Repressione, che fare?

Che fare per difenderci dalla Repressione?

PinocchCon queste righe provo a ripercorrere, brevemente e schematicamente, l’operare delle istituzioni poliziesco-giudiziarie, di ciò che chiamiamo comunemente “repressione”, in ambito capitalista e negli stati europei e nordamericani, nel sanzionare i conflitti sociali e politici ma anche i cosiddetti “crimini comuni”, ossia l’extralegalità diffusa.

Con queste righe provo a dare un contributo per analizzare le linee di tendenza della repressione e decidere cosa fare, come movimento di opposizione e di trasformazione rivoluzionarie della società. Ossia decidere se sia possibile e opportuno agire pratiche sovversive sulla coppia legittimità/legalità e come rispondere ai colpi che la repressione ci affibbia frequentemente.

intorno ad alcune tesi circolanti nel movimento

Come operare sull’opposizione legittimità/legalità? Enucleo sostanzialmente due blocchi di tesi; ovviamente il dibattito nel movimento è molto più articolato e ricco, ma per comodità schematizzo a due posizioni: in una ci si ripromette di “allargare il recinto della legalità”, ossia ottenere, con la mobilitazione e le lotte, la soppressione di alcune leggi che gravano sul conflitto sociale organizzato. In pratica si chiede al parlamento di abrogare alcune norme che puniscono pesantemente manifestazioni, cortei, picchetti, occupazioni di case, ecc. (ad esempio: la richiesta di abrogare la ripugnante e fascista norma di “devastazione e saccheggio” o i reati associativi, ecc.). Un’altra linee di condotta propone, al contrario, di operare “fuori del recinto della legalità”, costruendo situazioni autorganizzate, che possano diventare strutture permanenti di “un’altra legalità”, radicate fortemente su ciascun territorio e poi organizzate tra di loro, legittimate dai bisogni proletari; un “contropotere” dal basso che si contrapponga al potere “legale”.

Io propendo per la seconda linea di condotta e provo a motivare il perché.

Un balzo indietro di qualche secolo. A grandi linee si può affermare, con buona approssimazione, che la borghesia rivoluzionaria del XVII-XVIII secolo, o almeno la sua parte intellettuale e anche il suo comitato d’affari, avesse la presunzione di costruire un mondo di uomini docili, operosi e rispettosi del potere. Tuttavia quella classe rivoluzionaria non riuscì a scrollarsi di dosso i legami col vecchio sistema di punizione “teologico”. Come nota Marx [Sacra Famiglia]: “si vuole legare la vendetta contro il delinquente con la espiazione e con la coscienza del peccato del delinquente, la pena corporale con la pena spirituale” … “il collegamento della pena giuridica con la tortura teologica, hanno la loro esecuzione più decisa nel sistema del carcere cellulare“. Si riferiva, Marx, al modello di carcerazione “Filadelfiano”, sperimentato negli Usa, basato sull’isolamento, esaltato da Tocqueville e da questi importato in Europa. Il dibattito interno alla borghesia trionfante, intorno al sistema penitenziario, verteva sulla ricerca di una punizione in grado di emendare il reo e che riuscisse a renderlo cosciente delle colpe che la sua immoralità gli impediva di percepire, instillandogli il valore di una vita regolare e laboriosa. Per poi inserirlo negli opifici in continua espansione.

Certo bisognava educare, anche con durezza, anche con la casa di lavoro coatto, anche con la disciplina imposta con la frusta, anche con la separazione rigorosa, con l’esclusione sociale, con la reclusione e con le punizioni corporali, insomma col grande internamento dei secoli XVII e XVIII, in “luoghi chiusi” dove “tutti i vagabondi, malfattori, lazzaroni e i loro pari, potessero esser colà rinchiusi a mo’ di pena e potessero venir occupati nel lavoro per quei periodi di tempo che i magistrati ritenessero convenienti considerando i loro reati o misfatti“. Ed ecco sorgere le Poor Law e le Workhouse in Inghilterra, le Rasp-huis in Olanda, l’Hôpital in Francia, ecc. Queste scelte si basavano sull’assunto che la disoccupazione e la povertà fossero il portato di carenze morali personali e non di fattori strutturali, economici.

