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Da Indymedia
B.
Confermo ogni deposizione effettuata da me alle Forze dell’Ordine riguardante la notte tra il 16 e il 17 Marzo 2003.
Non ho molto da aggiungere a tali dichiarazioni, voglio semplicemente dire di essere, il giorno 16 Marzo 2003, incappato in una notte nera, notte che dimenticherei, notte che mi ha segnato per sempre. Ho rischiato di essere ucciso, ho soccorso invano un mio fratello, ne ho portato un secondo in ospedale a causa di una coltellata ricevuta, un terzo, anch’esso colpito, agonizzava sull’asfalto mentre le Forze dell’Ordine hanno creato una situazione di caos estremo bloccando con le loro volanti le ambulanze e di conseguenza ritardando la repentina missione di soccorso. Altro ricordo di quel momento è il continuo ripetersi di insulti da parte delle Forze dell’Ordine.
Arrivo all’ospedale, prima del mio fratello ormai cadavere, piangevo. Dovetti riconoscerlo, dovetti dare ai miei compagni la notizia della sua morte… in che modo? Sono sicuro che il mio urlare, il mio piangere, il mio mettermi in ginocchio, il mio ricercare un abbraccio amico siano state semplicemente delle reazione umane. Ho rischiato 15 coltellate, ho visto morire Davide, ho rischiato di perdere un altro amico…non è prassi di vita o sbaglio? La nostra reazione è umana!!!
Siamo stati accusati insensatamente dal Questore di Milano di voler portare via la salma. Un’accusa che ha dell’incredibile… a che pro delle persone possono fare un gesto del genere?! Ho pensato molto a questa stupida accusa fattaci e ho pensato: “Complimenti ditemi come potete accusarci di ciò che un giorno spiegherò a mio figlio Davide. Sì, Davide come Davide Cesare ucciso dai vili fascisti quella sera, non in una rissa tra punk come hanno voluto a far credere alla popolazione intera, ma in un vile agguato in buona regola”
Ed io? Dopo la disperazione causata dalla notizia del decesso di Davide mi sedetti in un angolo del pronto soccorso, ero frastornato, mi sembrava di vivere in un mondo surreale, vedevo immagini ma non sentivo suoni, sentivo suoni ma non capivo…poi…il cadere in un vortice… Polizia e Carabinieri si muovevano pieni di sé all’interno del pronto soccorso armati di mazze da baseball…si muovevano alla ricerca di una vittima…e così è arrivato il momento di una mia amica, la vedevo mentre la picchiavano, anzi, la stavano massacrando tirandola per i capelli e sbattendogli la testa contro il bordo d’alluminio della porta 1,2,3,4,5,6…volte. Io guardavo incredulo…come possono essere definiti uomini personaggi del genere? A quel punto mi alzai, mi avvicinai alla mia amica per aiutarla ma invece il mio aiuto servì soltanto a loro, infatti, venni preso, ammanettato, incappucciato. Non opposi resistenza, ero totalmente frastornato, camminavo per inerzia, non capivo nulla ma ricordo i loro luridi insulti: “Comunista di merda”, ”Figlio di puttana”, “’mo ti spacchiamo il culo”...mi misero a testa in giù e mi colpirono ripetutamente con la mazza da baseball nella zona occipitale del cranio, sputavo un dente, vomitavo sangue. Mi ruppero naso, sopracciglio e labbro. E mi lasciarono chiuso nella volante. Con il loro essere arroganti e violenti volevano forse darmi una lezione? Volevano forse farmi paura? E sì, loro possono fare tutto ciò, creare il caos, creare il delirio tanto poi…
Sono stato fatto uscire dalla volante, non ricordo né dopo quanto, né da chi. Sono stato portato in pronto soccorso e medicato. Mi sedetti e venni interrogato dalla Digos e Forze dell’ Ordine.
Tornai a casa all’alba, distrutto, tristissimo. Avevo una frase che mi rimbombava nel cervello: “Stasera li abbiamo scassati”...frase pronunciata da un poliziotto…”…gli abbiamo fatto paura”...
Ad oggi credo di poter dire di non aver provato paura…ma di aver provato incredulità per l’azione sanguinosa commessa da persone che nascono per mantenere l’ordine e che in realtà camminano fieri di essere padroni delle città e incapaci di fermare il loro manganello di fronte alla morte…
Il mio animo dopo tre anni vive integro con il sorriso indimenticabile del mio fratello Dax…pagherei per cancellare quella notte, morirei per non dimenticare. Rispetto a chi quella notte non si è fatto sottomettere, rispetto a coloro che lottano contro le ingiustizie nelle città.
