraio, partimmo per Provaglio Val Sabbia. Era infatti giunto l’ordine di aggregarci al gruppo di Provaglio, e per questo venne a prenderci una guida di Sabbio Chiese, che ci accompagnò per poi rimanere con noi.

Arrivammo sul Monte Besume il 28 febbraio del 45, ma già il 3 marzo Poli, una staffetta delle Fiamme Verdi, ci informò di un nuovo imminente rastrellamento. Il comandante della brigata Baronchelli ed il vice capo Signori chiamarono la guida di Sabbio ed un altro di Prandaglio per mandarli in esplorazione a verificare se vi fosse la possibilità di tornare in Selvapiana, sul monte Magno. Il mattino successivo alle 5, era il 4 marzo, una delle due sentinelle di guardia scese ad Arveaco la frazione di Provaglio Val Sabbia posta più in alto, ai piedi del monte Besume, per cercare un po’ di latte, ma si imbatté nelle Brigate Nere che salivano per il monte, evidentemente bene informate della nostra presenza in quanto avevano preso la direzione precisa per raggiungerci e circondarci. La sentinella tentò di nascondersi in una siepe, ma fu scoperta ed un milite delle Brigate Nere sparò e la ferì alle gambe.

La raffica di mitra fu udita dalla seconda sentinella che si precipitò nella stalla dove dormivamo a svegliarci. Prontamente il capo mi ordinò di uscire e verificare se eravamo circondati o se vi erano vie di fuga; quando più tardi gli comunicai che verso Treviso Bresciano la via sembrava libera, ordinò a me, a mio fratello Isacco, a Rino e ad Amolini di costeggiare il monte e portarci sulla cima del Besume (dove ora c’è la chiesa), per osservare meglio e per aprire un’eventuale via di fuga. Gli altri non riuscirono ad allontanarsi dal fienile perché scoppiò una furiosa battaglia, nella quale il vice capo venne ferito. Dopo 3 ore e 40 minuti di battaglia restammo tutti senza munizioni, del resto disponevamo solo di armamento personale, pistola e mitra. Siccome anche i fascisti non sparavano più provammo a sporgerci dai nostri nascondigli e scoprimmo così che i nostri compagni, non potendo né lottare né fuggire, si stavano arrendendo. Dovevamo anche noi prendere una decisione: Amolini era dell’idea di arrenderci tutti per rimanere uniti, anche a costo di finire in Germania o in prigione nel Castello a Brescia, ma io ero sicuro, dopo i fatti accaduti a Doneghe, che sarei stato impiccato a Gavardo insieme a Rino, dato che sulla nostra testa c’era una taglia di 150.000 lire, che a quell’epoca erano certamente una grossa somma. Convinti anche gli altri a fuggire, partimmo per il monte Spino, dove sapevamo essere alloggiato un distaccamento delle Brigate Matteotti e dove fra l’altro conoscevo personalmente il partigiano Damioli Lorando.

Fu un viaggio tremendo, da Provaglio allo Spino, passando per la Degagna, sempre di corsa e con la paura di essere seguiti, con un triste presagio nel cuore per la sorte dei nostri compagni. Finalmente arrivati chiedemmo ad un uomo fuori da un fienile se sapeva della presenza in zona di partigiani, ma questi ci disse non sapere niente. Il caso volle che proprio il Damioli che io cercavo fosse in quel fienile e dunque, udita la mia voce, uscisse ad accoglierci. Raccontammo il fatto di Provaglio, che impressionò tutti i presenti e li convinse di essere anche loro in pericolo perché avremmo potuto essere stati seguiti, per cui bisognava, per l’ennesima volta trasferirci in un luogo più sicuro.

