Il Progetto | |
magliette |
Un secolo di storia fascista alla base del razzismo di oggi.
Squadrismo, delazione ai danni degli ebrei in fuga in Svizzera, stragismo. Benvenuti nella capitale leghista
MANUELA CARTOSIO
A Varese chi getta un mozzicone per terra rischia una multa. L’ha istituita un paio d’anni fa la giunta leghista perché la «città giardino», la sua vetrina, ha da essere pulita, in ordine, perfetta. La città che ingigantisce un mozzicone è la stessa che rimpicciolisce il quasi-linciaggio per mano dei naziskin di Blood&Honour di un albanese. Colpevole d’essere albanese, come il giovane immigrato che ha ucciso a coltellate il barista di Besano Claudio Meggiorin. Una settimana dopo il funerale, gli striscioni degli ultras per «Claudino» sono ancora in piazza Monte Grappa, il cuore di Varese. C’è un filo nero, una tradizione, alle spalle dell’esplosione di violenza razzista innescata dall’omicidio di Besano. Risale più indietro dell’episodio del 1976, che un po’ tutti hanno ricordato in questi giorni, quando i tifosi della Mobilgirgi di Varese (la ex Ignis del cumenda Giovanni Borghi) accolsero i cestisti del Maccabi di Tel Aviv con slogan e simboli antisemiti. Nel processo che ne seguì, la Mobilgirgi non si costituì parte civile, rifiutò di chiedere una simbolica lira come risarcimento. Ripercorriamo quel filo nero con Franco Giannantoni, giornalista e storico di Varese, testimone oculare e archivio ambulante, la memoria prodigiosa di quelli che hanno imparato il mestiere quando google non c’era.
La torre littoria
Prima indicazione magistrale: «Guardiamo piazza Monte Grappa. La stanno ripavimentando, è un cantiere a cielo aperto che riassume il pezzo di storia che qui ci interessa». Ci sono gli edifici, tra cui spicca la torre littoria (poi ribattezzata «civica»), progettati dall’architetto Loreti che negli anni Trenta impresse il marchio littorio al «piccolo, candido borgo» (definita così da Sandro Giuliani, cantore di Mussolini). C’era, fino a poco tempo fa, una grande aiuola che la Lega spudoratamente aveva usato per disegnarci in mezzo il «Sole delle Alpi». La bruttura dev’essere sembrata eccessiva persino ai leghisti. Si sono pentiti, ma solo a metà. Per la ripavimentazione hanno fatto arrivare il marmo dal Nicaragua, «rigorosamente verde». E poi ci sono gli striscioni di Blood&Honour. Giovani rasati e tatuati che sventolano il tricolore, cantano Fratelli d’Italia, riciclano la paccottiglia di derivazione nazi-fascista e si ricollegano – magari senza saperlo – al razzismo «classico». Fossero davvero una destra «anti-sistema», dovrebbero confliggere con la Lega che a Varese è «il potere, comanda tutto». Invece, l’odio e l’intolleranza verso gli immigrati mettono d’accordo Lega e teste rasate da stadio. Lo slogan di Sangue&Onore «Difendi il tuo simile, distruggi il resto» è fascista, ma è «anche» leghismo allo stato puro, allude alla solidarietà ristretta su base etnico-comunitaria che caratterizza i populismi da spaesamento postindustriale, da fortezza assediata dalla globalizzazione. Un’analisi troppo sofisticata? Resta il fatto che gli imprenditori politici della Lega, «i Maroni, i Castelli», si sono «impossessati» delle gesta di Blood&Honour. Più che giustificarle, le hanno rivendicate. Bravi ragazzi, secondo il sindaco Aldo Fumagalli, al massimo «un po’ eccitati».
I commercianti di Varese che tirano giù le saracinesche quando sfilano due gatti dei Social Forum, questa volta sono stati sulla porta a rimirare un corteo che chiedeva «ordine» fatto «da pregiudicati per spaccio e rapina, ex sorvegliati speciali, indagati per risse e pestaggi». Tipetti che, dopo una sconfitta in trasferta del Varese calcio, hanno menato tre giocatori «negri» di cui la squadra si è rapidamente «liberata».
La cosa che più intristisce e preoccupa Giannantoni è il «silenzio imbarazzato» del centro sinistra sul tentato linciaggio. I Ds, eroici, si sono «spinti» a chiedere la convocazione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza. «Roba da prefetto», commenta, «ma non le vedono le scritte minacciose sotto lo studio dell’avvocato che ha accettato di difendere l’albanese omicida?». C’è poco da meravigliarsi, se si ricorda che a Varese il Pds, allora si chiamava ancora così, fu molto indulgente con la Lega nascente. Con quegli «uomini nuovi» fece una giunta «anomala». Poi il Carroccio si mise con Berlusca, ma i diessini di Varese la lezione non l’hanno imparata, continuano ad accarezzare la speranza che «Bobo» torni a girarsi dalla loro parte.
Da dove viene la carenza di nerbo democratico di Varese? Perché la città è sempre più a destra della media? Perché lì neofascismo e squadrismo hanno attecchito più che altrove? Il bandolo della matassa Giannantoni l’ha trovato, pur senza scadere nel determinismo storico, nelle formula «Varese laboratorio del collaborazionismo».