Tesi che si riaffacciano oggi, dopo quattro secoli. Alcuni autori, ci dice Wacquant, affermano che la disoccupazione e la povertà siano il portato di carenze morali personali e non di fattori strutturali ed economici, arrivando a teorizzare un vero e proprio paternalismo di stato, di uno stato forte che sappia sconfiggere la passività dei poveri attraverso la disciplina del lavoro e il rimodellamento autoritario del loro stile di vita. Dunque uno stato che ha la sola responsabilità di riattivare un processo di disciplinamento idoneo a stimolare tali individui al lavoro: «le politiche tradizionali dilotta contro la povertà adottano un approccio compensatorio, tentando di rimediare al deficit di reddito e qualificazione di cui soffrirebbero ipoveri a causa delle condizioni svantaggiate del loro ambiente sociale (…) all’opposto, i programmi paternalistici insistono sugli obblighi. L’idea centrale è che i poveri necessitino non tanto di sostegno, quanto soprattutto di una salda strutturazione»” [L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale]

La borghesia trionfante però non riuscì nell’intento di produrre un società di lavoratori dediti a un’esistenza tranquilla, regolare e laboriosa. E dunque, sulla fine del XVIII secolo, si fece strada nella coscienza borghese la consapevolezza dell’ineluttabilità del fenomeno della extralegalità e dell’emarginazione, dell’impossibilità del modo di produzione capitalistico di assorbire tutti gli uomini in attività lavorative, permanentemente e con condizioni di vita dignitose. I programmi pedagogici di eliminazione del pauperismo per mezzo di una coazione al lavoro si scioglievano al sole cocente delle crisi periodiche e delle ristrutturazioni accelerate con massicce espulsioni di forza lavoro; restava l’esigenza, molto meno pretenziosa ma necessaria, di limitarsi a controllare e governare il fenomeno.

Per dirla con Marx, l’economia politica classica prese coscienza del fatto che “l’accumulazione di ricchezza ad uno dei poli è (…) al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto“ [Il Capitale]. Il problema della miseria divenne quello di contenerne al massimo i costi sociali e politici, non più offrendo lavoro a chi ne fosse privo, anche se nel chiuso di una casa di lavoro, ma punendo severamente lo stato d’indigenza.

Questa consapevolezza si fece pratica e produsse un recinto dai contorni netti che venne chiamato “legalità”: luogo frequentato, oltre che dai ceti medi e piccolo-borghesi, dai lavoratori operosi, quelli che si lasciano sfruttare senza ribellarsi, che rispettano le leggi e anche le consuetudini, che osservano la morale “propria di lavoratori dedita al sacrificio” e alle ristrettezze, e tutti gli altri dettami ideologici. È in questo recinto della legalità che è avvenuta la riproduzione dell’ordine capitalistico e anche del “cittadino ossequioso”; è nel recinto di quella legalità che si è consolidato il modo di produzione capitalistico.

A lato di questo circuito se ne produsse un altro: quello della extralegalità che non si riusciva a eliminare e andava tenuta permanentemente sotto controllo; l’espansione di questo circuito dipendeva, in gran parte, dalle oscillazioni del mercato del lavoro, ma le pratiche extralegali venivano regolate dall’azione poliziesca-giudiziaria.

Qualcuno obietterà che la borghesia, ieri e oggi, non si è fatta scrupolo di cavalcare sentieri di feroce illegalità (dall’autorizzazione della corona inglese alle bande di criminali -corsari- che per i mari e sulle coste saccheggiavano, impalavano e depredavano i mercantili e i porti per consentire all’Inghilterra il dominio sui mari; alle centinaia di trattati violati dai coloni americani per annientare la presenza di nativi; fino alle attuali “guerre umanitarie” che violano precedenti trattati, o alle “trattative stato-mafia”, ecc., ecc.,) ma tutto questo fa parte del “business” dei capitalisti. Il recinto della legalità, al contrario, serve per organizzare i cittadini; il rispetto della legalità viene imposta a ciscun cittadino, per il bene comune, per l’interesse generale ed è compito delle istituzioni; come nota Gramsci [Quaderni dal carcere. Note su Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno], è “un compito educativo e formativo dello Stato” in grado di far “diventare libertà la necessità e la coercizione”… “di adeguare la civiltà e la moralità delle più vaste masse popolari alla necessità del continuo sviluppo dell’apparato economico di produzione…”

Avviene così che le casa per poveri si trasformano in prigioni vere e proprie con funzione intimidativo-disciplinante. È la conclusiva perdita, da parte della borghesia, di ogni vocazione progressista.

