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LE NUOVE INVASIONI BARBARICHE
Breve viaggio nella cultura della destra radicale europea.
Oggi è scontato, parlando di estrema destra, trovarsi di fronte a campagne propagandistiche e sempre più violentemente xenofobe, così come non stupirsi di prese di posizione e di atti legislativi fortemente discriminatori verso i migranti, portati avanti da partiti conservatori o liberali. Ma addentrandoci tra le fila di quella che il giornalista Guido Caldiron ha definito destra plurale, ci imbattiamo in uno schema ideologico comune non solo alla cultura neofascista ma anche a gruppi e partiti politici, apparentemente distanti, presenti in tutta Europa.
Certo la cultura di destra è sempre stata razzista, ma è vero anche che l’importanza che ha assunto il tema dell’immigrazione alla fine del novecento, ha ben altre proporzioni rispetto agli anni ’30.
L’ estrema destra europea di oggi è inevitabilmente figlia della riorganizzazione ideologico-organizzativa avvenuta a partire dalla fine degli anni ’70 , quando cioè venne accantonato il lutto per la sconfitta del nazifascismo storico e i neofascisti si confrontarono con una società che cominciava a vivere una crisi socio-economica profonda. Più in generale, il mondo si trovò in una fase di ristrutturazione produttiva gigantesca (quella che lo storico E. J. Hobsbawm definì la “terza ondata rivoluzionaria novecentesca, 1974-1978”) che trasformò radicalmente le strutture socio-politiche in particolare dell’occidente, mettendo le basi per quella che sarebbe stata comunemente definita nei primi anni novanta ‘globalizzazione’.
Uno degli aspetti più macroscopici del nuovo paradigma sociale fu per l’appunto l’aumento vertiginoso dei flussi migratori verso l’Europa, che, connesso al peggioramento degli standard di vita dovuto al riassetto produttivo e alla conseguente messa in crisi del welfare state, creava una situazione sociale del tutto nuova e pericolosa. Ma si sa, in un ambiente culturale molto legato al proprio passato come quello neofascista, attraversato da fortissimi sentimenti revanchisti, era difficile abbandonare o modificare i vecchi strumenti ideologici e così si formò un inedito schema di lettura della realtà, dal sapore antico,ma applicato a problemi moderni che tuttavia riuscì rapidamente a fare proselitismo anche in ambiti certamente non ascrivibili alla famiglia politica della destra radicale.
Pertanto “gli squadristi del 2000”, sempre per citare Caldiron, si richiamarono per le loro crociate anti-immigrati al concetto di “guerra razziale”, inquadrando i fenomeni migratori in un’ottica perversa e fuorviante: i migranti, visti come barbari invasori, si sarebbero inevitabilmente scontrati con gli europei, difensori dei “valori del sangue e della terra” di hitleriana memoria; questa era ritenuta, in diversi ambienti culturali della destra radicale, la grande tendenza storica che avrebbe potuto finalmente riaprire i giochi ed essere una nuova chance per il fascismo europeo: sostanzialmente una occasione per poter ricostruire o continuare, a seconda dei gusti, il ‘sogno interrotto’ dall’esito del secondo conflitto mondiale. In questa ottica interpretativa, dunque, i flussi migratori non venivano letti sotto il profilo socio-economico, ma come l’ennesimo attacco agli assetti tradizionali del vecchio continente chiamato “Europa Nazione” secondo una definizione di Jean Thiriat, ex-SS belga divenuto nel dopoguerra un teorico molto apprezzato in alcuni ambienti neonazisti, che sostenne per primo la prospettiva continentale, invece di quella nazionale, nell’azione politica della destra radicale. L’impostazione europea di Thiriat negli anni ’80 era ormai patrimonio comune della maggioranza della destra radicale del vecchio continente, ne è prova il fatto che il concetto di “Europa Nazione” fosse stato assimilato negli slogans e nella musica dei giovani di destra: “L’Europa della pace romana/della pace di aratro e di spada…” cantava il gruppo musicale neofascista patavino La Compagnia dell’Anello durante le feste missine già nel ’78, esattamente come, in modo più rozzo, facendo un salto temporale, cantavano i gruppi punk-oi! degli anni ’90 nei concerti White Power.
