Tavarnelle, Don Milani e l’esperimento del “sindaco” bambino
Apprendiamo da la Repubblica Firenze di ieri, 16 Novembre, dell’esperimento di trasformare un bambino di 12 anni in “sindaco” della scuola media Don Milani (e contestualmente degli altri tantissimi studenti delle seconde classi in suoi elettori), con tanto di cerimonia al consiglio comunale alla presenza dei sindaci, quelli “veri”, di alcuni comuni.
Un esperimento bizzarro che potrebbe essere usato per fare ironia sulla nostra classe dirigente (i nostri baby sindaci) o per crogiolarsi nei soliti luoghi comuni (come l’autore del pezzo di Repubblica, che invidia l’esempio di fairplay degli sfidanti candidati). Riteniamo importante, invece, soffermarci su un altro aspetto: quanto profondamente e subdolamente si vogliano inculcare nei bambini le regole e le prassi del sistema liberale di rappresentanza.
Don Milani scrisse “Bisogna ardere dell’ansia di elevare il povero ad un livello superiore. Non dico a un livello pari dell’attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più spirituale, più cristiano, più di tutto. E anche Non bisogna essere interclassisti ma schierati.” Chissà cosa direbbe oggi vedendo la scuola a lui dedicata alla cerimonia comunale, con tanto di fasce tricolori, abiti eleganti e applausi unanimi, che più interclassisti non si può, diretti a chi è stato agghindato di tutto punto per essere “elevato” al livello di classe dirigente. Se Cristo di è fermato ad Eboli, Don Milani non è certo arrivato (purtroppo) a Tavarnelle.
In questo comune, infatti, anziché ascoltare le idee di tutti i bambini incoraggiando il loro circolare e commistionarsi, si è istigato alla pantomima della parte più deleteria della “politica” degli adulti. E se la preside dell’istituto dice che questa iniziativa ha permesso loro di esprimersi con una volontà precisa: quella di intervenire nella realtà che li circonda, viene spontaneo chiedersi se è la delega il modo di esprimere la volontà di intervenire. Si parla di educare alla partecipazione e alla cittadinanza, ma in realtà si insegnano nelle scuole la delega e il potere. Si insegna a non prendere iniziativa, solo a votare. Si insegna la competizione per poter catturare i voti altrui. Si educa al rispetto e all’ammirazione delle cariche, e probabilmente anche all’aspirazione ad averne una. Si è definito un tracciato che già a 12 anni identifica il legittimo modo di portare avanti le proprie idee, ma (anche se Repubblica si “scorda” di esplicitarlo) ciò significa castrare la tendenza alla cooperazione che i bambini avrebbero potuto sviluppare, per inculcargli il mito della competizione. Ammesso (e non concesso) che il piccolo sindaco riuscirà a portare avanti il suo programma, con la sua giunta e la pletora di posizioni di prestigio, si sarà tagliato fuori dalla “politica” della scuola il restante 99%. Il ruolo di chi non è sindaco è battere le mani.
Purtroppo il tema della partecipazione e delle sue modalità non riguarda solo le medie di Tavernelle, e proprio in questo mese di Novembre viviamo tanto il riattivarsi di pratiche orizzontali di partecipazione (si veda il #15N a Firenze e Pisa) quanto il riproporsi di elezioni per i vari organi burocratici. L’insegnamento della delega è infatti già diffuso da anni nelle scuole superiori, dove spesso gli studenti si sentono legittimati a non attivarsi per ciò che accade nella propria scuola perché hanno delegato le questioni ai rappresentati d’istituto, mettendo una croce su un foglio all’inizio di ogni anno.
…E non solo. Il meccanismo di delega non coinvolge solo la vita interna agli istituti, ma si espande anche all’esterno, creando organi su organi burocratici che sono fin dagli anni liceali trampolini di lancio per un’eventuale carriera, cosa che diventa in breve il sogno di nuovi piccoli arrivisti.
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