Processo al Movimento: punirne cento per educarli tutti

L’operazione poliziesca del 4 maggio / 13 giugno 2011 ha coinvolto quasi cento persone, prevalentemente student* con denunce, obblighi di firma in questura, arresti domiciliari e persino un arresto in carcere. Ma l’onda lunga di questi fatti non si è limitata a ciò, il suo stesso obiettivo era più vasto. Partita a maggio, approfittando di una fase di relativa calma, ha puntato a mutare il contesto in cui i movimenti fiorentini avevano iniziato a muoversi da alcuni anni. Più che infierire su chi è dentro all’indagine con pene di estrema entità (per cui non ci sarebbero neppure le fondamenta giuridiche), l’operazione ha potuto semmai mirare a isolare gruppi e individui, a dare un messaggio all’esterno per prevenire la generalizzazione di critiche e pratiche contro l’ordine costituito.

Se infatti allarghiamo l’arco temporale al 2008 possiamo ritrovare, a partire dall’Onda, una serie di incrinature sempre più profonde nel clima di pacificazione del capoluogo.

In quella occasione, pur non essendoci episodi di particolare intensità da rievocare, si erano rimessi in moto meccanismi di autorganizzazione e di lotta all’interno delle scuole, facendo riscoprire nuovi modi di mobilitarsi. Dal fare “politica” inteso come gestione sindacale all’interno degli istituti e dalla difesa al diritto allo studio di stampo costituzionale si era passati alla rinascita di collettivi che coltivavano prospettive più radicali all’interno di un movimento di massa. Pratiche che inizialmente potevano essere tacciate come minoritarie o settarie sono poi divenute maggioritarie già durante la stessa Onda. In questo clima sono sbocciate nuove amicizie, alleanze meticce fra nuovi soggetti (a pieno titolo entra così in piazza tutta una generazione che vede il proprio futuro minacciato dalla crisi capitalista) dotati di forme organizzative innovative, che avevano spiazzato la repressione.

Già da subito si erano visti tentativi di contenere questi movimenti, con l’espulsione dei collettivi dalle scuole, le cariche dell’11 maggio, le leggi della provincia contro i collettivi e la sospensione degli studenti più attivi dalle scuole. Ma questa strategia è risultata maldestra e persino fallimentare, rafforzando l’identità del movimento studentesco. La questura ha quindi cambiato tattica, mettendo in moto una complessa macchina giudiziaria meno violenta e appariscente ma non per questo meno efficace.

Nel processo le azioni avvenute durante i cortei sono state attribuite individualmente ai soliti “pochi noti”, mentre le stesse mobilitazioni venivano ricondotte a piccoli gruppi sinistri, cercando così di dare l’impressione che con quelle cento persone denunciate si stesse smantellando una rete losca e minacciosa. Questa nuova narrazione degli eventi era già stata inculcata dai media nel movimento, grazie all’inchiesta ha potuto affermarsi definitivamente.

L’inchiesta, presentata come la classica operazione contro gli anarchici (e un confuso “altro” che riuniva le frange giovanili), nasconde la volontà di sterminare tutto quello che si era costruito, è stata in realtà una tentata strage non solo di strutture militanti ma del movimento stesso. Un movimento che stava ridefinendo il confine del possibile: si possono fare cortei non autorizzati, le strade possono essere bloccate, l’opposizione sociale può crescere, si può vincere. Era questa pericolosa idea a dover essere arrestata, possibilmente facendola pagare a chi l’aveva messa in circolo. In questo l’associazione a delinquere, attorno a cui ruota gran parte del processo, è paradigmatica. Per questo motivo abbiamo chiesto un parere su associazione a delinquere e 400 colpi a S, che è stato attivo in quel collettivo:

<<L’accusa di associazione a delinquere non è come gli altri reati che ci hanno contestato, ha un obiettivo specifico: impedire che le piccole esplosioni di conflittualità anziché restare episodiche possano diventare qualcosa di permanente, non solo grazie ad una struttura organizzata, ma attraverso forme di amicizia. Così ancora più che i 400 colpi si colpisce proprio l’idea di collettivo, penso ad esempio alle scuole. Questa accusa è un monito: non ci si può associare per costruire insieme qualcosa di alternativo, il solo provarci è un reato, un’associazione a delinquere. Si è instillata la paranoia anche semplicemente di frequentare alcune persone, danneggiando così amicizie e legami. Questo ha contribuito a una rilettura di manifestazioni di massa come una semplice sommatoria di militanti o di gruppi. Il pericolo era che il movimento facesse un altro passo, uscendo da scuola e università per diventare un problema più grosso.