D’altronde i forti scossoni sociali che si trovava a vivere il vecchio continente, non potevano che offrire una rassicurazione ai “soldati politici”, per citare il noto neofascista Franco Freda, che si preparavano ad un nuovo scontro decisivo, quello contro l’immigrazione appunto, in nome della salvezza della propria terra. Inoltre in questo quadro non bisogna tralasciare il contributo aggregante che le nuove sottoculture giovanili, nella loro variante di destra, fornivano al progetto di “guerra razziale”:in particolare la deriva di una parte del mondo skinhead con il suo radicamento nelle periferie sottoproletarie metropolitane dovuto al circuito dei concerti punk-oi! e i fenomeni xenofobi che cominciavano a prendere sempre più piede nella mondo hooligans; entrambi ambiti socialmente turbolenti e soprattutto composti da appartenenti a classi sociali disagiate che vivevano sulla loro pelle le tragedie dovute alla disoccupazione e ai tagli ai sussidi sociali. Ed i frutti di questa propaganda dell’odio non tardarono ad arrivare, anche oltre le più rosee previsioni…
“Bruciamoli tutti!”
Tra il 1991 e il 1993 l’Europa, infatti, visse l’esplosione di quello che il sociologo Valerio Marchi ha definito con acume uno “spontaneismo xenofobo” che, un po’ ovunque ( soprattutto in nazioni di forte tradizione migratoria come Francia, Germania e Gran Bretagna), portò a scontri, omicidi e roghi di case e centri di accoglienza per migranti.
Il fatto che si sviluppasse un’esplosione violenta, così geograficamente diffusa, galvanizzò letteralmente movimenti e partiti della destra radicale che non a caso fecero le loro fortune, anche elettorali, cavalcando l’onda xenofoba e le istanze di ordine che sempre più manifestamente venivano espresse dalla gente comune. La paura sociale dello straniero diveniva il nuovo business elettorale per tutto il mondo politico europeo. Essa abilmente cavalcata da nuove formazioni populiste che rapidamente sorsero un po’ ovunque o da gruppi di destra pre-esistenti, fruttò non soltanto localmente ma anche a livello nazionale. Serva da esempio: il Front National di Le Pen nelle amministrative francesi del 1992 guadagnò quasi dal nulla 33 sindaci e 239 consiglieri regionali, attestandosi nelle elezioni nazionali del 1995 all’11,8%; in Inghilterra il British National Party dell’ex-hooligan Nick Griffin sfiorava nel 1996 nei sobborghi di Liverpool e Manchster il 17%, con fortissime simpatie tra le forze di polizia; in Germania i Republikaner dell’ex-SS e giornalista televisivo bavarese Franz Schunhuber già nel 1989 entravano nel parlamento europeo con 6 seggi e uno storico 7,1% . L’Italia merita, in questo discorso, un posto di primissimo piano vista l’ascendenza italica di un partito xenofobo e anti-statalista come la Lega Lombarda di Umberto Bossi, che, non a caso, ottenne grandi successi elettorali proprio nei primi anni ’90 con la conquista della poltrona di primo cittadino a Milano nel 1993. Ma soprattutto nel nostro paese nacque il fenomeno Berlusconi, prototipo mondiale del populismo mediatico, che andò al governo, con un enorme consenso elettorale nel 1994 insieme con la Lega e con il MSI, che non va dimenticato era stato per tutto il dopoguerra il più grande partito neofascista europeo.