Il 5 marzo ci recammo a Soprazzocco, dove a San Giacomo ci ospitò mia sorella, dalla quale restammo per un paio di giorni, e dove apprendemmo che i nostri compagni erano stati tutti fucilati, ad eccezione del vice comandante che, essendo ferito in battaglia, era stato ucciso sul posto. Quel che successe ai nostri compagni è ormai risaputo, dopo essersi arresi furono portati a Vestone, poi a Casto dove c’era un comando delle Brigate Nere, e fu lì che si decise di non portarli in prigione. Infatti l’ufficiale che li aveva catturati volle riportarli sul campo di battaglia per fucilarli, ma al loro rifiuto di proseguire a piedi per la montagna, qualcuno era anche stato torturato, decise di fucilarli a Cesane di Provaglio Val Sabbia, dove oggi c’è il monumento che ricorda il loro sacrificio.

Potemmo rientrare in Gavardo solo il 26 Aprile.”

Link utili:
segreteria ANPI Provaglio Valsabbia


22/04/2007: La battaglia di Megolo

Megolo il 13 Febbraio 1944

Negli anni Quaranta, la famiglia Beltrami possedeva, già da alcune generazioni, una casa di vacanza in questa località. L’architetto Filippo Maria Beltrami, ”ël scior Filippo”, come era chiamato in zona, era conosciuto e stimato tra gli abitanti di Cireggio. Nell’autunno 1942, in seguito a un disastroso bombardamento su Milano, Beltrami decise di trasferire tutta la famiglia (la moglie Giuliana e i figli) nella casa di Cireggio. Egli continuò invece a prestare servizio nell’esercito a Milano tra le strade della città devastata. L’8 settembre 1943, la notizia dell’armistizio colse impreparate le truppe del Regio Esercito, lasciando il Paese in balia dell’occupazione nazista. L’architetto Beltrami riuscì fortunosamente a fuggire dalla caserma di Baggio (MI), ormai circondata dalla truppe tedesche e, dopo quattro giorni, raggiunse in bicicletta Cireggio. «Anche sulla montagna di Omegna si era formato un gruppo di “sbandati”, come allora si chiamavano, collegati con amici ed ex commilitoni nascosti in città e nei dintorni». Decisi a combattere l’occupante chiederanno a Beltrami di prendere il comando della nascente formazione partigiana. Il 20 settembre 1943, la formazione guidata da Beltrami lasciava Cireggio per le baite sopra Quarna, dando inizio alla lotta partigiana. Neppure un anno più tardi, dopo la battaglia di Megolo, il 14 febbraio 1944, Cireggio accoglieva addolorata la salma del suo “Capitano”, insieme a quella di Antonio Di Dio, per la celebrazione dei funerali.

Per via della posizione dominante il lago d’Orta e a pochi chilometri da Omegna, Quarna divenne la prima naturale base dal “Capitano” Filippo Maria Beltrami e dai suoi uomini dopo l’8 settembre 1943. Da questa località provenivano anche alcuni dei ragazzi che costituirono il primo nucleo della formazione partigiana. Sulle ontagne circostanti diversi alpeggi permisero di alloggiare la formazione durante l’autunno e l’inverno del 1943. Già il 20 settembre, l’alpe Frera divenne la sede del primo nucleo agli ordini di Beltrami, il cosiddetto gruppo “Quarna”. Durante la notte del 28 ottobre 1943, un plotone della milizia fascista di Gravellona Toce sferrò un attacco alla postazione partigiana. L’azione fascista fallì, ma da quella notte le due abitazioni, in cui erano alloggiati i partigiani, furono piantonate da squadre del gruppo per il timore di nuovi attacchi e soprattutto prese corpo l’idea di spostarsi in una zona più sicura. Il mese di permanenza a Quarna fu utilizzato prevalentemente per organizzare il gruppo e recuperare gli armamenti. Ormai forte di quarantacinque uomini, la formazione si spostò dall’alpe Frera all’alpe Camasca, in una situazione relativamente più sicura. Il 18 dicembre, a Buccione, avvenne un incidente con la formazione dei fratelli Antonio e Alfredo Di Dio, stanziata a Massiola: l’auto su cui viaggiava il Capitano fu scambiata per tedesca e colpita; vennero feriti Beltrami con la moglie e morì il partigiano Franco Rossari. Beltrami, accompagnato da Giuliana, fu costretto a tornare a Quarna, ospite in un albergo, per quattro giorni. Durante tale periodo ricevette la visita di diversi esponenti dell’antifascismo e della Resistenza e anche di alcuni emissari del fascismo novarese. All’epoca, infatti, era in atto uno scontro interno delle diverse componenti fasciste della Repubblica sociale italiana e l’ala moderata contattò il “Capitano” per discutere dell’eventualità di creare una zona neutrale nel Cusio al fine di legittimare agli occhi della gente la neonata Repubblica. Per tutta risposta, nei giorni successivi, tra il 23 e il 25 dicembre 1943, fu creata la “brigata patrioti Valstrona”, costituita da due compagnie, la “Quarna” e la “Massiola”. Nonostante l’incidente del Buccione, il gruppo di Beltrami si fuse infatti con quello dei fratelli Antonio e Alfredo Di Dio, intensificando la lotta.