Vedere una dicotomia attacco ai 400 colpi / attacco al movimento è sbagliato. Le strutture organizzative non erano l’obiettivo principale e infatti sono sopravvissute quasi tutte indenni, sì il nostro collettivo è stato sciolto per legge, con tanto di sgombero della sede e arresti, ma non è questa la parte importante, anzi avevamo già deciso da soli di terminare le attività come 400 colpi. Quel che conta è stato l’attacco ai movimenti: i 400colpi sono stati attaccati in quel modo tatticamente, per colpire tutti. Noi non eravamo una struttura importante dentro le geometrie politiche del movimento, ma eravamo identificati come compagni attivi all’interno del movimento. Inoltre avevamo infranto un cliché, rappresentavamo un collettivo universitario che non faceva il collettivo universitario, un fatto parecchio grave: le cose non erano più dove e come dovevano essere.>>

Ma la repressione è quindi stata efficace nel suo scopo? L’operazione partita il 4 maggio è riuscita nel disgregare quella dimensione che voleva colpire, scuola e università, che poi si è ricomposta in modo più tradizionale. Non ha però vinto: non ha eliminato le prospettive che si erano costruite in quegli anni di movimento, che anzi sono state comunque coltivate e sono evolute, aggiornandosi. A partire da questa loro non vittoria, si possono ricomporre le varie lotte in un movimento più forte, che comprenda i limiti dello stato di cose presente e le proprie potenzialità di incidere.

La presunta restaurazione dell’ordine post 13 giugno è in realtà smentita da esperienze di lotta ancora diffuse. La repressione è riuscita a scoraggiare un ritorno dei movimenti nelle piazze, ma non ha chiuso le prospettive di lotta nella vita quotidiana; dire se questo è un segno di vittoria o di sconfitta sarebbe semplicistico. I movimenti non hanno più espresso la propria radicalità dentro le piazze, che si sono dimostrate il terreno più adatto a contenerli. Dopo il 4M/13G sappiamo che Firenze non è più la città degli sbirri buoni e della gestione accondiscendente delle proteste. Tuttavia indipendentemente dalla repressione sono stati fatti passi avanti sulla ricomposizione di esperienze di contropotere, ritornando ad una dimensione cittadina. La stessa crisi d’altronde ha imposto una questione urbana a tutto campo. In questo senso anche l’essersi eclissati in piazza sta al passo con i tempi: risparmiare energie in piazza per colpire altrove nella città con pratiche che incidano concretamente nella realtà. Pensare che la piazza fosse esaustiva, che fosse il campo centrale dell’azione politica, ha caldeggiato rappresentazioni autoreferenziali della propria impotenza. I tempi però spingono i movimenti a dotarsi di nuovi strumenti, incisivi ma non necessariamente “radicali” (anzi le accuse spropositate dell’operazione indicano proprio come non ci sia nemmeno bisogno di pratiche violente per essere repressi duramente). Questo non significa abbandonare le prospettive conflittuali, quel “Noi la crisi non la paghiamo” può cominciare a realizzarsi più oggi di quattro anni fa, quando malgrado la sua popolarità era solo uno slogan. Vecchie pratiche come l’occupazione o il mutuo soccorso tornano per forza di cose attuali, contrastando quella sfiducia nell’agire collettivo che la stessa repressione ha cercato di imporre. Questa evoluzione è continuata, travalicando gli stessi confini del “movimento” così le denunce e la paura che vi ruota attorno non sono riuscite nel contenere la diffusione di conflittualità nelle città.

L’incapacità di riassorbire queste pulsioni in un quadro riformista è dovuta alla stessa struttura del sistema. La crisi impone una vita sempre più intollerabile anche al di là della repressione. Questo non solo alimenta lo scontento sociale ma rende più difficile contenere nel lungo periodo i tentativi di incidere nel reale. La repressione da sola non è in grado di mantenere l’ordine costituito, per cui tradizionalmente si fa ricorso tanto al bastone quanto alla carota (eventualmente condita con sostanze di vario tipo).

Oggi però, l’offerta di carote langue e, qualora quella stessa generazione, diventando adulta, si dovesse integrare nel sistema, non ci sarebbe più niente da offrire da parte della classe dominante. Questa classe, appunto, con sempre meno briciole da distribuire, si avvia ad uno scontro. Senza possibilità di compromesso. E’ per tale motivo che l’orizzonte, nonostante tutto, non può che essere quello della lotta .

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