I successi elettorali non fecero altro che moltiplicare le violenze xenofobe, anzi l’ambiguità della stragrande maggioranza dei governo nazionali europei e l’astuto sostegno dei vari fascisti in doppiopetto gettavano benzina sul fuoco. L’atteggiamento più diffuso da parte di questi ultimi fu infatti quello di condannare formalmente le recrudescenze xenofobe più efferate, ma di ribadire che queste erano solo un aspetto inevitabile, quindi fisiologico e comprensibile, dell’immigrazione selvaggia che la CEE ed i governi nazionali stavano impunemente consentendo. Mentre le forze politiche xenofobe e neofasciste offrivano una copertura assolutoria, i gruppi giovanili più estremi continuavano a mobilitarsi a suon di White Power Music, mazze da baseball e bottiglie molotov. Effetto immediato di questa escalation razzista fu ovviamente una radicalizzazione generalizzata dei programmi dei partiti conservatori in tema di immigrazione che portò ad un inasprimento delle norme che regolavano l’accoglienza e i diritti di cittadinanza per gli stranieri; un esempio su tutti fu la modifica dell’art 16 della Legge Fondamentale della Germania, il paese che più tragicamente stava subendo la violenza razzista, che aboliva uno dei capisaldi del sistema giuridico tedesco e fatto, ancor più grave, inviava un messaggio quantomeno ambiguo ai movimenti xenofobi.
Questa modifica costituzionale, infatti, venne annunciata dalla CDU di Helmut Kohl all’indomani del rogo di Mölln (1992) in cui una intera famiglia turca venne bruciata viva di notte nella propria abitazione da un commando neonazista. Era il segnale, la “guerra razziale” era alle porte. I camerati si sentivano chiamati sulle barricate dagli eventi, stanchi di vedere la propria terra “oltraggiata, occupata e depredata” da immigrati che avevano come unico obiettivo la distruzione definitiva della millenaria civiltà continentale, intesa ovviamente come bianca. Per capire questo fermento contano le canzoni dei gruppi musicali xenofobi del tempo, che neanche a dirlo avevano subito un vero e proprio boom discografico: non si tratta più infatti di qualche improvvisato gruppo folk tipico dei campi Hobbit della fine degli anni ’70, ma di vere e proprie etichette discografiche con introiti milionari, tanto da attrarre anche multinazionali come la Sony. Ciò che Ian Stuart, leader della storico gruppo musicale inglese degli Skrewdriver nonché fondatore della rete internazionale “Hammerskins”, cantava nei suoi concerti già dai primi anni ‘80 (“Vedo il mio Paese trascinato nelle fogne/Noi gli stiamo permettendo di prendere il sopravvento/ Noi non facciamo niente per fermarli […] Dobbiamo fare qualcosa/ Provare a fermare le rivolte […] La società multirazziale è disordine/ E’ giunto il momento di dire basta/ Potere bianco per l’Inghilterra/ Potere bianco oggi/ Prima che sia troppo tardi), trovava ora mercato in tutto il vecchio continente e anche a livello mondiale!
La guerra… quella vera
E purtroppo i processi di decadenza politico-economica dell’ex-blocco comunista, con il loro portato di povertà e malaffare, non facevano che alimentare un nazionalismo esasperato e un radicale egoismo sociale: un perfetto habitat per razzisti e nazisti, che, va ricordato, come nella Germania dell’est, erano stati fortemente aiutati dai servizi segreti della Nato in funzione destabilizzante e anti-comunista fin dalla fine della seconda guerra mondiale.
