Il Belpaese paradiso del profitto

COME QUOTA DI PIL ASSORBITO DALLA COMPONENTE RETRIBUZIONI SIAMO IN FONDO AL GRUPPO DELLE NAZIONI FORTI D’EUROPA. I SALARI NON CRESCONO DA ANNI, ANZI ARRETRANO. MA IL VERO PROBLEMA È CHE NON CI SONO INVESTIMENTI

Da vent’anni a questa parte l’Italia avrebbe dovuto essere il paradiso degli investitori. La quota della ricchezza prodotta nel nostro paese che è andata in profitti è stata, fino a due anni fa, costantemente e significativamente superiore a quella tedesca e a quella francese. E tutto ciò nonostante che lo Stato italiano in tutti questi anni si sia preso, con tasse e imposte di varia natura, una parte più rilevante di quanto abbiano fatto sia la Francia che la Germania. Sul perché questo paradiso non si sia realizzato si possono fare mille ipotesi, ma i numeri ne escludono una: il costo del lavoro. Il disincentivo a investire in Italia, che gli investitori siano italiani o esteri, non viene da lì. L o dicono i numeri: nel settore manifatturiero, mettendo a confronto le imprese con un fatturato da 50 milioni di euro in su, la quota assorbita dal costo del lavoro è stata fino al 2010 sostanzialmente inferiore rispetto alla Germania e alla Francia (per la Francia resta inferiore anche nel 2011): nel decennio, in Italia, in media il 72 per cento del valore aggiunto prodotto, in Germania l’83 e in Francia l’83,3. Nonostante le tasse, che di quel valore aggiunto si sono mangiate oltre l’11,5 per cento, contro il 5,7 della Germania e in Francia il 6, il risultato netto andato a remunerare il capitale investito è stato il Italia del 16,1 per cento, in Germania del 12,5 e in Francia del 13,9. E’ una bella differenza. E la manifattura, soprattutto nelle imprese di dimensione media