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L.
Innanzitutto una breve ricostruzione dei fatti di quella notte.
Io ero una di quelle persone che prima di andare all’ospedale San Paolo ero in Via Brioschi, il luogo dell’aggressione e del ferimento di alcuni compagni, tra i quali Davide Cesare “Dax”.
Inizio da qui perché, è il posto, già prima dei pestaggi all’ospedale, dove si respirava un’aria pesante e intimidatoria.
La via era presidiata da un numero consistente di poliziotti e carabinieri e delle loro auto che ostruivano tutte le vie intorno al luogo dell’aggressione e che sono state anche di ostacolo per il passaggio delle autoambulanze. Ci fu un tentativo di carica da parte di un gruppo di poliziotti sceso da un furgone indossando caschi e impugnando scudi, e che si diressero verso il gruppo di
persone presenti. Quella situazione non si concluse con una carica, ma ripensandoci a posteriori
dava l’idea di quello che sarebbe accaduto più tardi
Nel vialetto del pronto soccorso vi erano alcune volanti che nel corso del tempo aumentarono così come il numero di poliziotti e carabinieri che non fecero segreto della volontà di non lasciarci soli, ma anzi iniziarono ad infierire con una serie di provocazioni creando un clima di tensione.
Il seguito sta poi nelle cariche e nell’inseguimento dentro il pronto soccorso, nella caccia all’uomo e nei pestaggi di persone ferme o a terra e comunque indifese, un susseguirsi di aggressioni di cui
sono testimonianza i racconti di chi c’era e le numerose cartelle mediche.
Un bilancio non da poco in considerazione del fatto che l’unica cosa che chiedevamo quella notte era di stare soli e tra di noi: il nostro compagno era morto.
Non considero l’atteggiamento dei poliziotti come una semplice mancanza di sensibilità.
Tra gli agenti presenti quella notte l’odio era viscerale.
Quel modo di fare è frutto di una politica e di un agire ricercato e studiato per quelle persone che si ritrovano in percorsi politici come i nostri. Negli insulti che ci venivano fatti ci si dava dei comunisti di merda, insultavano la nostra dignità e quella di amici e compagni non più presenti tra noi.
Immagino che nella loro visione della vita e del lavoro persone come noi possono essere ammazzate di botte “fin dentro i corridoi di un pronto soccorso” e possono essere umiliate negli affetti più cari. Si permettono di fare quello che vogliono e avere l’appoggio di un Questore, che pur di difendere i suoi “buoni e bravi” agenti, ci accusa di aver cercato di sottrarre il corpo di Davide, di aver devastato il pronto soccorso, e di altro ancora…. Come se fossimo bestie, o meglio capri espiatori delle gigantesche violenze e dei grossolani errori commessi dalla Questura milanese.
Su uno striscione una volta leggevo “Al San Paolo come alla Diaz, massacri e menzogne”. Mai una frase ha sintetizzato così bene il clima che ci si viveva nei giorni seguenti.
E’ chiaro il fatto che vi è una forte spinta ideologica che attraversa gli ambienti di polizia e carabinieri che spesso si tramuta in modo d’agire così come diversi avvenimenti degli ultimi anni stanno a dimostrare. Quello che ho provato quella notte è del tutto personale e quello che mi è
successo sta scritto nella querela che ho presentato qualche settimana dopo i
fatti, ma devono rimanere indelebili le decine di compagni e compagne che ho visto quella notte sanguinare sulle sedie del pronto soccorso: teste aperte e facce tumefatte, persone rincorse come prede, compagni ammanettati e rinchiusi in macchine della polizia quasi soffocare nel loro sangue. Compagni e amici in preda alla disperazione di chi e’ impotente di fronte a una situazione totalmente irreale ma brutalmente vera, passati in pochi secondi dal piangere un compagno a dover scappare per non essere massacrati.
Ci rimane in primo luogo e nonostante tutto, da ricordare Dax compagno militante assassinato perché antifascista.
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F.
La notte del 16 Marzo 2003 in Via Brioschi angolo Via Zamhenof tre neonazisti massacravano a coltellate Davide Cesare Dax e ferivano un altro compagno.
Un paio di coltellate sono toccate anche a me, il caso ha fatto sì che fossero meno gravi.