Ecco dunque che anche il campo d’azione dei sostenitori della “guerra razziale” si allargava notevolmente, cambiandone non solo le geografie, ma specializzandone la prassi anche grazie ad una vera guerra, influenzata da idiozie xenofobe, che si stava sviluppando a pochi passi dalle frontiere della vecchia Europa, quella della ex-Jugoslavia. Infatti, nell’immaginario neofascista, al mito dei primi anni novanta, rappresentato da Rostock ( città costiera della ex-Germania est in cui nell’agosto del 1992 centinaia di giovani razzisti tra gli applausi di un parte dei cittadini avevano assaltato e dato alle fiamme un centro di accoglienza per richiedenti asilo politico, scontrandosi poi per giorni con la polizia e i militanti antifascisti tedeschi), si aggiunse dal 1991, quello cattolico-fascista della Croazia di Tujmann o, a seconda dei gusti, del sanguinario paramilitare serbo Arkan tutti esempi di pulizia etnica: distruttori della imposta mescolanza razziale della “bolscevica Jugoslavia di Tito”. Poco importa se,in quel tragico conflitto, le milizie croate fossero in guerra anche contro la Serbia e quindi anche contro i paramilitari di Arkan; le guerre balcaniche dimostravano che si può anche fare qualcosa di più che distruggere la casa a qualche “asylanten” (termine dispregiativo tedesco utilizzato dai razzisti per identificare i richiedenti asilo) o ammazzare a coltellate un “paki” ( “pakistano”) in metropolitana. E infatti non furono pochi i militanti neofascisti che da tutta Europa si arruolarono nelle decine di milizie paramilitari che combattevano nella ex-Jugoslavia, impratichendosi nell’uso di pistole ed esplosivi. Si spiega così la presenza di armi, provenienti da quei conflitti, negli arsenali di Combat 18 ( 1 e 8 stanno per le lettere A e H – iniziali di Adolf Hitler) la struttura paramilitare sorta all’interno delle frange più dure dei tifosi della squadra londinese del Chelsea; così come, per restare in Italia, fece scalpore il caso di Andrea Insabato (ex-parà della folgore, noto neofascista affiliato a Militia Christi e dal 1997 cassiere del movimento Forza Nuova) che il 22 dicembre del 1999, a Roma, piazzò una bomba davanti alla porta del quotidiano di sinistra il Manifesto; ebbene Insabato, come qualche giornalista più attento ricordava, era stato il volto pubblico di una campagna di reclutamento volta a formare una brigata internazionale di sostegno alla causa croata nel 1993. Ma oltre a coloro che, inseguendo il sogno sanguinario dell’Europa bianca, si arruolavano tra i paramilitari neo-ustascia, c’erano gruppi e partiti che tifavano apertamente per questa o quella fazione, ma che si schieravano tutti contro gli interventi armati della Nato nell’ex-Jugoslavia. Come non ricordare, per restare all’Italia, i cortei leghisti pro-Serbia del 1999 o lo striscione “onore alla tigre Arkan” mostrato nella curva della Lazio, egemonizzata come è noto dai gruppi neofascisti romani, quando il paramilitare serbo venne assassinato da un commando mafioso nel 2000.
Mamma li turchi!
I tempi erano, però, maturi per una nuova dimensione politica per la destra radicale. Del resto nella galassia neofascista italiana era in atto dalla svolta di Fiuggi (gennaio 1995), in cui l’MSI era diventato AN, una vera e propria diaspora alimentata dal ritorno in Italia di numerosi esponenti dell’ultima fase dello stragismo nero e dalle continue faide interne alla destra radicale nostrana. Inoltre la presenza ingombrante dello schieramento berlusconiano (Forza Italia-Lega Nord-Alleanza Nazionale-CCD), che proprio per la sua cultura politica prosciugava letteralmente i consensi elettorali di tutto ciò che era alla propria destra, non facilitava certo una riunificazione sullo stile del vecchio Movimento Sociale.