Si stabilizza così una quota di reclusi nelle galere, che oscilla secondo le esigenze del mercato del lavoro, e la carcerazione diventa, via via, l’unica forma di punizione.

il “grande internamento” liberista

Oggi, all’interno della crisi-ristrutturazione liberista iniziata nella seconda metà degli anni Settanta, non solo non è possibile immaginare una popolazione in cui tutti siano lavoratori operosi, ma le previsioni dei governi liberal-borghesi dei paesi industrializzati prevedono quote di disoccupazione strutturale che oscillano dal 20 al 40% e oltre, con cui si dovrà convivere.

È proprio dalla seconda metà degli anni Settanta (in Italia il liberismo approda anni dopo grazie alla “resistenza” di un combattivo movimento rivoluzionario, in parte armato) che inizia l’attuale “grande internamento” liberista!

Vediamolo dai dati delle presenza in prigione. Nel ventennio 1975-1995, inizio dell’offensiva liberista negli Usa, il totale dei detenuti nelle varie case di reclusione statunitensi: di contea, statali e federali, passava dalle 380.000 unità del 1975, a circa 1.500.000 del 1995, per poi sfondare il tetto dei due milioni nel 1998 e arrivare a 2,5 milioni del primo decennio del nuovo secolo.

Anche in Europa e in Italia, pur non uguagliando incrementi così clamorosi, si è assistito al raddoppio della popolazione prigioniera. In Italia, nel 1989 sono 30.989 le presenze in carcere, che scendono a 26.150 grazie all’amnistia del ’90; nel 2000 sono 53.165 le presenza e, nel 2011, arrivano a superare il record di 66.000, per scendere a circa 61.000 nel febbraio-marzo 2014 grazie ai provvedimenti “svuota carceri” fatti in fretta e furia dopo l’ennesimo richiamo della Corte europea dei diritti dell’uomo.

È utile valutare l’andamento e gli esiti dell’attuale crisi-ristrutturazione anche da questo punto d’osservazione; ossia dal rapporto repressione/classi pericolose, per enuclearne i motivi che incrementano la carcerazione. I motivi vanno dal progressivo deprezzamento del valore del lavoro, all’abbattimento del salario indiretto (welfare, servizi sociali), al più generale abbassamento delle condizioni di vita delle masse proletarie. Questi elementi legati strettamente al rapporto capitale/lavoro, secondo il classico insegnamento di Rusche e Kirchheimer [Georg Rusche, Otto Kirchheimer, Pena e struttura sociale, il Mulino, 1978- il libro si può scaricare all'indirizzo- http://www.ristretti.it/areestudio/cultura/libri/pena_e_struttura_sociale.pdf. Si tratta diun'analisi accurata dei sistemi punitivi all'interno della contraddizione capitale/lavoro], sono il fondamento di un incremento dell’afflittività e del quantitativo complessivo di penalità praticata in un dato sistema sociale. Così come il riemergere e l’espansione di una popolazione soprannumeraria, il classico esercito industriale di riserva e il conseguente aumento di carcerazione, che la crisi-ristrutturazione determinano, espongono l’ordine sociale ad una crisi di legittimità, che può essere agito da movimenti rivoluzionari.

È ormai sotto gli occhi di tutti che la crescita della popolazione detenuta non trova alcuna corrispondenza in un parallelo aumento dei tassi di violazione della legge, che, al contrario, sono in calo; la composizione sociale della popolazione detenuta negli ultimi decenni ha accentuato la sua classica funzione di contenitore della marginalità economica e sociale: “le carceri americane, infatti, contrariamente a quanto sostiene la vulgata politico-mediatica dominante, sono piene zeppe non di criminali pericolosi e incalliti ma di piccoli delinquenti condannati per questioni di droga, taccheggio, furti o addirittura disturbo della quiete pubblica, provenienti in larga maggioranza dalle frazioni precarizzate della classe operaia, in particolare da famiglie del sottoproletariato di colore residenti nelle città maggiormente colpite dalla trasformazione congiunta del regime salariale e della protezione sociale“[L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale]

