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Strage di Brescia, Rauti in giudizio
Andrea Santini, 04 ottobre 2007
Piazza della Loggia
La decisione è stata presa dal pm che si occupa del caso. Insieme al fondatore di Ordine, rinviati a giudizio anche l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino e uno dei suoi “infiltrati”, Giovanni Maifredi
La pista nera, nella strage di Piazza della Loggia a Brescia, porta un altro tassello all’inchiesta. E nuovi nomi, dopo quelli di Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte. Un tassello annunciato, che adesso sfocia nella richiesta del pm bresciano di rinviare a giudizio, assieme ai tre, e sempre con l’accusa di concorso in strage, altri tre personaggi di spicco: il fondatore di Ordine nuovo Pino Rauti, l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino e uno dei suoi “infiltrati”, Giovanni Maifredi, autista del ministro dell’Interno dell’epoca, Paolo Emilio Taviani, ma soprattutto uomo dei servizi segreti inserito da Delfino in Ordine nuovo.
La nuova mappa disegnata dalla Procura di Brescia porta la coda delle piste nere molto indietro, agli anni dell’immediato dopoguerra, quando l’Oss di Donovan e Allan Dulles, l’antenato della Cia in Europa, cominciò ad arruolare fascisti per poi utilizzarli nella strategia della tensione. Un’operazione che ha avuto molti alleati nelle istituzioni della neonata Repubblica e che continua, dopo oltre mezzo secolo, a coprire responsabilità e depistare inquirenti.
L’inchiesta della Procura di Brescia parte dalle ammissioni di Maurizio Tramonte, noto ai servizi come “fonte Tritone”, presente in Piazza della Loggia al momento dell’esplosione, e Carlo Digilio, armiere di Ordine nuovo, dove lo chiamavano “zio Otto” a causa della sua pistola preferita, la Otto Lebel, ma anche agente della Cia con il nome in codice “Erodono”, ereditato dal padre, anche lui vecchio agente della Cia. Un personaggio inquietante e complesso, coinvolto in tutta la strategia della tensione, dalla strage di Piazza Fontana fino a Brescia, che con i magistrati ha parlato a lungo, stabilendo quelli che sono divenuti i capisaldi dell’inchiesta.
Secondo i magistrati, la bomba della strage sarebbe stata procurata da Delfo Zorzi e l’organizzazione dell’attentato affidata a Carlo Maria Maggi. Mainfredi avrebbe custodito la bomba, preparata dagli ordinovisti veneti, e a portarla in Piazza della Loggia sarebbe stato Giovanni Melioli, un ordinovista di Rovigo assolto per la strage di Bologna e morto negli anni novanta. Zorzi, attualmente cittadino giapponese con il nome di Hagen Roy, già coinvolto nella strage di Peteano e in quella di Piazza Fontana, condannato e poi assolto in secondo grado in entrambi i procedimenti, è oggi un uomo superprotetto. Tutte le richieste di estradizione nei suoi confronti vengono respinte: la legge giapponese infatti impedisce di consegnare un cittadino nipponico ad una potenza straniera. L’unica possibilità sarebbe la revoca della cittadinanza, ma è molto difficile, dato che Zorzi è sposato ad una giapponese ed è un conosciuto imprenditore di moda, con catene di negozi anche in Italia. Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, per la Procura era informato dell’attentato. Ma dovrà essere naturalmente provato. Finora l’accusa che lo colpisce è la stessa che ha portato in carcere Sofri per l’omicidio del commissario Calabresi.