Ma uno spazio a destra della Casa delle Libertà di Berlusconi era ancora possibile specie negli anni in cui al governo arrivava l’Ulivo (1996-2001); in quegli anni nascono: nel giugno 1995 la Fiamma Tricolore di Pino Rauti ( ex-repubblichino, ultimo grande vecchio del Msi di Almirante ed ex-membro negli anni ‘60 di Ordine Nuovo, organizzazione paramilitare implicata nella strage di Piazza Fontana del 1969 e in quella di Piazza della Loggia del 1974), nell’agosto 1997 il Fronte Nazionale di Adriano Tilgher (ex-militante di primo piano di Avanguardia Nazionale, gruppo neofascista degli anni ’70 colluso, tra le altre cose, col golpe Borghese) e, dulcis in fundo, nel settembre 1997 Forza Nuova di Roberto Fiore e Massimo Morsello (ex-militanti di Terza Posizione e dei Nuclei Armati Rivoluzionari-NAR, due gruppi armati della fine degli anni ’70, latitanti con gran parte dei loro ex-camerati a Londra dal 1981 in quanto implicati nella strage di Bologna del 1980 e rientrati in Italia nel 1996). Ed è proprio quest’ultimo gruppo che rappresenta la ‘novità’ più importante nell’ambito della destra plurale italiana, in quanto Forza Nuova è in grado di recuperare, in sintonia con la cultura terzoposizionista dei propri fondatori, il tradizionalismo cattolico e l’esperienza fascista: non è un caso che il partitino di Fiore e Morsello si ispiri, più che a Mussolini, alle Croci di Ferro di Codrenau, gruppo rumeno degli anni ’30 alleato dei nazisti e sostenitore di un fascismo confessionale.
Infatti l’elemento religioso si era via via imposto all’interno della destra radicale continentale della fine degli anni ‘90, sconfiggendo le posizioni neo-pagane di stretta fede evoliana e ridimensionando la tendenza culturale anti-occidentale e filo-islamica che pure era presente da decenni nella galassia culturale dell’estrema destra. Ecco dunque che nella propaganda della “guerra razziale” l’aggettivo cristiana andò ad aggiungersi definitivamente a quello di bianca, per caratterizzare l’Europa. Con questo backgroud si sviluppa il più ampio e trasversale progetto della destra radicale europea: la “Campagna contro l’ingresso della Turchia nell’UE”, che, nata nel 1999 in Italia e Francia, si è ormai estesa a tutte le principali formazioni politiche di estrema destra d’Europa e trova decise simpatie in ambienti conservatori o confessionali di primissimo piano: è noto come il neo-cancelliere tedesco Angela Merkel ne abbia fatto un caposaldo del suo programma elettorale nelle elezioni federali del 2005 o come le gerarchie vaticane, specie dopo l’ascesa al soglio pontificio di J. Ratzinger, siano manifestamente contrarie ad un paese mussulmano nell’area di Schengen.
Del resto il rapido processo di integrazione politica europea spinge progressivamente, come sottolinea il politologo Piero Ignazi, i vari movimenti politici radicali (di qualsiasi colore) a coordinarsi in modo stabile sul piano continentale, non fosse altro che per avere maggiore agibilità e poter beneficiare della visibilità, dell’impunità penale e soprattutto degli ingenti finanziamenti riservati ai membri del Parlamento Europeo, dunque la destra radicale non poteva non darsi, anche formalmente, un respiro europeo. Per i fascisti, ma abbiamo visto non solo per loro, il problema della Turchia nella UE è un nodo cruciale; si tratta infatti di difendere il vecchio continente dalle orde islamiche turche: non è un caso dunque che la retorica sloganistica ed iconografica di chi ha creato questa campagna si ispiri soprattutto alla battaglia di Lepanto (in cui una coalizione internazionale di stati e regni cristiani sconfisse la flotta ottomana nel 1571) o all’epopea dello scontro di Kahlenberg (in cui il 12 Settembre 1683 l’esercito austro-polacco dell’Imperatore asburgico Leopoldo e del re polacco Sobieski fermò l’avanzata turca alle porte di Vienna). E’ ovvio che la strategia neo-imperialista portata avanti dagli USA contro paesi fondamentalisti islamici o comunque di area araba, dopo l’11 Settembre, condita con la violenta propaganda neo-cons dell’amministrazione Bush, non possa che ingrossare le fila dei sostenitori della nuova crociata.