Il ruolo del sistema penale borghese nel governo delle nuove forme di senza-reddito, nella gestione del riedito esercito industriale di riserva nelle strategie del controllo sociale si è progressivamente riappropriato di quelle funzioni di politica sociale e di governo della marginalità sociale che il welfare gli aveva progressivamente sottratto. “… adottando una politica d’erosione sistematica delle istituzioni pubbliche, lo stato abbandona alle forze del mercato e alla logica del ciascuno-per-sé interi settori della società, e in particolare coloro che, privi di ogni risorsa economica, culturale o politica, dipendono totalmente da esso per l’accesso all’esercizio effettivo della cittadinanza“. [Loïc Wacquant - L'america come utopia rovesciata, in "aut/aut", nº 275, 1996]

D’altronde lo stesso Marx sottolineava il ruolo che aveva avuto il sistema penale nell’affermazione del capitalismo: “Qui effettivamente il diritto penale può vantare grandi meriti nei confronti del capitale“ [D. Melossi, Criminologia e marxismo: alle origini della questione penale nella società de «Il Capitale»]. Allo stesso modo per il ruolo dello stato, dileggiato dal pensiero liberale della borghesia, che lo voleva “sottile” e poco ingombrante, ma non disdegnava, in quella fase della sua storia, la cosiddetta fase “mercantilista”, ed anche in altre innumerevoli fasi, di utilizzare in modo diretto le leve statali per i suoi bisogni di valorizzazione.

L’ordine capitalistico che si è andato costruendo in tale contesto ha pervaso tutta la società e le individualità che la compongono. Come nota Foucault ….”Quando penso alla meccanica del potere, penso alla sua forma d’esistenza capillare, al punto in cui il potere tocca il granello stesso degli individui, raggiunge il loro corpo, viene ad inserirsi nei loro gesti, i loro atteggiamenti, i loro discorsi, il loro apprendimento, la loro vita quotidiana” un potere, insomma, che si esercita “nel corpo sociale” e non “al di sopra del corpo sociale” [Foucault microfisica del potere]. Un potere che si esplica in micro-relazioni e si basa su un “bilanciamento asimmetrico di forze“ [D. Garland, Pena e società moderna] in cui la parte che prende il sopravvento trova il surplus di forza da opporre alla resistenza della controparte, nella capacità di oggettivarla, assoggettandola in un discorso che ne faccia un oggetto di sapere.

Alcuni hanno voluto contrapporre le tesi sul carcere e la repressione ritenute “rigidamente materialiste” di Rusche e Kirchheimer (e tanti altri), incentrate sulla contraddizione capitale/lavoro, a quelle di Foucault; io penso, al contrario, che queste ne costituiscano un completamento. Foucault ha posto in evidenza quel legame fra potere e sapere in cui risiede tutta la forza dei moderni meccanismi di controllo sociale, che appaiono inesorabili e irresistibili, ma proprio in ciò manifestano la loro debolezza.

 

prognosi di pericolosità e strategia invalidante

Lo vediamo bene in questa fase di crisi-ristrutturazione liberista in cui tutti gli strumenti esistenti: dalle istituzioni giudiziarie, a quelle finanziarie e monetarie, agli stati e alle organizzazioni internazionali, ai resti del movimento operaio, alle religioni e alla morale, proprio tutto è stato messo al lavoro per risollevare le sorti della valorizzazione del capitale e rilanciare un ciclo di sviluppo capitalistico. Un percorso che può sembrare totale e corazzato ma che crea tante di quelle contraddizioni che sarà molto difficile, per il capitale, uscirne indenne.

Confrontando l’enorme crescita della popolazione detenuta, tale da far parlare, appunto, di “nuovo grande internamento” e la non crescita, addirittura il calo, dei reati gravi (quelli contro la persona), si ha la certezza che, da quando è iniziata la crisi del welfare e il peggioramento delle condizioni delle classi subalterne, la Repressione ha aumentato la sua efficacia. Proprio in vista del potenziale pericolo di agitazioni e comportamenti con omologati. L’impegno repressivo, in tutta una prima fase, ha tenuto d’occhio non tanto i conflitti organizzati sindacalmente o politicamente, ma prevalentemente le azioni singole o collettive di attività extralegali, quali lo sviluppo della cooperazione diffusa delle attività illegali nelle grandi città, non legate né inserite nella grande malavita organizzata (con la quale il potere tratta e fa affari in comune) che vanno a formare bande giovanili nelle periferie, la diffusione di gruppi di ultras, le nuove forme di truffe nella rete informatica, ecc., ecc. Il controllo del conflitto sociale e politico è stato delegato, per tutta una fase e dopo la pesante sconfitta degli anni Settanta, al movimento operaio istituzionale e al nuovo ceto politico che veniva a formarsi dentro il movimento con il ruolo di mediare e ricondurre all’interno del sistema qualche scheggia che ne fuoriuscisse.

