Accordo sulla produttività. Più sfruttamento x tutti con la complicità del sindacato

Da clashcityworkers.org

Nell’ultima settimana il paese è stato attraversato da un’ondata di proteste. Decine di migliaia di studenti, principalmente delle scuole medie superiori, sono scesi in piazza per contestare le politiche del governo e della Banca Centrale Europea. La radicalità espressa dalle mobilitazioni e la prevedibile brutalità con cui la polizia ha tentato di reprimerle sono state le notizie che hanno monopolizzato il dibattito pubblico sui media. Quasi per paradosso il destino ha voluto che proprio nelle stesse ore, nel silenzio generale, si stesse portando a compimento uno dei principali obiettivi del governo e del padronato nostrano: l’accordo sulla produttività.

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L’accordo sulla produttività non è nient’altro che la naturale evoluzione dello scellerato accordo interconfederale del 28 giugno 2011 con cui le parti sociali (Cgil compresa), si impegnavano a dare centralità alla cosiddetta contrattazione di secondo livello. Con la nuova intesa si stabiliranno le basi per procedere ai numerosi rinnovi contrattuali che ci saranno nel prossimo futuro, in primis quello dei metalmeccanici. Ma cosa prevede l’accordo sulla produttività? Verrebbe da dire niente di nuovo o meglio un vero e proprio ritorno al passato, al cottimo per la precisione. In realtà non si tratta di una novità assoluta, in quanto in tutte le aziende dove è presente una contrattazione di secondo livello parte del salario è agganciata al raggiungimento di obiettivi: l’intento dichiarato dalle parti in questo nuovo accordo è quello di aumentare questa percentuale a scapito della contrattazione collettiva.

Aumentare la produttività significa aumentare la quantità di merci o servizi prodotti in un determinato tempo rispetto a quanto fatto in precedenza e cioè, in parole povere, lavorare più intensamente, aumentare il livello di sfruttamento e quindi i margini di profitto. Per far sì che i lavoratori subiscano senza troppe rimostranze quest’ennesimo attacco, il governo dal canto suo si impegna, a seguito della firma dell’accordo da parte dei sindacati, ad emettere un provvedimento che abbassi il prelievo fiscale sugli incentivi alla produzione. Si tratta in parte della famosa paccata di miliardi promessa dalla Fornero che nessuno ha mai visto e che doveva tra l’altro estendere gli ammortizzatori sociali. In pratica, il lavoratore dovrebbe accusare meno il colpo perché, pagando un po’ meno tasse, non troverà grosse differenze in busta paga – o addirittura talvolta qualche spicciolo in più; peccato però che proprio per colmare quelle minori entrate l’esecutivo dovrà prontamente ridurre le uscite e quindi tagliar sui servizi come scuola, sanità e trasporti. Alla fine della fiera quindi ci troveremo ad aver lavorato di più e ad avere meno in termini di salario indiretto. Tutto questo al netto delle “truffe” che normalmente operano le grandi aziende e che ben conoscono i lavoratori visto che spesso, pur di non pagare i premi, si ricorre a cavilli inseriti ad arte nei contratti e che puntualmente vengono trascurati dai sindacati in sede di trattativa.

Il governo ha più volte sottolineato che la questione della produttività è il nodo centrale e che questa intesa è di vitale importanza per il futuro del nostro paese, in particolare per quanto concerne l’aspetto della occupazione. Come abbiamo detto in precedenza, questo accordo incide direttamente sui livelli di profittabilità e tanto basta a chiarire quali interessi ha a cuore il governo, ma più sottile è capire come ciò si collega alle politiche per l’impiego. A nessuno infatti sfugge il fatto che se si lavora di più c’è bisogno di meno personale e quindi un aumento della produttività determina automaticamente una diminuzione dei livelli occupazionali. Ebbene nei fatti (aldilà dei discorsi su razionalizzazione della spesa, innovazione etc.) con questo accordo si palesa chiaramente qual è l’unica strategia del governo per l’occupazione: partecipare a livello internazionale alla gara al ribasso del costo del lavoro nella speranza di intercettare gli investimenti stranieri.

Nel momento in cui scriviamo, è da poco uscito il testo dell’ accordo, la Cisl e l’Ugl hanno già affermato di sottoscriverlo, in un secondo momento è arrivata pure la firma della Uil, mentre la Cgil ha delle riserve. Tali riserve però, a differenza di quanto si possa immaginare, non riguardano i contenuti dell’accordo (che sono pienamente condivisi), ma tutt’altra questione, che esula dai temi oggetto di trattativa. Come chiarito dalla stessa Camusso in una lettera indirizzata alle parti datoriali, la Cgil nei fatti pone come condizione all’approvazione dell’intesa sulla produttività l’ammissione della Fiom al tavolo per il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici (al momento non è presente in quanto non ha firmato il precedente contratto che è stato anche impugnato in sede di giudizio). Le indiscrezioni dicono che ci sono buone possibilità di ricomporre la frattura e anzi che gli ostacoli non vengano da Confindustria, bensì dagli altri sindacati confederali che negli ultimi anni hanno recuperato quote tra i metalmeccanici e hanno paura del ritorno alla trattativa della federazione guidata da Landini. Insomma siamo di fronte all’ennesima squallida lotta di potere sulle pelle dei lavoratori.

Facendo un passo però indietro e tornando all’inizio di questa breve riflessione, purtroppo è necessario constatare che di tutto ciò non c’è traccia nelle mobilitazioni degli ultimi giorni. Non un volantino, un documento, uno striscione che menzioni l’accordo sulla produttività. Non solo nelle piazze, ma anche in internet, sui siti e i blog dei collettivi, dei sindacati, dei partiti che si definiscono di classe non si parla di tutto questo ovvero di ciò che riguarda direttamente milioni di lavoratori, la classe appunto. E’ un’autocritica che facciamo per primi a noi stessi che, talvolta travolti dagli eventi, perdiamo di lucidità e non sappiamo mettere a frutto le occasioni date dal riemergere dei movimenti. Se analizziamo proprio le ultime mobilitazioni, mettendo la retorica da parte, non possiamo non constatare che i grandi assenti erano proprio i lavoratori.

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