“Sono già tra noi”
Ma oltre alla “campagna contro l’ingresso della Turchia nell’UE” non poteva sfuggire alla destra plurale continentale l’occasione, sull’onda mediatica delle imprese di Bin Laden, di attaccare l’islam europeo cioè le migliaia di cittadini migranti presenti nel vecchio continente, ed in particolare nei grandi centri urbani. In questo progetto tornò utile un fatto di cronaca.
Il regista olandese Theo Van Gogh, venne ucciso da un fanatico di origine magrebina nel 2004 mentre stava girando un documentario shock sull’Islam; ma costui non era un regista qualunque, era divenuto famoso internazionalmente per un film in memoria del suo amico Pim Fortuyn, l’eccentrico politico leader del partito xenofobo olandese ‘Lizt Pim Fortuyn’, morto il 6 maggio del 2002 a Hilversum, ucciso a sangue freddo, mentre usciva dagli studi di un radio, da un militante ecologista radicale. Ebbene l’omicidio Van Gogh aveva innescato nella tollerante Olanda una ondata di violenze xenofobe, definita dall’euro-deputato leghista Mario Borghezio (ex-militante di Ordine Nuovo), come una “guerra razziale strisciante”, fatta di bottiglie molotov contro moschee, sinagoghe e misteriose aggressioni a sfondo razziale ai danni di migranti.
Ma si sa, nella società dello spettacolo il documentario incompiuto di un regista razzista divenne un video per il quale decine di emittenti televisive di tutto il mondo erano pronte a pagare milioni di euro per comprarne i diritti; tanto che ne nacque anche una querelle nel parlamento europeo, in quanto i deputati esponenti di partiti neofascisti e xenofobi chiedevano a gran voce la messa in onda del video anti-islam di Van Gogh durante una seduta del parlamento Ue nonostante la maggioranza degli esponenti politici degli altri gruppi si opponesse. In prima fila nella difesa di Van Gogh e della sua opera c’era la delegazione europea della Lega Nord spalleggiata ovviamente da Alessandra Mussolini ( eletta grazie a Forza Nuova e al Fronte Nazionale nelle europee del 2004) e da Luca Romagnoli ( segretario ed eurodeputato della Fiamma Tricolore) che organizzò anche una proiezione ‘disobbediente’ in una sala del parlamento di Bruxelles, mentre già da giorni il video del regista olandese circolava su internet e, clandestinamente, in dvd nei concerti del circuito White Power e ovviamente nelle feste padane del partito di Bossi.
La vicenda Fortuyn-Van Gogh dunque forniva allo schieramento xenofobo un martire e soprattutto dimostrava che i sentimenti razzisti più estremi serpeggiavano, tutt’altro che sopiti, nella società europea, nonostante il pugno di ferro sistematicamente adottato, da quasi un decennio, da parte dei singoli governi nazionali (di qualunque colore politico!) nei confronti dei cittadini migranti che arrivavano in Europa. Ma i fatti olandesi erano solo un pretesto, alla destra radicale del vecchio continente occorreva una nuova Rostock, cioè qualcosa che potesse generalizzare ancora di più l’idea che la “guerra razziale” fosse già in atto, anche perchè l’ingresso della Turchia nell’area UE sembrava essere rimandato al 2010, e le guerre in Irak-Cecenia-Afghanistan non facevano che aumentare il numero di profughi che si riversavano alle porte della “Europa nazione”. La causa della “guerra razziale” aveva i propri martiri e destava già diverse simpatie non più confinate a ristretti gruppi di giovani balordi fissati con Hitler come negli anni ‘80, era possibile alzare il tiro: ciò che bisognava sferrare, era un attacco al concetto stesso di integrazione e soprattutto di multirazzialità (leggi ‘uguaglianza’), il dogma culturale sul quale, secondo i fascisti, era stata edificata l’Europa dal 1945 in poi e più in generale i singoli stati nazionali fin dalla rivoluzione francese del 1789. In quest’ottica era ovvio che la rivolta delle “banlieues” (“periferie”) francesi, seguita alla morte accidentale di due giovani immigrati inseguiti dalla polizia nel misero sobborgo parigino di Clichy sous Bois, calzava proprio a pennello: i fans della “guerra razziale” potevano aggiungere un nuovo scenario alle loro elucubrazioni xenofobe. Il “problème banlieues” (il “problema periferie”),come è stato definito dal presidente francese Chirac in un messaggio alla nazione, rappresenta una turbolenza sociale quasi ciclica per le metropoli d’oltralpe, ma è anche vero che una estensione così ampia e circoscritta nel tempo come quella dell’ottobre-novembre 2005 rappresenta un deciso salto di qualità nella storia delle rivolte delle periferie povere francesi.
