Volontà di ghiaccio nel deserto

“odiare ogni letteratura di padroni(…)essere nella propria lingua come uno straniero(….)Quanti stili(….)sognano una cosa sola: assolvere una funzione maggiore del linguaggio, offrire i propri servizi come lingua di Stato” – Gilles Deleuze, Felix Guattari “ Kafka, per una letteratura minore”

Associazione a delinquere: termine atroce, che di per sé lo si trova associato a finalità egoistiche, monopolistiche, di estorsione; creare “fiducia”, obbedienza forzata tramite l’impatto esercitato dai propri poteri di influenza, poteri appannaggio di pochi. Ci si “associa” per assicurarsi un controllo su qualcosa e qualcuno, un profitto alto e sicuro, un profitto ottenuto in modo autoritario. Un sistema di illegalità di classe, tutt’altro che popolare. E’ associato ai reati di traffico di stupefacenti, prostituzione, tratta di esseri umani, mafia – il linguaggio del profitto e del comando estremo, quindi una lingua “maggiore” – ed è l’accusa posta al vertice di un massacro giudiziario che ha distribuito restrizioni, firme e ha cumulato  una novantina di indagati. Un medioevo per il movimento. Ma cosa è il movimento? E’ la collettività potenzialmente “diversamente vissuta”, in cui circolano elementi di vissuto e di lotta che prelude ad una collettività vera e propria; una collettività opposta  a quella “ordinata” e solidificata del discorso pubblico – dato che il movimento si “muove” e intreccia più di un discorso – quella a cui si chiede il rispecchiamento nel gioiello “Stato” o del diamante ”paese” a tal punto che si dà per scontato che saremmo disposti a fare qualsiasi cosa per essi, perché essi “sono” noi. Lo “Stato”, il “paese”, il “mercato” sono figure “pure” che non devono essere immondate dall’umano, nonostante ci chiedano di vederle come intima necessità: queste sono le cose che “dovremmo” , secondo qualcuno, avere in comune – tutte figure del sacrificio – non la pluralità delle miserie, non i vissuti da declinare diversamente. All’alba di questa “grande intesa di governo” , questa collettività “ordinata” si chiede, dovrebbe chiedersi, a cosa è servito collezionare richieste di aiuto o promesse elettorali di riscatto – o comiche insubordinazioni della base di un noto partito di centro sinistra –  tutte incentrate su figure mitiche quali “lavoratore” “donna” “cittadino” “giovane”, scoprendo che di ognuna di queste figure non esisteva altro che il rovescio: ad ognuna di queste figure corrisponde una messa al lavoro che non ci appartiene. La democrazia vive nell’idea che chiamandosi “demo-crazia” , qualsiasi scelta sia un “progetto comune” o nel “nostro interesse”, che la libertà sia la “ricchezza del dibattito”, cioè una quantità infinita di discorsi dove si parla di un “noi” che non esiste e a Noi esterno. In Iraq si andava in guerra per esportare la democrazia: attualmente ci viene proposta la medesima logica di invito all’arruolamento, “l’inferno adesso per non farlo accadere mai più” e in cambio, forse, “libertà infinita”. Occorre “responsabilità” nella discesa e il voto è “partecipazione e responsabilità”, è nobilitare la macchina elettorale perché dispiace, in fondo, realizzare che c’è sempre meno motivo di esservi affezionati; è accettare ibridi partitici sempre più inquietanti, dove classe e legalità sfumano indifferenziate. Il movimento chiede “chi siamo?” quando veniamo chiamati a rispondere come “lavoratori” “ uomini” “ donne” “elettori” e dice che non vogliamo più giocare il gioco della legge, della “partecipazione”, della “gioventù”,degli “adulti” e della “cultura”. Il movimento nega la società terribile fatta di “speranze” “contemplazione disperata del presente” e di splendide “cose tutte intorno a noi” e si chiede a cosa serva tutto ciò, rifiutando tutti quei modi di vita della singolarità moderna  . Pone la domanda sulle cose, sui luoghi e cosa “siamo” in tutti i momenti della vita: ogni lotta è una domanda da porsi senza la quale non “sappiamo”, è il pezzo della teoria che ci mancava. E’ l’uso che ancora non facciamo di noi stessi e del mondo.

Parliamo di un’altra associazione a delinquere, del precariato. Il precariato come identità finalmente scoperta nel suo valore,ossia la lunghezza deprezzata di un curriculum; il precariato strumento di ricatto, del lavoro dei sogni gratuito, del lavoro di merda semi gratuito; dell’indipendenza che non verrà mai, dell’imitazione disperatamente perseguita della generazione precedente; della moderna crociata dei bambini fatta da uomini e donne inermi che non accederanno mai alla terra santa della vita tranquilla a cui pensano di poter accedere, cogliendo ogni fottuta “opportunità” che viene loro offerta e sentendosi in colpa per non essere aver detto “sì” abbastanza spesso. A fianco di punti di disseminata ed esplicita“delinquenza”,  sistema di estorsione  e di servilismo obbligatorio – come è effettivamente un’associazione a delinquere – cioè la società quale si para davanti ai nostri occhi, ci siamo Noi, a cui viene mossa l’accusa di aver tentato di “estorcere” spazi e “libertà di movimento per il movimento”, un “profitto” illecito.