Dal punto di osservazione della impostazione teorica, sembra che per alcuni versi le scelte repressive d’oggi ricalchino quelle del primo grande internamento:

trasformare i servizi sociali in strumenti di sorveglianza” (L. Wacquant, Dallo Stato caritatevole allo stato penale. Note sul trattamento politico della miseria in America) sulle classi povere, veri e propri strumenti di controllo indiretto sulla vita degli strati popolari, che per mantenere quanto resta dei sussidi che lo stato elargisce a loro favore sono tenuti al rispetto di rigidi obblighi di condotta e soprattutto ad accettare qualsiasi lavoro venga loro offerto. E qui siamo ancora al metodo classico.

Due forme allora furono proposte: neutralizzazione collettiva (in base alla quale una pena detentiva fissa sarebbe stata applicata a tutti gli autori di un particolare tipo di reato, ritenuto sintomo di particolare pericolosità) e neutralizzazione selettiva (in base alla quale le pene detentive più lunghe sarebbero dovute essere applicate ai delinquenti ritenuti più pericolosi, indipendentemente dal reato commesso). Si scelse la seconda, dato che la prima avrebbe determinato il rischio di un eccessivo sovraffollamento carcerario e la possibilità di disordini sociali.

Così al giro di boa del secolo e del millennio, la scienza giuridica e la pratica repressiva, riscopre e riapplica la classica teoria della prognosi di pericolosità, una previsione probabilistica sui comportamenti fuori-legge dei soggetti osservati; allo stesso modo del calcolo attuariale delle imprese di assicurazioni per prevedere il rischio. Previsione non più allo scopo rieducativo ma invalidante; allo scopo di rendere incapaci i delinquenti più pericolosi e i sovversivi.

Questo dell’invalidazione sembra essere il terreno scelto per tenere sotto controllo il disordine sociale e la potenziale trasgressione; un nuovo sistema di governo poliziesco dell’universo della marginalità sociale.

Gli esempi non mancano e sono stati sperimentati nelle periferie urbane e negli stadi: dal daspo (Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive), al foglio di via, al domicilio coatto, ecc., ma anche l’uso, assai diffuso, delle misure di controllo nella “custodia cautelare” (domiciliari, firme, ecc) in luogo della carcerazione.

 

la “delinquenza” è espressione della lotta di classe?

Da quanto detto sopra, da questo tentativo stringatissimo (con inevitabili schematizzazioni di processi complessi) nel ripercorrere la politica penale degli ultimi secoli per giungere ad oggi, al grande internamento liberista, mi sono convinto, e spero di convincere altre e altri, che oggila “delinquenza” è chiara espressione della conflittualità sociale, della lotta di classe. Oggi più di ieri.

Mi rendo conto che è un’affermazione un po’ eretica per l’eccessivo moralismo perbenista che grava, purtroppo, su grandissima parte della società e su buona parte del movimento, ma credo sia comunque un interrogativo ineludibile per capire lo svolgersi della questione sociale-penale e le sue tendenze e, conseguentemente, come immaginare -standoci dentro- un conflitto sociale in grado di sovvertire l’ordine capitalistico esistente.

È venuta meno la vecchia struttura produttiva basata sulla grande fabbrica, in cui forte era la presenza di organizzazioni sindacali e politiche e la frequente conflittualità, che ha consentito al proletariato urbano livelli di vita, di protezione e di sostegno, inimmaginabili nei secoli passati, ed ha rappresentato il volano per il decollo di tutte le altre rivendicazioni di carattere sociale-civile, che ha – dall’altra parte – consentito una integrazione di questa classe nel “mondo dei diritti”, ma anche all’interno del rispetto della “legalità”. Eppure se riflettiamo attentamente, si è evidenziato il fatto che, proprio nel momento storico di massima integrazione della classe operaia nel “mondo dei diritti”, settori consistenti di questa classe abbiano espresso tutta la loro contrarietà a “integrarsi nella schiavitù dorata”, manifestando l’insopprimibile desiderio alla libertà e all’aspirazione rivoluzionaria.