Sopra Quarna, il gruppo di baite di Camasca divenne il centro operativo della formazione partigiana, attiva nel Cusio tra l’ottobre e il dicembre 1943 sotto la guida di Filippo Maria Beltrami. Dalle baite di Camasca, il gruppo crebbe di numero e continuò a operare in zona: a Pettenasco, a Gargallo, a Lagna, a San Maurizio d’Opaglio, a Cesara, a Pella e in altre località del Cusio con azioni audaci volte al recupero di armi, viveri, vestiario. L’11 novembre del 1943 una squadra al comando del tenente Bruno Rutto, attaccò il presidio di Gravellona Toce, mentre circa sessanta uomini, al comando del “Capitano” si spostavano verso Ornavasso in appoggio all’insurrezione di Villadossola. Nel frattempo tra le formazioni operanti nella zona Valsesia, Cusio, Ossola, Verbano si strinsero accordi ed alleanze operative; così il 30 novembre 1943 il gruppo “Quarna” guidato dal “Capitano” Beltrami, insieme con le formazioni della Valsesia al comando di Eraldo Gastone “Ciro” e del commissario “Cino” Moscatelli, occupò la città di Omegna, distruggendo la sede del locale fascio repubblicano. L’azione si svolse tra la folla festante e praticamente senza necessità di scontro armato. Soltanto nel pomeriggio, quando ormai le forze partigiane si erano già ritirate, la milizia di Omegna rientrò in città sparando a casaccio ed uccidendo un bambino, Luciano Masciadri. Il funerale del piccolo divenne occasione per rinsaldare il forte legame tra la popolazione e “quelli della montagna”. Il 3 dicembre più di cinquemila persone (compresi i partigiani che girarono indisturbati) parteciparono alle esequie mentre le truppe fasciste rimasero rintanate in caserma. Per tutto il dicembre 1943 gli uomini di Beltrami, partendo dagli alpeggi di Camasca, insidiarono il controllo del Cusio alle forze della Repubblica sociale italiana. Il 23 dicembre 1943, il gruppo “Quarna” fu obbligato a trasferirsi dall’alpe Camasca a Campello Monti, in Valle Strona, in seguito alla minaccia dei tedeschi di bombardare per rappresaglia l’abitato di Quarna. Il 22 dicembre 1943 l’intera formazione di Beltrami si trasferì e occupò la valle. Tra il 23 e il 25 dicembre avvenne la fusione delle due formazioni nella “Brigata Patrioti Valstrona”, costituita da due compagnie, la “Quarna” e la “Massiola”. A causa della costituzione di un forte presidio germanico a Omegna, la Brigata di Beltrami fu costretta ad abbandonare anche la Valstrona alla fine del gennaio ’44.