e grande, è dal punto di vista dei salari la parte nobile dello spettro. Nei servizi la quota del valore aggiunto assorbita dal lavoro dal 1996 ad oggi in Italia non si è mai discostata molto dal 54 per cento. Guardando all’insieme del settore privato negli stessi 15 anni siamo intorno al 61 per cento e guardando all’intera economia nazionale intorno al 65 per cento. Al lavoro, in Italia, vanno i due terzi del valore aggiunto, ovvero del pil, meno dei paesi con i quali ogni giorno ci confrontiamo in termini di spread, di export, di produttività, di competitività, di attrazione degli investimenti. Ma non solo ne va una quota strutturalmente minore: scorrendo la comparazione fatta per le imprese manifatturiere medio grandi, si scopre che quando le cose vanno meglio, come è avvenuto tra il 2004 e il 2007, al lavoro non arriva nulla della maggiore ricchezza prodotta, che va tutta ad alimentare le entrate dello Stato e i profitti. Mentre quando le cose vanno peggio, come è accaduto dal 2009 in poi, in una prima fase il crollo dei profitti è più acuto, perché le aziende – un po’ per la difficoltà di valutare la durata della congiuntura negativa e un po’ per le rigidità nei licenziamenti – non riducono subito il personale al primo crollo dei fatturati. Poi però, se la congiuntura si conferma, si adeguano e i dipendenti cominciano progressivamente a calare, riducendo la quota della ricchezza prodotta che va a remunerare il lavoro. Con la differenza che negli anni buoni, e anche in quelli medi, gli imprenditori hanno accumulato e i lavoratori no. A confermarci l’esclusione del lavoro dalle fasi di maggiore creazione della ricchezza c’è l’andamento del salario orario medio, che negli ultimi dieci anni in Italia nella manifattura è cresciuto di 1 euro e 70 centesimi (da 15,91 a 17,71 euro) e nell’economia in generale solo di 19 centesimi (da 16,10 a 16,29 euro). Negli ultimi due anzi è andato indietro: «Le retribuzioni reali (nel 2012 ndr) hanno segnato una contrazione più marcata dell’anno precedente (-1,9 per cento, da – 1,5 nel 2011) e, secondo nostre stime, rimarrebbero stabili nel prossimo biennio» è scritto nella Relazione della Banca d’Italia pubblicata il 31 maggio scorso. Quando la torta cresce il capitale accumula di più, quando per la crisi si rimpicciolisce, superata una prima breve fase, non c’è una redistribuzione delle risorse ma le fette restano uguali. Il prezzo della riduzione della torta, per il lavoro, non si misura con la riduzione dei salari, che già sono fermi da vent’anni, ma con la disoccupazione. Diminuisce il numero degli occupati. In una recessione così lunga questo numero diminuisce prima lentamente, poi la dimensione del fenomeno accelera con il passare dei mesi, con la riduzione dei fatturati e degli ordini, con la chiusura delle aziende e diventa esplosivo. In quest’ultima fase, ovvero quando le aziende chiudono o falliscono e cade il valore degli asset, i destini del lavoro e del capitale si uniscono nel pagare insieme la riduzione della dimensione della torta. Dietro questa immobilità del salario orario e le oscillazioni della quota del valore aggiunto assorbita dal lavoro si nascondono però altri fenomeni. Il più rilevante dei quali è che quella immobilità del salario, che nella media non cresce da vent’anni, non rispecchia la realtà. Dietro quel numero se ne nascondono almeno due: i salari di chi è entrato nel mondo del lavoro prima degli anni ’90 e quelli di chi c’è entrato dopo. Dall’inizio degli anni ’90 infatti è iniziata una divaricazione pesante nel mondo del lavoro caratterizzata da una abbassamento del salario di ingresso che non è stata fino ad oggi compensata da un recupero nel corso della carriera lavorativa. Si è creata, all’interno della classe lavoratrice, una nuova classe, assai più povera e destinata a rimanere tale nel corso della sua intera vita. E’ un fenomeno pieno di contraddizioni: i nuovi entranti sono mediamente più scolarizzati dei propri genitori e anche dei fratelli maggiori, non sono meno produttivi, non sono impiegati in mansioni comparativamente a minore valore aggiunto. La loro sfortuna dipende dall’anno in cui si affacciano sul mercato del lavoro. Da vent’anni a questa parte, e da quindici in misura massiccia, accade che a parità di mansioni i salari di primo impiego siano più bassi e gli avanzamenti di carriera uguali o spesso più lenti che per le generazioni precedenti. Si parte quindi con una differenza salariale e si conserva quella differenza salariale per tutta la vita. A questo si aggiunge il fatto che negli ultimi quindici anni la stagnazione prima e la riduzione poi della produttività hanno determinato la stagnazione dei salari reali medi (come abbiamo visto) e non si vede al momento un cambiamento di questa tendenza. Quindi remunerazioni iniziali più basse, in un contesto di salari stagnanti e carriere più lente. Si è più poveri, o se si vuole meno benestanti, all’inizio, e lo si resta per sempre. Anche al termine della vita lavorativa. Quando arriverà il tempo della pensione infatti ci si troverà con assegni mensili sostanzialmente più bassi non solo perché avendo avuto redditi inferiori sono stati versati meno contributi, ma anche perché le numerose riforme della previdenza hanno ridotto l’ammontare delle pensioni anche a parità di contributi versati da generazioni diverse di lavoratori. «I lavoratori giovani sembrano dover sostenere il peso di maggiori contributi sociali e tasse, bassa crescita nei salari reali e basse pensioni insieme a carriere meno stabili» è la conclusione di Alfonso Rosolia e Roberto Torrini in un working paper del 2007 della Banca d’Italia dal titolo “The generation gap: Relative earnings of young and old workers in Italy”. Oggi il bilancio sarebbe peggiore, la classe dei giovani lavoratori, già piccola, si va riducendo e va aumentando quella dei giovani disoccupati, e cresce anche quella dei disoccupati maturi, dei padri e dei fratelli maggiori che sono stati espulsi dal mondo del lavoro, molti dei quali ancora lontani dall’età della pensione. A questo punto resta da rispondere a due domande: perché in Italia i profitti sono strutturalmente più alti che in altri paesi comparabili e perché il nostro paese, così generoso nella ripartizione della ricchezza prodotta a favore dei profitti, non sia diventato quel paradiso degli investitori che stando ai numeri sarebbe dovuto diventare. Alla prima domanda la risposta è relativamente semplice: bassa tutela della esecutività dei contratti e fragilità e divisioni nella rappresentanza del lavoro da una parte, troppi settori protetti e poche liberalizzazioni dall’altra. Alla seconda invece una risposta definitiva non c’è. La litania diffusa sul costo del lavoro e sulle tasse, che arriva dagli imprenditori ma anche dalla Bce, da Bruxelles e dal Fondo Monetario (che però ogni tanto, al contrario degli altri, si pente dei suoi errori) non è una risposta soddisfacente, perché il primo, lo abbiamo visto, pesa meno che nei paesi comparabili e perché le seconde, benché assai più elevate, lasciano comunque ancora largo spazio al profitto. Le tasse sono troppe, lo sappiamo, ma soprattutto sono oscure e mal ripartite, quindi lì c’è molto da fare. E sul lavoro, più che il costo sono le regole, e tra le regole più che la flessibilità in entrata e in uscita, che va assai meglio regolata, è forse alla flessibilità dentro i posti di lavoro che si dovrebbe soprattutto guardare. Semplificare e ridurre le imposte sul lavoro e sull’impresa e aumentare la flessibilità del lavoro dentro gli uffici e le fabbriche sono passaggi indispensabili, ma che potrebbero non bastare. Il problema è che l’Italia non è ancora entrata nel terzo millennio. Non ci sono entrati la politica, la burocrazia, i tribunali, le scuole e le università, ma non ci sono entrati neanche i sindacati, le banche e grandissima parte degli imprenditori. E’ una questione generazionale, culturale, tecnologica ma soprattutto di interessi, che più che credere nel futuro tendono a proteggersi, non sapendo che la torta, in questo modo, non può fare altro che rimpicciolirsi sempre di più. Quel “Generation gap” di cui sopra è la faccia di tutto ciò. Le crisi possono rimescolare le carte e costringere al risveglio. Noi ci siamo dentro da cinque anni, dovrebbe bastare. O no? CONFRONTO EUROPEO Nella tabella a fianco è stata messa a confronto la distribuzione del valore aggiunto delle aziende manifatturiere con oltre 50 milioni di euro di fatturato in Italia, Francia, Germania e Spagna. Il valore aggiunto è calcolato sottraendo al fatturato gli acquisti di beni e servizi e gli ammortamenti. Negli Stati Uniti è evidente la riduzione dei salari a fronte dell’aumento dei profitti

da Repubblica

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