Poi, le esigenze del capitale e le sue armate hanno prevalso. E oggi ai lavoratori, ai proletari in esubero e ai sottoproletari resta la sola possibilità di inserirsi nell’altro recinto, quello di chi recupera reddito dal lavoro extralegale aderendo a una sottocultura di strada fortemente non-omologa all’ordine esistente, ma dispersa e inefficace. Ma che potrebbe diventare antagonista e, perché no, rivoluzionaria.

 

invalidare selettivamente

Vediamo più da vicino la novità del nuovo indirizzo criminologico che poi diventa politica criminale e che postula l’utilizzo della pena detentiva non solo con finalità retributive, riabilitative oppure di deterrenza anche terrorizzante, ma soprattutto con lo scopo di invalidare, rendere incapaci i delinquenti più pericolosi e i sovversivi: “il suo obbiettivo non è di eliminare il crimine ma di renderlo tollerabile“.

Questa è la novità: invalidare!, ma selettivamente. Pur continuando a operare la pratica deterrente-terrorizzante.

Oltre alla sperimentazione fatta sulle tifoserie del calcio e sulle bande giovanili, c’è da considerare la larga diffusione negli Usa e nell’Europa del nord delle cosiddette “misure alternative”.

Anzitutto va fatta una fondamentale precisazione: per chi sta in carcere e anche per chi gli/le è solidale, queste “misure” vanno sempre preferite alla carcerazione intramuraria, evitando così stupide affermazioni ideologiche spesso sulla pelle di altri/e. Ma qui stiamo analizzando il procedere del sistema repressivo e di controllo. Con le “visite” a domicilio della polizia, durante i controlli giornalieri, si rende difficile alle persone controllate di partecipare ad avvenimenti oppure di frequentare i loro ambienti dove maturano le attività che si vogliono sanzionare. Durante le “misure alternative” la polizia entra nel domicilio del controllato/a e scheda chiunque ne condivida l’abitazione, lo stesso fa nel suo posto di lavoro, a chi è sottoposto a queste misure è vietata la frequentazione di luoghi in cui ci siano “pregiudicati”, il controllo poliziesco scandisce la sua giornata e lo/la segue ovunque, monitorizza gli ambienti limitrofi, si insinua in tutti i luoghi che frequenta, diffondendo la deterrenza e la presenza poliziesca in ambienti sempre più vasti.

Fate una prova: chiunque storcerà la bocca, anche un inossidabile filo-americano, quando gli sbatti in faccia i 2 milioni e mezzo di carcerati negli Usa, ma nessuno, nemmeno di estrema sinistra, farà una piega se gli si ricorda che circa 5 milioni sono in “controllo penale esterno” ossia in misure alternative, con obblighi, controlli e divieti. Cinque milioni di persone costituiscono un potente dispositivo di invalidazione di massa, che opera su di loro e si espande sugli ambienti di provenienza e di frequentazione.

Per chi viene imprigionato/a l’invalidazione si attua con l’isolamento e la differenziazione. La sperimentazione attuata dal personale politico-militare negli anni Settanta e Ottanta per mezzo dell’art. 90, dei “braccetti di lungo controllo”, e le tante forme di differenziazione, i duri regimi di detenzione speciale e le restrizioni interne, avevano il compito terroristico per indurre alla delazione o alla dissociazione (questo ruolo rimane nei confronti degli appartenenti alla criminalità organizzata per ottenere la delazione col 41bis, il 4bis, ecc.); per tutti gli altri e le altre queste differenziazioni si pongono il compito di isolare tra loro, isolare con l’ambiente da cui provengono e isolare dalla popolazione prigioniera dei possibili agitatori e organizzatori di conflitti interni al carcere.

Il ciclo è compiuto: dalla Repressione correzionale, a quella deterrente, infine quella invalidante!

 

quale diritto?, quali diritti?

Riprendendo il concetto di “legalità”, va capito il ruolo che svolgono strumenti come il diritto, i diritti e l’assistenza. Per loro vale la definizione classica: sono “meccanismi idonei a produrre nell’individuo conformità ad una norma”. In generale sono strumenti atti a riprodurre l’ordine esistente tollerando modifiche che non intaccano l’ordine stesso.