Una strada da Omegna conduceva fino a Campello (1323 metri s.l.m..), salendo per una ventina di chilometri lungo la Valstrona. Una mulattiera, passando per la bocchetta di Rimella, collegava Campello con la Valsesia. Una posizione così strategica fu la scelta più logica per il “Capitano” Filippo Maria Beltrami, dopo che era stato costretto ad abbandonare con i suoi uomini gli alpeggi sopra Quarna, tra il 22 e il 23 dicembre 1943, dietro la pressione delle puntate nazifasciste. Una valle stretta, con un’unica strada d’accesso, facilmente controllabile, sembrava il luogo migliore per costituire la nuova base per la formazione partigiana. Il “Capitano” Beltrami pose quindi il comando della “Brigata Patrioti Valstrona” a Campello Monti dove, il 3 gennaio 1944, salirono i componenti del Comitato di Liberazione Nazionale provinciale per stabilire nuovi rapporti di collaborazione. Nella località di Forno fu posto un distaccamento agli ordini di Bruno Rutto. A Chesio e Strona, a controllare l’unica strada d’accesso, furono posizionate vedette armate e collegate col comando tramite staffette. Il capitano Alberto Li Gobbi mise a punto un piano di difesa che prevedeva il posizionamento di mine presso i ponti che conducevano a Fornero. Da queste postazioni nell’alta valle la formazione continuò ad agire nella zone del Cusio ed oltre; tra il 16 ed il 18 gennaio un centinaio di uomini guidati dal “Capitano Mascherato” (Alberto Li Gobbi) vennero inviati in Valsesia in aiuto alla formazione di “Cino” Moscatelli. La Valstrona, che sembrava inattaccabile, risultava però inadatta ad ospitare il crescente numero di giovani che andavano unendosi alla formazione: quasi 300 nel gennaio 1944. Così fu abbandonata dopo il primo assalto delle truppe tedesche proprio alla fine del mese. Il trasferimento risultò, in pieno inverno un’operazione complessa e difficile, che in parte disgregò la formazione. Già il 22 gennaio il tenente Cesare Bettini, accampato coi suoi uomini sopra Campello Monti, ricevette l’ordine di dirigersi verso la Valle del Toce insieme ad alcuni ex-prigionieri inglesi e a una famiglia ebrea. La zona di Campello Monti era infatti divenuta nel frattempo luogo di rifugio non solo di renitenti e aspiranti partigiani, ma di persone in pericolo. Sotto la pressione delle truppe nazifasciste, meglio armate ed equipaggiate, le formazioni partigiane di guardia all’ingresso della valle dovettero abbandonate le postazioni, senza riuscire a far brillare alcuna mina. Tra il 28 ed il 30 gennaio ’44, tutti i gruppi della “Brigata Patrioti Valstrona” agli ordini di Beltrami lasciarono così la Valstrona per dirigersi verso Pieve Vergonte e l’Ossola.

Non tutti gli uomini dei circa trecento che costituivano la formazione partigiana “brigata patrioti Valstrona” al comando del “Capitano” Filippo Maria Beltrami, giunsero a Megolo, frazione di Pieve Vergonte alla fine del gennaio 1944. La traversata invernale verso la valle del Toce, seguita all’abbandono della Valstrona e di Campello Monti sotto la pressione degli attacchi nazifascisti, fu molto faticosa: una sessantina di uomini non resse e depose le armi; un gruppo sbagliò sentiero; alcuni abbandonarono la formazione durante il tragitto. A Megolo, col “Capitano”, giunse soltanto una cinquantina di uomini. Il Capitano aveva stabilito il punto d’incontro all’Osteria del Ramo della famiglia Giavina, che fu oltremodo ospitale e generosa. Nelle due settimane in cui si fermò a Megolo, Beltrami attese i diversi gruppi per ricostituire la formazione, allontanandosi soltanto per effettuare alcune puntate e un attacco alla caserma di Vogogna. Il 13 febbraio a Megolo ci fu lo scontro decisivo contro le truppe nazifasciste. Quella battaglia segnò l’apice e contemporaneamente la fine della “Brigata Patrioti Valstrona”. Caddero combattendo Antibo Carlo, Beltrami Filippo Maria, Bressani Bassano Giovanni, Carletti Aldo, Citterio Giovanni, Clavena Angelo, Creola Bartolomeo, Di Dio Antonio, Gorla Emilio, Marino Paolo, Pajetta Gaspare e Toninelli Elio.