Proprio per questo i miei ricordi rispetto a quella notte sono abbastanza lucidi.
Ricordo la fuga dei 3 neonazisti e l’immediato accorrere da tutte le direzioni di diverse volanti che, con formidabile perizia, ostruivano le vie d’accesso al luogo dell’aggressione impedendo di fatto all’ambulanza di raggiungere il corpo di Dax. Ricordo da subito atteggiamenti ostili da parte degli agenti nei confronti dei primi compagni accorsi.
Un video amatoriale riprenderà alcuni agenti mentre organizzano una carica che poi avverrà al pronto soccorso dell’ospedale San Paolo.
Ed ora veniamo a quello che è successo al San Paolo
Non e’ facile trovare delle parole per descrivere lo sconcerto e la rabbia che ho provato quella notte e quello che continuo a provare quando ripenso a quegli eventi.
Quello che ricordo e’ l’atteggiamento provocatorio sin da subito degli agenti accorsi al pronto soccorso per interrogarmi. Ricordo le minacce e gli spintoni subiti dopo aver appreso dai medici della morte di Dax.
Ricordo di essere rimasto quasi sempre all’interno del pronto soccorso per farmi medicare, avevo la spalla immobilizzata per via del ferimento, per cui mi appare chiaro che non ho potuto fare nulla di quello di cui mi si accusa.
Dopo di che la storia è nota: insulti, calci, pugni, e cariche di Polizia e Carabinieri.
Ricordo le chiazze di sangue nelle sale del pronto soccorso, le urla rabbiose e spaventate dei compagni massacrati, gli sguardi di sfida di decine di agenti armati di mazze da baseball e giubbotti antiproiettile fieri di aver impartito la giusta punizione a qualche “comunista di merda”, salvo poi chiedere a me e ad un altro imputato di ricordare il doloroso episodio e rendere testimonianza
sull’agguato che è costato la vita a Dax.
Le parole hanno un peso, soprattutto se si indossa la divisa e si rappresenta uno Stato a detta di molti democratico, gli insulti ricevuti quella notte spiegano il motivo di quella brutale e ingiustificata aggressione. Eravamo solo “comunisti di merda” e tanto basta per gli agenti presenti al San Paolo perché non dovessimo avere diritto di cittadinanza.
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O.
Due sono le immagini che più di altre si ostinano a rimanere ben impresse nella mente se penso al San Paolo
La prima è questa: “Signor E. mi dispiace per quello che le è successo”. Ecco le parole che mi rivolge con evidente imbarazzo il Questore di Milano Boncoraglio mentre si alza in piedi dietro la sua scrivania. Siamo a qualche tempo dopo i fatti del San Paolo, non riesco a quantificare con precisione quanto tempo sia trascorso nel frattempo, non molto comunque. Sono in Questura
come altre innumerevoli volte per avvisare dello svolgimento di una manifestazione pubblica in città. Ma ad un certo punto gli uomini della Digos mi comunicano che il Questore vuole ricevermi nel suo ufficio. Mentre mi rivolge parole di costernazione ripenso con fastidio che per tre giorni lo stesso dichiarava candidamente alla stampa, tra lo sconcerto degli stessi cronisti, che le Forze dell’Ordine erano intervenute per impedire che noi portassimo via la salma. Chissà come matura questa ridicola linea di difesa, chissà se era frutto suo o di qualche consigliere maldestro. Comunque è certo che insistette a raccontare l’insostenibile, anche per i canoni del comune buon senso, per ben tre giorni. Fino a quando l’allora Prefetto Bruno Ferrante più arguto o semplicemente coadiuvato da migliori consiglieri, cominciò a dichiarare ufficialmente che bisognava finirla con questa storia della salma aggiungendo timidamente che se proprio fosse emersa una qualche responsabilità da parte delle Forze dell’Ordine (qualche singolo avesse un po’ esagerato, l’intenzione
non andava al di là di questo escludendo aprioristicamente colpe collettive e modalità operazionali) sarebbe stato perseguita. Ma, per intanto, quella mattina in Questura, avevo l’impressione che il nostro Questore non sarebbe durato ancora molto tempo in città. Fui facile profeta.
