Più di 3000 dipendenti comunali in corteo contro i tagli

Quando si preparano a devastare la nostra città con un tunnel sotterraneo non vola una mosca. Siamo assuefatti al cemento e alle nocività, la cosa non ci tocca. Quando comprimono sempre di più gli spazi sociali e i luoghi di aggregazione per i cittadini, dando in pasto la città ad una mercificazione senza fine ad uso e consumo dei turisti, molti non se ne accorgono nemmeno: troppo abituati a passare la sera davanti alla televisione o allo schermo di un computer.

Ma guai a toccare le buste paga. Guai a toccare ciò che ci lega a questa “società del benessere” e ci fa voltare dall’altra parte nella maggior parte dei casi quando le cose intorno a noi continuano a peggiorare. In fondo finché abbiamo di che campare noi e i nostri figli, e di che stordirci e stordirli con i mille intrattenimenti messi a disposizione dalle moderne tecnologie, possiamo adattarci a tutto.

L’uomo è fatto per adattarsi, le classi dominanti lo sanno bene. E dopo aver distribuito le briciole, viene il momento di riprendersele, quando le classi subalterne hanno ormai scordato come si lotta e sono ormai preda dell’immaginario dominante fatto di arrivismo, individualismo, indifferenza. I dipendenti del comune di Firenze lo hanno (ri-)scoperto quando si sono visti alleggerire lo stipendio di qualche centinaio di euro. Così oggi sono scesi in più di tremila in piazza, bloccando la città: un grande e rumoroso corteo si è snodato da piazza Signoria fino a viale Mazzini, sede fiorentina della Corte dei Conti. Qui l’appello e le ragioni precise del corteo.

Vale la pena soffermarsi su uno striscione che si trovava a metà del corteo, la cui retorica era ripresa da tanti altri cartelli e cartelloni esposti dai manifestanti: “servizio pubblico=bene comune”. La parola d’ordine “beni comuni” si è affermata già da qualche anno, e il suo significato potremmo riassumerlo così: certe cose non possono essere possesso esclusivo di qualcuno, ma devono appartenere a tutti, devono essere “comuni”. Ma che significa?

Molti fanno l’errore di credere che “comune” voglia dire statuale, cioè gestito dalle amministrazioni di livello locale, regionale o nazionale. Lo stesso errore viene commesso quando si usa il termine “pubblico”, parlando di “sanità pubblica”, di “scuola pubblica” e così via. Si pensa che queste cose siano di tutti, quando invece appartengono allo stato e da esso vengono gestite. Lo stesso vale per il famigerato “debito pubblico”. Tuttavia, ciò che viene amministrato dallo stato non appartiene affatto ai cittadini, ma alle oligarchie burocratiche che fanno soltanto i loro interessi e quelli del resto delle classi dominanti, imprenditori, banchieri e via dicendo. Sono loro che decidono, non certo i cittadini. Ci sono le elezioni, dirà qualcuno. Possibile che qualcuno creda ancora a questa favola? Rimandiamo al nostro ultimo editoriale per una discussione più approfondita su questo punto.

Qualcosa è comune, o anche pubblico, di tutti, quando viene gestito da una comunità, quando cioè chi gestisce una certa risorsa e chi ne fruisce e ne ha bisogno coincidono. La frase dello striscione, dunque, non ha senso per il seguente motivo: il servizio pubblico com’è oggi non è affatto un bene comune, cioè tutti ne fruiscono, ma a gestirlo sono in pochi, come dimostra il caso dei dipendenti comunali.

Allora forse la frase intendeva essere programmatica: il servizio pubblico dovrebbe essere un bene comune. Ma se i cittadini fossero in grado di gestire da soli le città, realizzando completamente lo slogan dei beni comuni, allora non ci sarebbe più bisogno di amministrazioni burocratiche come le conosciamo oggi: e allora molti, sia dirigenti che dipendenti, si dovrebbero cercare un altro lavoro.

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