Di tutto il gruppo, il personaggio più interessante resta l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino. La cui intera vita, e non solo la parentesi che lo coinvolge con i morti di Piazza della Loggia, sembra cucita agli schemi disegnati nel dopoguerra dagli uomini dell’Oss. Cinque anni fa il suo periodo d’oro è stato bruscamente interrotto, con una condanna a tre anni e quattro mesi per truffa aggravata confermata dalla Cassazione. Secondo la sentenza Delfino avrebbe approfittato del rapimento del suo amico Giuseppe Soffiantini per truffare alla famiglia 800 milioni delle vecchie lire con la promessa di far liberare il sequestrato. Una vicenda che, in qualche modo, lo lega alla strage di Brescia: pochi giorni prima di quel drammatico 28 maggio, nella notte a cavallo del 18 e del 19, in piazza del Mercato a Brescia salta in aria Silvio Ferrari, un giovane neofascista che stava trasportando dell’esplosivo con la sua Vespa. La fidanzata di Ferrari, Ombretta Giacomazzi, aveva allora 17 anni. Alcuni anni dopo Ombretta sposerà Carlo Soffiantini, figlio dell’imprenditore sardo. Secondo alcune testimonianze, quando era morto Ferrari, Delfino aveva arrestato Ombretta, costringendola a testimoniare il falso. E, subito dopo la strage, quel 28 maggio, è l’allora capitano Delfino a “scoprire” Ermanno Buzzi, una strana figura di fascista e mercante d’arte, che verrà poi ucciso in carcere, depistando l’indagine a lungo.
Figura inquietante, quella di Delfino, che la sentenza Soffiantini fa passare ingiustamente per un malvivente alla stregua di un ladro di polli. L’ex generale è molto, molto di più. Calabrese di Platì, paese ad altissima densità mafiosa, dopo il liceo classico a Locri entra nell’arma, scuola sottufficiali, da dove esce vicebrigadiere nel ‘57, approdando a Rho. Poi Modena, accademia militare, infine Roma, scuola ufficiali, da dove esce tenente. Nel ‘71 è a Brescia, e già voci lo indicano come uomo dei servizi segreti. E l’agente di collegamento con il Mar di Fumagalli, l’uomo che organizzava attentati in Alto Adige, ma che, si scoprirà poi, doveva dar luogo ad una “sperimentazione”, in modo che le autorità potessero organizzare il contrasto ad una eventuale rivolta vera. Maifredi, in quella operazione, è già suo collaboratore. E alla fine è sempre Delfino che arresta Fumagalli. Storie e uomini che si incrociano con la cosiddetta “Gladio”, o almeno con quella parte che ancora viene tenuta nascosta.
Due anni dopo, nel 1973, è il leggendario “capitano Palinuro” che partecipa alla riunione milanese in cui si gettano le basi per il Golpe Borghese. Lo stesso “capitano Palinuro” che forniva esplosivi alla Sam, le squadre azione mussolini. Naturalmente “Palinuro” è sempre lui, Delfino. Un pentito calabrese, Saverio Morabito, racconterà poi che, durante il sequestro di Aldo Moro, in via Fani c’era anche un uomo di Delfino, Antonio Nirta,un esponente della ‘ndrangheta. Un brigatista del gruppo che organizzò il sequestro, Antonio Casimirri, arrestato molti anni dopo, rivela di essere stato confidente di Delfino e di avergli anticipato le intenzioni delle Br di sequestrare il leader Dc, ma che Delfino invece di avvertire i magistrati aveva informati i servizi segreti. Ai commissari dell’Antimafia, che lo ascoltavano e che gli portavano una serie di testimonianze in cui veniva accusato di essere un uomo della Cia, Delfino rispondeva sgranando gli occhi: “Ma se vengo pedinato dalla Cia! Me ne sono dovuto addirittura andare dagli Stati Uniti”.
Sono solo alcuni exploit della carriera di Delfino, molto più complessa e interessante. Che, se il rinvio a giudizio richiesto a Brescia venisse accettato, potrebbe portare il generale alla sbarra, con una accusa che non prevede solo i tre anni dei ladri di polli. Potrebbe venir fuori qualche spicchio di verità sui misteri italiani? Finora non è successo, me niente vieta di sperare.