A tal proposito Foucault riporta la polemica settecentesca nei confronti della monarchia, descritta quale istanza di potere arbitrario ed irrazionale, polemica che non era diretta, ad un’attenta valutazione, contro il concetto di sovranità e la correlativa rappresentazione “giuridica” del potere, bensì contro gli eccessi e le irregolarità che connotavano l’utilizzo della sovranità da parte del monarca. L’attività dei riformatori fu infatti diretta ad una rifondazione più razionale della sovranità, a favore della costruzione di un centro di potere senza scarti o irregolarità. Questo importante snodo storico fra XVIII e XIX secolo “non ha messo in dubbio il principio che il diritto debba essere la forma stessa del potere e che il potere debba sempre esercitarsi nella forma del diritto” [M. Foucault, La volontà di sapere].

 

il controllo extragiudiziario

Il controllo si avvale di vari meccanismi; da quello imperativo, sia esso un divieto oppure un obbligo, che si realizza per mezzo dell’apparato giudiziario poliziesco, ma anche per mezzo di quello in grado di creare atmosfere culturali in cui siano desiderabili alcuni comportamenti, sia conveniente raggiungere certi obiettivi e non altri, insomma tutto quello che non produca deviazioni rispetto ad un dato modello comportamentale. E oggi il controllo sociale nel suo complesso attribuisce sempre più maggiore rilevanza a fattori di controllo che non provengono direttamente dall’apparato giuridico-poliziesco.

Ciò avviene nel quadro di quella «democrazia d’opinione», in cui conta l’enfasi “massmediatica” nel raccogliere consensi. In tale contesto la politica criminale è impostata su sentimenti elementari quali “paura”, “insicurezza”, “rancore”, “vendetta” che trasformano il meccanismo che elargisce sanzioni in una risorsa per la conquista del consenso politico per mezzo dell’individuazione del “nemico pubblico” in grado di rafforzare la coesione sociale intorno al sistema di potere.

Le funzioni dello Stato hanno perso, per ora, gran parte delle attività e decisioni in merito alle questioni economiche, ma hanno accentuato la loro attività come meccanismo per giungere alla formalizzazione di norme di comportamento per la regolazione dei settori più importanti della vita sociale. Però è anche successo che, cominciando a intravvedere i “danni” del liberismo e della globalizzazione, al fatto che si spostava via via l’accento dalla politica all’economia, molte persone prima e i filosofi e politologi poi, scoprivano che la sovranità delle multinazionali, così come quella delle medie aziende, è assai più feroce di quella dello stato, il quale nonostante la sua ferocia, nel 900 ha partorito un patto del lavoro (grazie a durissime lotte) che ha migliorato di molto le condizioni delle masse proletarie, e così le genti e molti filosofi si affannano, contraddittoriamente, nel ritornare al Machiavelli e alla sua sovranità dello stato.

 

legalità/ legittimità

Come è noto, Marx espone accuratamente il processo di espropriazione realizzato dalla borghesia: fine del servaggio e delle corporazioni, nonché delle città sovrane, e quindi nascita del proletariato (eslege), cioè di individui che possono vendere sul mercato soltanto la propria forza-lavoro. Il “processo che crea il rapporto capitalistico” – che è sostanzialmente un processo di “separazione del produttore dai mezzi di produzione” – produce conseguenze, oltre che economiche, anche sociali, nelle cui fasi “grandi masse di uomini vengono staccate improvvisamente e con la forza dai loro mezzi di sussistenza e gettate sul mercato del lavoro come proletariato eslege“ [Il Capitale]

Ma lo stesso Marx ci racconta pure come l’espropriazione si “attuò come azione violenta individuale, contro la quale la legislazione [dell'epoca] combatté, invano, per centocinquant’anni” e ci chiarisce perché si dimostrarono inefficaci le azioni dei governi e dei poteri “legali” dell’epoca per contrastarla. Per far ciò prende a riferimento gli Essays, civil and moral, di Francis Bacon, nei quali il filosofo-giurista inglese commenta con favore un provvedimento di Enrico VII (nel 1489), che cercava di impedire l’usurpazione delle terre comuni consentendo, al contrario, di “far crescere i sudditi di ricchezza sufficiente e di condizione non servile, e di mantenere l’aratro in mano di proprietari non di mercenari“. Marx ci propone uno strumento interpretativo eccezionale, spiegando che “quel che chiedeva il sistema capitalistico era una condizione servile della massa del popolo; la trasformazione di questa in mercenari, e la trasformazione dei suoi mezzi di lavoro in capitale“. E così, tempo dopo, la “legalità altra”, quella degli espropriatori extralegali, che aveva la sua forza nella necessità della produzione capitalista, diventò legge e i governi si piegarono a questa “nuova legalità” che aveva dalla sua la legittimità in quanto produceva molti più beni.

