Matteo Renzi, gli intrighi di palazzo e la bieca retorica della “responsabilità”

L’elezione dell’Arcivescovo di Buenos Aires, Jose Mario Bergoglio, sullo scranno di Pietro, ha distolto l’attenzione di molti commentatori e cittadini dalle quotidiane contingenze politiche. La prima convocazione di entrambi i rami del Parlamento nella tarda mattinata di venerdì, potrebbe così apparire a qualcuno come un nuovo avvio dopo una fase di quiescenza e riflessione partitica. Niente di più sbagliato. Infatti, proprio mentre un numero esorbitante di giornalisti da tutto il mondo otteneva il proprio prezioso accredito per annunciare in diretta il nome del successore di Ratzinger, dietro le quinte del siparietto politico fervevano trattive frenetiche. Ogni attore ha mosso in direzioni diverse le proprie truppe, determinando un risiko complessivo non necessariamente noto agli altri contendenti. Insomma, gran parte delle carte sul tavolo rimangono coperte, mentre la maggioranza degli attori può solamente presumere le mosse dei propri avversari. Il tutto è ovviamente complicato dalla non omogeneità dei soggetti presenti sullo scacchiere.

Così, se la capacità di resistenza dei neo-eletti cinque stelle alle lusinghe provenienti dai democratici può essere argomento di dibattito, pochi dubbi rimangono sugli opposti obiettivi perseguiti da Pierluigi Bersani e Matteo Renzi. Il primo è infatti certamente conscio di giocarsi la sua ultima possibilità di essere nominato Presidente del Consiglio sulla formazione di un nuovo governo in tempi rapidi: un fallimento qui, si tradurrebbe nella futura impossibilità di ricoprire ruoli di primissimo piano a livello politico. Il secondo auspica invece una situazione di perdurante instabilità e la conseguente necessità di una rapida indizione di nuove elezioni. In questo secondo scenario, pur dovendo passare attraverso le primarie, la capacità di Renzi di porsi alla guida della coalizione di centro-sinistra appare, almeno agli occhi di chi scrive, quasi scontata. In questa logica deve essere compreso non solamente l’incontro che ieri pomeriggio Matteo Renzi ha avuto in un noto albergo romano con una pattuglia di deputati e senatori del Partito Democratico a lui fedelissimi, ma anche le continue conferme e smentite sulla partecipazione del Sindaco di Firenze alle amministrative della primavera 2014. Renzi, pur evitando ruoli parlamentari che lo disegnerebbero come uomo dello establishment romano, non vuole infatti correre per la Presidenza del Consiglio senza disporre di una posizione all’interno delle istituzioni. In breve, rifiuta di lasciare Palazzo Vecchio senza la certezza di assumere la guida del Paese, o almeno quella del partito che rappresenta e costantemente sfida. Così, dopo settimane di scarsa presenza televisiva è tornato ad invadere il piccolo teleschermo, divenendo nuovamente un ospite fisso. Presenza mediatica e lavoro dietro le quinte per fiaccare la difficile quadra cercata dal goffo Bersani: queste sono le armi usate dal Sindaco di Firenze. Un potente concentrato di intrighi di Palazzo e continua auto-promozione personale.

Un esempio concreto di come la politica rappresentativa non sia una fotografia della realtà, ma una complessa ricostruzione personale e collettiva del percepito. Infatti, nonostante l’utilizzo degli strumenti tipici della politica ed una carriera strettamente istituzionale, Renzi mantiene la capacità di apparire come persona diversa dagli altri amministratori. Questo rimane un suo indiscusso ed indiscutibile merito, anche se basta decifrare i messaggi in codice per capire che il “cambiamento” non esiste:

“….tutto il dibattito in campagna elettorale sul lavoro – ha detto Renzi – anche nella mia parte politica, e’ stato sulla liberta’ o meno di licenziare, sull’Articolo 18: e’ una follia. E’ inutile discutere di regole del gioco se intorno a me ho un sistema che mi blocca. La priorita’ e’ dare lavoro. Il reddito minimo garantito e’ una cosa seria che c’e’ in tutta Europa, ma il reddito di cittadinanza e’ basato sull’idea che se non lavori ti do’ un sussidio. Le imprese - ha concluso Renzi – non chiedono allo Stato sussidi, ma chiedono liberta’ in cambio di responsabilita’”.

La solita retorica della responsabilità, il disinteresse più totale per ciò che rappresentano i licenziamenti, la sfacciataggine di porsi (a viso aperto, come recitava durante la campagna per la corsa a sindaco) come il mediatore fra interessi contrapposti. Da una parte le imprese, dall’altra i lavoratori. E la morale del sindaco di Firenze è sempre dalla parte di chi licenzia, infatti, sfruttando il ricatto della crisi, le conclusioni di Renzi sono semplici: vuoi sopravvivere ?(avendo un lavoro, quindi un salario) ci dispiace, fino ad oggi non hai fatto abbastanza, devi sacrificarti. Oppure, le imprese non potranno essere sufficientemente “libere” (di licenziare, diminuendo i costi), quindi la colpa, gira che ti rigira, sarà tua.

Facce “nuove” stesse conclusioni: a Firenze, con i lavoratori del Comune o il possibile disastro Tav, il palese menefreghismo rispetto ai drammi quotidiani, vedi l’emergenza abitativa, e a livello nazionale.

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