L’associazione a delinquere riguarda tutti perché il movimento ha lo scopo di estorcere sempre   più ampi spazi di vita collettiva ed individuale: questo comporta un esercizio di potere(fatto di molti strumenti), un danno alla città, al lavoro, al genere, che è il motivo per cui veniamo tutti giudicati   penalmente. Non è stata necessaria la violenza “militare” o la brutalità per aprirsi questi “spazi”. Vogliamo estorcere spazio per uscire dal ghetto e vogliamo anche un po’ di quel tutto esibito in modo osceno nell’arredo urbano e nella vita contenuta da esso. Chi pensa nel movimento non può non capire cosa succederà se questa inchiesta vincerà nel proporre il suo calco giudiziario e non può non avere il fiuto storico per capire che l’associazione a delinquere,l’estraneità alla vita “normale” – ma sempre più “eccezionale” nel suo peso – l’illegalità  sarà sempre più inevitabile in una logica di progressivo sacrificio e di azzeramento degli strumenti di vita e della dignità. L’associazione a delinquere è occasione di una vittoria politica, è un’occasione di contro narrazione: alla sintesi poliziesca, contrapporre una testimonianza di adesione diffusa alla “delinquenza”, la rivendicazione di una presenza diffusa e non identitaria, di non prelazione dell’intelligenza antagonista.

E’ smettere di pensare che le complicità fuori dai luoghi “classici” – luoghi solamente e tristemente ideologici –  non finiranno per  trovare altri strumenti teorici e pratici, quindi politici: in quel momento, la polizia riprenderà a cercarci, come sempre.

Il movimento che vince è effettivamente una moltiplicazione di illegalità, di luoghi e comportamenti sottratti, ed è un atto sistematico, caratteri che non possono che “costituire”, per la penalità, un’associazione a delinquere. L’associazione a delinquere è un’estraneità nel linguaggio del presente, fuori da verticalismi, specialismi e sociologismi angusti avviluppati attorno a soggetti e luoghi ristretti: in questo senso è anche una “associazione culturale”, una cultura dell’estraneità.

Penalmente, quanto è accaduto a Firenze nel 2011, è la fine della vecchia penalità che giudicava il partito armato, l’attacco al cuore dello Stato, la capacità bellica e sorge dove c’è il danno diffuso, economico, “pubblico”, la pretesa diretta dei propri luoghi.

Penalmente, il 4 maggio ha “tradotto” due anni di lotte come un tentativo di dar luogo ad una   sfiducia nell’ordinamento democratico presso i cittadini e ad un’insicurezza della vita economica, causati dai ripetuti attacchi e dalla momentanea agibilità recuperata dal movimento.

Penalmente, non si poteva fare altrimenti, di fronte ad una situazione fluida e mobile, se non parlando semplicemente di molteplici “luoghi del delitto” e cercando, al contempo, il “covo”,  “un’avanguardia”, gli “istigatori”, la “cupola del malaffare”.

Eventi densi come cortei, blocchi, occupazioni sono stati molteplici occasioni per “associarsi”, di una politicità concreta, opposta all’impalpabile della “politica”, e l’associazione a delinquere si è impressa su tutto questo, dando vita all’ossimoro “associazione a delinquere di massa”; su eventi pubblici, ad ampia adesione e ripetuti nel tempo, si è impresso lo schema “promotori-organizzatori”, potendo finalmente regolare i conti col movimento : il solito pensiero poliziesco della massa di pecore guidate da pochi illuminati, che non è altro che una confessione indiretta circa la vita che in realtà conducono i nostri inquisitori.

Questa non è una storia di azioni esemplari riservate a pochi e rivendicate da nuclei che si sono attribuiti la “delega proletaria”.

Questa è la storia di come si rende pericoloso unirsi ad un qualsiasi atto di lotta, perché si potrà sempre rientrare nella sistematica di una “delinquenza organizzata e diretta”;

Perché “associarsi” vorrà dire associarsi per trarre un “profitto personale, illecito ed ingiusto”.

Politicamente, vorremmo “cantare le rose nel tempo delle rose” e quando le rose non ci sono, bisogna cantare forte per farle sbocciare. E sarà un terremoto, non un sereno giardino, almeno non per gli architetti e i delatori dell’ordine.

Politicamente, non vogliamo fare del 4 maggio una commemorazione ai caduti, né dar luogo ad associazioni di repressi di tutto il mondo che si raccontino come non ci sia più nulla, una volta calata la scure giudiziaria.

Non vogliamo vivere in un mondo senza di noi, come invece la repressione cerca di insegnarci.

Theodor Spettro

Per approfondire, leggi gli altri articoli sul processo al Movimento fiorentino, cliccando qui:

http://www.inventati.org/cortocircuito/tag/processoalmovimento/

Facebook

YouTube