E infatti prima ancora dell’intervento delle Brigades Anticriminalité, cioè dai reparti anti-sommossa d’élite della polizia, si vedevano già giovani testerasate, armate di catene e sassi, pattugliare metropolitane e quartieri più a ridosso del centro parigino pronti a respingere coloro che lo scellerato ministro degli interni Nicolas Sarkozy, per puro tornaconto elettorale, aveva definito, in una intervista televisiva, “racaille” (“feccia”), alimentando ancor di più la rabbia dei giovani banlieusard. Maurizio Blondet, noto pubblicista antisemita di Avvenire (quotidiano dei vescovi italiani), ha significativamente definito le rivolte dei migranti poveri francesi “invasioni barbariche”, perfettamente in linea con le parole d’ordine della grande manifestazione xenofoba organizzata dal Front National nella capitale francese a metà novembre per invocare la risoluzione “manu militari” delle rivolte, mentre i militanti lepenisti sfilavano davanti alle telecamere di TF1 con decine di cartelli con su scritto:”Le Pen l’avait dit!” (“Le Pen l’aveva detto!”). L’eco dei fatti francesi, con il suo martellante rendiconto mass-mediatico delle auto-bruciate, mise in moto le centrali della destra radicale europea che lanciò lo slogan “Jamais comme à Paris!” (“Mai più come a Parigi!”) come ad esempio i militanti del nuovo network neonazista ‘Europa Nationalist Front’ (aggregazione nata dopo le elezioni europee del 2004, che raccoglie una decina di movimenti politici di estrema destra: dall’italiana Forza Nuova, all’NPD tedesca, dal FPÖ austriaco –orfano di Haider- ,ai neo-falangisti spagnoli). Le rivolte delle banlieues, ed è questo che più piace ai teorici della destra radicale continentale, sono prese a modello non soltanto per la loro estensione spazio-temporale e per la loro eco mediatica, ma, a livello pratico, come prova tangibile della insensatezza del sistema Francia, identificato come una società che faceva dell’integrazione multirazziale (almeno formalmente) un vanto, e, a livello storico-filosofico, come sconfitta degli ideali di uguaglianza della tradizione politica liberale. Infatti la Francia non è solo, per i fascisti, un importante nazione post-coloniale ad alta presenza di cittadini di origine extra-europea, ma rappresenta la patria della rivoluzione francese, cioè dei diritti dell’uomo e della laicità dello stato, della fine del feudalesimo e dell’ordine sociale fondato su Dio. La Francia, che oggi trema a causa delle rivolte delle banlieues, è la terra in cui, nel credo dei fascisti, è nato ed è stato distrutto il Sacro Romano Impero (perfetto connubio tra il mito della Roma imperiale ed i valori tradizionali del credo cristiano); è insomma allo stesso tempo la patria del primo esperimento storico di “Europa bianca e cristiana” e del suo radicale opposto, il cosmopolitismo illuminista fondato sull’uomo.
Per i neofascisti del 2000 i valori del Sacro Romano Impero terminarono nel 1793, quando Robespierre decapitò Carlo Magno…
Elia Rosati
documentazione