Secondo flashback. Sono intontito, sono stato colpito in più punti e preso a calci, mentre un gruppo di persone che poi scoprirò abitanti dei palazzi di fronte urla ai miei aggressori qualcosa del tipo: “Animali, lasciatelo stare”, tanto che loro si indispettiscono e urlano a loro volta qualcosa contro. Ho cercato istintivamente di ripararmi la testa e i genitali. So che è servito, però faccio fatica a rialzarmi, ora che non sento più i colpi. Ma qualcuno mi aiuta. Non è un compagno. Capisco che è un poliziotto, deve essere giovane ma non inquadro il viso… Non ci riesco… Non ho tempo… Devo riuscire a reggermi sulle gambe. Devo scappare. Lui mi aiuta a rimettermi in piedi e mi
dice concitato: “Vai via! Vai via!”. Devo a lui probabilmente se me la sono cavata con poco, con molti meno danni di altri ed altre. A lui e a quell’altro compagno mio che vedendomi a terra in difficoltà ha tentato di aiutarmi con l’unico risultato di attirare l’ira di alcuni miei aggressori che lo ripagano spendendolo dritto in ospedale con i denti fracassati. Sarebbe accaduto a me.
Qualche giorno dopo qualcuno, ben navigato mi ebbe a dire: “Vedrai, ora che è comparso quel video amatoriale che certifica inequivocabilmente almeno il tuo pestaggio, cercheranno di addebitarti qualche violenza fantomatica precedente, per cercare di spiegare e di conseguenza ridurre la portata dell’abuso di cui sei stato vittima”. Inutile a dirsi che anche in questo caso la complessità del corso degli eventi svanisce dietro l’estrema prevedibilità dei comportamenti
umani.
Questi sono i ricordi più nitidi. Le emozioni, quelle, agiscono ancora ogni volta che se ne riparla. Prima il vuoto cosmico e l’angoscia che lascia la morte quando ti colpisce vicino. Poi l’istinto che più ci lega alle origini della specie, la sopravvivenza. Fuggire per salvarsi. Nei corridoi di un ospedale.
Ecco alcuni cenni di quella notte. E’ molto tardi, sono a letto a casa mia, abito dall’altra parte della città. Saranno le 23.30 o le 24.00. Ricevo alcune telefonate, nell’agitazione delle poche parole capisco che c’è stata un’aggressione contro alcuni compagni nel Ticinese. In fretta e in silenzio
prendiamo la macchina e ci dirigiamo in Via Brioschi, io e JM che vive con me.
In Brioschi ci sto poco, vi sono pochi compagni sconvolti e Polizia. Dei feriti non c’è già più nessuno, non ho fatto in tempo, li hanno già trasferiti. Di Dax si dice che è grave. Corro al San Paolo. Lì ancora una volta trovo pochissimi compagni e Polizia più numerosa. Dax è morto e ci guardiamo in faccia attoniti… Chi sa piangere lo fa, chi non ne è capace tace. Ma per la Polizia tutto anche il dramma è noiosa routine. Non cessano di aggirarsi in mezzo a noi persone disperate, chi con fare noncurante, chi allegro. Una scena che a pensarci ora mi appare come una fotografia irreale che stinge nel surreale. Certo i movimenti sociali non hanno un buon rapporto con gli organismi
deputati al controllo, ciò probabilmente sta nella naturalità delle cose. Chi per praxis opera per la trasformazione sociale immediatamente mette in discussione la forma di sovranità data, per cui si assiste a un quadro in cui i nuovi attori sociali vengono di conseguenza considerati illegittimi, innescando invariabilmente ottuse risposte repressive quando i “claims” dei movimenti sono
positivi. Ma lasciamo stare l’analisi, c’entra poco ora. Se vi ho fatto un veloce riferimento è stato solo per dimostrare che quella situazione per noi attivisti e attiviste era davvero strana. La strafottenza degli agenti. Stavano facendo salire la tensione molto velocemente. Così ho dovuto seppellire il dolore dentro di me riservandolo per i giorni successivi e come molte altre
volte ci siamo adoperati per tentare di disinnescare la tensione. Perché davvero nessuno di noi aveva voglia di battibeccare con loro avendo ben altro per la testa. Ma quel comportamento e quello stare addosso irritavano. Abbiamo chiesto una e più volte che si allontanassero. Niente. Abbiamo fatto presente che stavano facendo quello che non dovevano fare e cioè provocare un gruppo di