«La mattina del 13 febbraio mi svegliai verso le sei. Fino a quell’ora tutto appariva tranquillo. Verso le sette un partigiano andò a lavarsi alla cascata, che si trova più indietro e più in alto e da dove si vede bene il paese. Tornò subito ansimante, stravolto, gridando: “ Ci sono i tedeschi, ci sono i tedeschi, stanno bruciando il paese!». L’allarme fu dato immediatamente, e in pochi minuti la formazione fu sul piede di guerra; Il cap. Beltrami cominciava a dare disposizioni per la battaglia. La mitragliatrice pesante fu piazzata in centro, in una postazione da dove poteva molto bene battere la valle, la stradetta e il paese. Un plotone di una quindicina di uomini fu mandato sul lato sinistro, un altro sul lato destro, e il resto sparpagliato in modo da poter battere i vari sentieri. La battaglia era incominciata, e, credo, ognuno dei superstiti può raccontarne solamente la parte che ha vissuto. Io ricordo che mi trovavo vicino al comando in attesa di ordini quando giunse un ragazzo con un fucile mitragliatore reda, e si lamentava di non avere potuto rintracciare il suo porta-munizioni. Partii dunque con lui, con la cassetta dei caricatori in spalla. La ostazione abituale di quell’arma era ad una ventina di metri sotto le baite, in un piccolo ripiano protetto da alcuni macigni. Sparammo subito alcune raffiche, alle quali il nemico rispose con un violento fuoco di mitraglia, e subito dopo con un tiro. abbastanza preciso di cannoncino e di mortaio.Nel frattempo i tedeschi e i fascisti avevano iniziato la scalata. Da dove ero, vedevo i tedeschi che sostenevano l’attacco al centro del nostro schieramento. Erano dislocati a pochi metri l’uno dall’altro e si nascondevano accuratamente dal nostro tiro, uscendo dai loro ripari solo per fare qualche balzo rapido in avanti e poi nascondersi nuovamente. Sotto, mitragliatrici, mitragliere, cannoncini e mortai sostenevano l’attacco con un fuoco d’inferno, diretto soprattutto contro le nostre postazioni di armi automatiche. Vidi morire anche il capitano Beltrami. Sparammo così, con molte difficoltà, alcuni caricatori. Mi ricordo nettamente come un camion preso di mira da noi, crivellato di colpi, abbia continuato, bandando un poco, la sua strada per rifugiarsi dietro ad una casa, nel paese. Ad un certo punto, come succede sovente e con il mitragliatore breda, l’arma s’inceppò. La situazione era preoccupante. Eravamo lì, ventre a terra, mentre a pochi centimetri da noi fischiavano le pallottole, e la via della ritirata era sicuramente battuta dal fuoco nemico. Tentammo comunque di ricongiungerci con gli altri, e in quell’occasione imparai a strisciare col naso a terra. In alcuni minuti arrivai in un pianoro più vasto, dove vi erano alcuni castani ed alcuni grossi macigni. Lì vi erano Beltrami, Redi, Antonio Di Dio e Pajetta. A mia volta ‘mi piazzai dietro un grosso castano, alla sinistra degli altri, un metro più in alto forse. Dopo pochi minuti sentiamo la voce del mio mitragliere che ancora prima di spuntar fuori, ci chiama. Era lui infatti, che con maggiori difficoltà di me, avendo seguito un altro itinerario, era giunto in salvo. Ma aveva dovuto abbandonare l’arma; e il Capitano lo rinviò a prenderla. Dopo qualche secondo, in mezzo alle raffiche continue, udimmo un lamento, così morì, per primo, il mitragliere che avevo conosciuto forse un’ora prima. Sulla nostra destra si era appostato Gianni, il nostro compagno studente. Me ne accorsi quando mi sentii chiamare per nome e lanciare alcuni frizzi. Ma poco dopo anche da quella parte venne un lamento: « Ai! Aiii! » « Ritirati, Ritirati! » grida il capitano. Sentiamo come muoversi e poi « Haan Haaan! » Ed è finita. Anche Gianni è morto…»

Vermicelli Gino

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