In occasione dell’uscita della sua ultima opera, Paris sous tension (Parigi sotto tensione) [La Fabrique, 2011], che prosegue una riflessione iniziata con L’Invention de Paris [Seuil 2002], abbiamo intervistato Eric Hazan, storico, editore e compagno.
Come sei arrivato a lavorare su Parigi?
Quando ho cominciato a lavorare a L’Invention de Paris, la questione che mi interessava principalemente era: che cos’è un quartiere parigino? Che cos’è una frontiera o un limite di quartiere? Io mi sono dato l’obiettivo di descrivere i quartieri di Parigi uno per uno, e nel quadro di questo lavoro mi sono progressivamente reso conto che la memoria delle rivoluzioni che qui si sono prodotte è indissociabile da questi quartieri…
Sei storico ma non “di professione”. Il tuo modo di lavorare è rigoroso ma senza essere accademico. Come si scrive un libro come L’Invention de Paris?
Io non spulcio gli archivi, utilizzo solo le fonti cosidette “secondarie”. Quando si va negli archivi, si è forzati ad interessarsi a dei problemi limitati. Il mio modo di lavorare consiste nel dividere il mio oggetto di studio in oggetti più piccoli, sui quali poi mi documento a fondo. Per esempio, mi sto interessando attualmente alla de-cristianizzazione radicale che si è impadronita del Paese nel novembre 1793. Per tutto un periodo, neanche una chiesa è rimasta funzionante in Francia, è stato il governo rivoluzionario che ha poi volontariamente interrotto questo processo…
Alla luce anche dei recenti movimenti sociali, si vede sempre più un’effervescenza che parte dalla provincia. La Parigi rivoluzionaria è scomparsa?
Ti risponderò su due piani. Primo, a livello storico. Bisogna ricordarsi che la rivoluzione francese non è cominciata a Parigi. Prima degli Stati Generali, gli anni 1788–1789 sono stati segnati da importanti rivolte in provincia, in particolare a Rennes e a Grenoble. A Grenoble ha avuto luogo la famosa “giornata delle tegole”, durante la quale le donne e gli uomini bombardarono di tegole dai tetti le truppe del Re perché il parlamento era stato sciolto. Quindi non dimentichiamoci che tutto ciò è cominciato in provincia, Parigi è entrata in ebollizione più tardi.
Il secondo elemento di risposta è che, se si prende Parigi intra-muros, è chiaro che il suo potenziale insurrezionale è, oggi, ridotto ad un quarto, la parte nord-est della città, che perde ogni anno una o due vie… Si è quindi costretti a constatare che questa tradizione rivoluzionaria si sta spegnendo. Allo stesso tempo, oggi, è del tutto erroneo concepire Parigi come quella dei 20 Arrondissements. E’ venuto il momento di saltare l’ultima delle cinta parigine: l’insieme Maréchaux-Boulevards periferici. E’ molto probabilmente la più difficile da superare di tutte le cinte del passato, per delle ragioni che attengono di volta in volta alla geografia e alla sociologia.
Quali implicazioni strategiche ha la configurazione geografica nel caso di insurrezioni? Sapendo che i centri del potere politico ed economico restano in larga parte concentrati nella Parigi intra-muros…
Ripensare la Parigi rivoluzionaria implica anche ripensare la questione del potere, e in particolare la sua dimensione spaziale. Nelle insurrezioni classiche, bisognava prendere l’Hotel de ville, situato nel cuore di Parigi. Hotel de ville e poi si vede cosa fare. L’insurrezione che verrà, quella del 21esimo secolo, non investirà militarmente qualche luogo preciso, salvo forse le televisioni e i depositi di benzina. Il potere non verrà preso, l’insurrezione andrà più che altro a far evaporare il potere. Bisogna togliersi dalla testa il modello bolscevico della presa del Palazzo d’Inverno…
Altro problema storico cruciale: al momento attuale, gli studenti non sono più geograficamente concentrati. Nel Maggio 68, la maggior parte era localizzata nel quartiere latino, dentro un cerchio che doveva fare un kilometro e mezzo di diametro al massimo.
Con la crisi della città rivoluzionaria, cosa accade alla barricata come tattica insurrezionale e anche come simbolo?
Ci potranno essere ancora delle barricate, ma non più sotto la forma delle barricate urbane…
Se la pensa in termini di flussi, per interrompere dei flussi, qua e là. Era bello, ma non è più della nostra epoca, è una forma simbolica che rischia di essere davvero poco operativa in futuro…
Supponendo che l’insurrezione venga, che cosa farà la gente della città? La nozione di “urbanismo”, pur radicale, implica un certo grado di centralizzazione, di pianificazione, di conoscenza tecnica…
L’uso della città sarà completamente differente. Se si osservano ad esempio i dintorni della biblioteca François Mitterand, si può constatare che gli immobili sono abbastanza ben disegnati. Ma la zona nel suo insieme è catastrofica! Non c’è alcuna vita, e mai ce ne sarà. La sola maniera di portare un po’ di vita la dentro, è demolire tutto. L’urbanismo degli urbanisti non può che dare questo, anche cambiando i capi-progetto.
Bisogna tornare ad una concezione artigianale, lenta, organica, dell’urbanismo. Ci sarà, certamente, ancora una sorta di “concertazione” tra quelli che abitano il quartiere, quelli che l’hanno abitato, quelli che conoscono qualcosa là dentro. Si costruirà pezzettino per pezzettino. Non si tratta di mescolare il passato, bisogna utilizzare le tecniche attuali, ma con sensibilità e intelligenza. Tutto ciò suppone ovviamente che l’insurrezione sia già avvenuta, cosa che, oggi, è assolutamente inimmaginabile…
Intervista realizzata da Razmig Keucheyan per ContreTemps.eu
Tradotto in italiano da Redcat
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