persone che piangevano un amico. Niente. All’inizio qualche frase strafottente. Poi qualcuno ridacchiava. Poi frasi irripetibili. Certo ricambiate, ma da qui c’era disperazione… Di là ci sarebbe dovuta essere professionalità. Già... Professionalità, magari sono io che mi immagino che non ci fosse mentre in realtà c’era eccome, forse qualcuno aveva interesse che accadesse qualcosa… in fondo era passato già molto dall’assassinio di Dax e i corpi di polizia avevano avuto tutto il tempo di mettere in piedi i meccanismi (e gli uomini) di mediazione formale e informale di cui sono dotati. Se avessero voluto. Ma forse fu deciso che non era il caso. E che un gruppo di agenti scarsamente addestrati e dotati di poca impronta democratica interagissero a modo loro con “quelli dei centri sociali” per usare la vulgata di certa stampa. Torno al racconto dei fatti. Scambio di insulti che dura qualche istante, poi improvvisamente si spostano di qualche metro indietro. La cosa non mi piace, ho esperienza di piazza (ebbene sì, sono un recidivo della forma politica denominata
“manifestazione”) e non mi fido che abbiano capito che per far allentare la tensione basta fare pochi passi indietro. Mi avvicino e faccio in tempo a sentire distintamente uno di loro dire agli altri: “Sono 5 deficienti, prendiamoli tutti”. In quell’istante corro indietro e avviso tutti di scappare,
ma e’ inutile ci stanno già caricando. La nostra situazione era che avevamo questi che ci caricavano da una parte e l’entrata dell’ospedale dall’altra. Siamo corsi dentro, ma non era finita. Hanno fatto irruzione e ci hanno inseguito dappertutto. Più durava l’inseguimento più capivo che stavano perdendo ogni tipo di controllo. Fino a quando a un certo punto mi sono girato e ho visto tra
di loro questo grosso carabiniere che correva come un ossesso con una mazza da baseball in mano che faceva stampare sulle porte che superava. Sapevo ormai che se mi avessero preso sarei stato in pericolo anche di vita. Non esagero, visto che vi sono compagni e compagne che si trascinano ancora adesso dietro delle psicosi a causa dell’intensità di quelle paure. Comunque sono fortunato, riesco a non farmi raggiungere. Aspetto un po’. Aspetto che si calmino le acque. Di lì devo uscire e devo aspettare che riacquistino un briciolo di controllo. Poi mi dico che ormai sarà pur arrivato qualche dirigente di Polizia in grado di riprendere una gestione moderata degli uomini armati. Torno indietro e sembra davvero tutto tranquillo. Vi sono poliziotti e carabinieri in giro ma non
sembrano badare troppo a me. Non ho ancora idea della terribile mattanza già accaduta. Esco sul vialetto dell’ospedale perché voglio uscire una buona volta da lì. Sto camminando verso l’uscita ma in qualche modo mi accorgo che mi seguono, allora corro verso il gruppo che bloccava l’accesso al vialetto. Con tutto fiato che ho li scarto e sono finalmente fuori in strada, ma non serve perché immediatamente mi prendono e mi scaraventano a terra. Il seguito e’ documentato dal video amatoriale che abbiamo visto anche oggi in aula e si riferisce comunque al flashback che raccontavo all’inizio.
Fin qui il racconto delle fasi cruente. Ma qualcosa di altro vorrei poter aggiungere. La presentazione dei nostri esposti alla Procura non ha avuto le caratteristiche dell’azione automatica. Ci abbiamo pensato molto e molto ne abbiamo discusso. E’ stato a suo modo un fatto eccezionale. Nessuno
nell’ambiente della sinistra sociale crede che siano date ancora le condizioni perché le forze di polizia, tutte, rispondano davvero per intero di fronte alla società di questi comportamenti aberranti. Troppo corporativo il modello organizzativo, largamente inapplicata la Legge di riforma dell’81, strettamente gerarchica la struttura materiale e mentale e sono tutte condizioni che provocano l’ostracismo di quelle soggettività democratiche interne che pur hanno una “weltanschauung” democratica. Molto più semplice dare la colpa agli attori legittimi di turno, come “i centri sociali”, “gli autonomi”, “i no-global”. Di fronte a gruppi di poliziotti e carabinieri che ci inseguivano urlando “comunisti di merda vi ammazziamo tutti” ponevamo rinchiuderci nei nostri ghetti, feriti, umiliati e perciò consapevoli che solo il percorso virtuoso delle lotte sociali può garantire un contrappeso alle derive securitarie. Ma dai nostri ghetti dobbiamo uscire. Gli esposti furono presentati.