Il laboratorio inizia a funzionare nel 1926, quando Benito Mussolini – a cui Varese già nel `24 aveva attribuito la cittadinanza onoraria – eleva la città che fino ad allora dipendeva da Como al rango di capoluogo di provincia. Lo fa per ragioni militari – la frontiera e a due passi – ma soprattutto politiche. Il cavalier Benito coltiva l’ambizione di «italianizzare» il Canton Ticino che la Germania, non ancora alleata, vorrebbe invece «tedeschizzare». In Canton Ticino «vive complottanto una malvagia minoranza di fuoriusciti e di rinnegati sulla quale mai deve cessare la vigilanza del governo d’Italia». Preoccupano ancor di più il capo del fascismo i ventimila lavoratori che dalla zona di Varese emigrano ogni anno come stagionali in Svizzera. «Gente sana», ma «facile preda di ogni propaganda che instilli il veleno dell’odio e del rancore». Molto nelle condizioni politiche del Varesotto dipende «dallo stato d’animo delle masse che al principio della cattiva stagione rientrano dall’estero». Per evitare «sorprese dolorose» occorre «conoscere, dirigere ed eventualmente reprimere». Serve rafforzare in loco la presenza del governo, per questo Varese diventa provincia.
La città accoglie con entusiasmo la promozione. Non c’è bisogno d’importare da Roma un ceto politico amministrativo. Professionisti, piccoli e grandi imprenditori, commercianti indigeni si offrono volentieri. Nel polo dell’aeronautica (Caproni-Macchi-Siai Marchetti) cresce il numero degli occupati. La convergenza di due fattori – vicinanza del confine, presenza dell’industria bellica – fa di Varese un laboratorio del collaborazionismo. La città si «militarizza» assai più degli altri centri del Nord. Il 12 settembre del `43 i tedeschi entrano a Varese senza che si spari un colpo, accolti dalle donne che buttano fiori. «Che tristezza», annota il prevosto, monsignor Proserpio, «se ne pentiranno». In pochi giorni i tedeschi occupano la linea di confine con tre obiettivi: bloccare gli ebrei, bloccare la costituzione di bande partigiane, bloccare i renitenti. La Guardia di finanza, unica forza non fascista, passa in blocco in Svizzera. Le aziende belliche passano sotto l’ala «protettiva» del Reich. I salari sono discreti rispetto al resto dell’industria, e poi tutti hanno l’orticello. La resistenza di montagna è debole, a Varese città una piccola brigata gappista cade rapidamente per una serie di delazioni. Si sciopera per il pane e la pace solo nella fascia meridionale della provincia, non a Varese. Un ispettore delle Brigate Garibaldi trasmette al comando generale di Milano rapporti «sconcertati». Transita da Varese l’80% degli ebrei che passano in Svizzera. Pagano e anche di questo «commercio» si arricchisce Varese. Non mancano le delazioni, soprattutto da parte di albergatori che raddoppiano il guadagno «rivendendo» gli ebrei ai tedeschi.
Lo zoccolo duro
Finita la guerra, i fascisti di Varese diventano tranquillamente democristiani. Resta però uno zoccolo duro di professionisti e imprenditori che fino all’inizio degli anni Settanta garantirà all’Msi un buon 10% di voti, il doppio della media nazionale. Roma, Pisa e Varese sono le tre «piazze» su cui punta Almirante. Le sue parole d’ordine trovano interessato ascolto presso gli imprenditori varesini. Oltre all’Msi è attiva a Varese una pletora di sigle neofasciste: Partito della ricostruzione nazionale, Costituente nazionale rivoluzionaria, Comitato di emergenza e salute pubblica, Avanguardia nazionale, Squadre d’azione Zamberletti (è il titolare del bar più famoso di Varese), Squadre d’azione gaviratesi, Squadre d’azione Ettore Muti. Agiscono come squadracce, specializzate in agguati. Fino al 1974 quando, finalmente, anche a Varese si fa sentire la scossa del movimento sindacale e studentesco.
Dopo, la galassia neofascista restringe il numero dei militanti ma si incattivisce, dal manganello passa alla bombe, allo stragismo quasi realizzato. Il 28 marzo del `74 nella piazza del mercato di Varese alle 7,40 il fiorista Vittorio Brusa nota uno strano oggetto, un gomito di ghisa. Non sa che compressi dentro ci sono 3 etti di esplosivo. Lo tocca, la bomba esplode e Brusa finisce dilaniato sul tetto delle ferrovie Nord. Fosse scoppiata alle 10, com’era nei piani, le vittime sarebbero state decine, un anticipo in piena regola della strage di Piazza Loggia. Nell’ottobre del `74 Fabrizio Zani (Ordine nero) e Mario Di Giovanni (Avanguardia nazionale) vengono bloccati con tre chili di esplosivo. Obiettivo presunto: una diga sopra Luino o, più probabilmente, la tribuna centrale dello stadio di Masnago mentre si gioca Varese-Roma.
Per completare il quadro. Edgardo Sogno ama far festa a villa Mozzoni a Varese. Nel centro di ricerca della vicina Ispra lavora come dirigente Eliodoro Pomar, un palermitano che pensa d’avvelenare l’acquedotto di Roma; coinvolto nel golpe Borghese, ripara nella Spagna di Franco dove è punto di riferimento per tutto il neofascistume italico.
Questa la «febbre» che ha attraversato il corpo di Varese, «città che non ha mai tempo di fermarsi a pensare». Spenta quella febbre, dopo un decennio di relativa calma, si è accesa quella leghista. Ma questa è storia nota e qui ci fermiamo. Non senza aver chiesto al nostro Virgilio cosa l’ha tenuto legato a una città così poco amabile. Risposta: «Di qui si vede il Monte Rosa».
Il Manifesto
news