Da allora in poi, fu la “la legge stessa” a diventare “veicolo di rapina delle terre del popolo“. Questo fu “il progresso del XVIII secolo“: l’attuazione pratica di un “colpo di stato parlamentare“, come lo chiamò Marx, che consentì di “trasformare la proprietà comune in proprietà privata“; degnamente rappresentato dai “Bills for enclosures of commons” (la forma parlamentare del furto con gli enclosures acts, le leggi sulle recinzioni) altresì detti: “decreti di espropriazione del popolo“. Giungeva così a conclusione un processo iniziato sotto la forma della prevaricazione pura e semplice e già alimentato dall’esproprio dei beni ecclesiastici, a seguito della Riforma.

Da allora il sistema delle leggi, la legalità, si piegò alle misure che vietavano le aggregazioni operaie e fissavano dei rigidi tetti salariali, accompagnata da una legislazione terroristica contro ozio e vagabondaggio, che aveva il compito di costringere gli individui al lavoro, privandoli della forza contrattuale fornita loro dalla scarsità di manodopera, caratteristica del periodo. La capacità di contrattare le condizioni della loro prestazione d’opera si trovò così stretta tra i tetti salariali imposti dalla legge sul lavoro e la legge penale che imponeva sanzioni anche corporali contro chi fosse colto in stato d’inoccupazione.

Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege, fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D’altra parte, neppure quegli uomini lanciati all’improvviso fuori dall’orbita abituale della loro vita potevano adattarsi con altrettanta rapidità alla disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia furono puniti, in un primo tempo, per la trasformazione in vagabondi e in miserabili che avevano subito. La legislazione li trattò come delinquenti «volontari» e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti” [Il Capitale].

Possiamo a questo punto concludere che, in un dato ordine sociale, viene designato reato e come tale perseguito, non l’atto caratterizzato da un suo disvalore intrinseco e percepibile in senso assoluto, ma dalla relazione che il comportamento criminalizzato intrattiene con altri rapporti sociali fondamentali, ossia quelli relativi al modo di produzione.

 

…dunque il carcere

Quale ruolo ha assunto in questi passaggi il carcere? Bisogna riconoscere che il carcere si dimostrato capace di svolgere tutte le funzioni che, di volta in volta, gli venivano richieste. Da strumento in grado di aumentare le forze produttive e consentire l’immediata disponibilità di una forza lavoro a bassissimo costo, in momenti di carenza di mano d’opera, a strumento capace di smorzare/mitigare le conseguenze sociali più conflittuali. Il carcere è riuscito ad assumere un ruolo di integrazione forzosa dei proletari all’interno dell’ordine capitalistico, così come di neutralizzare quegli individui ritenuti più pericolosi e meno integrabili.

Per quelli e quelle che, encomiabilmente, si occupano dei problemi del carcere e di una possibile “umanizzazione” della detenzione, poniamo la domanda: si possono migliorare le condizioni della popolazione prigioniera? Come sembra chiedere oggi la cosiddetta opinione pubblica con il contorno di papi e presidenti. La risposta è semplice: NO!, il carcere non è riformabile in quanto deve mantenere il ruolo invalidante e di deterrenza terroristica: tanto più si degrada e svalorizza il lavoro in un contesto sociale, altrettanto afflittiva dovrà essere la sanzione penale, al fine di rendere preferibile anche la più degradata situazione lavorativa rispetto alla sanzione.

E ce lo ricordano Rusche e Kirchheimer: “Ogni sforzo per una riforma del trattamento del delinquente trova il proprio limite nella situazione dello strato proletario, socialmente significativo, più basso, che la società vuole trattenere dal commettere azioni criminali“.

Per adempiere i nuovi compiti posti al controllo e alla repressione dall’immissione di nuove e notevoli masse di forza lavoro immigrata nel mercato del lavoro, il carcere ha partorito il suo prolungamento: il CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione).

 

sanzione da sancire da sacro… dissacriamo la legalità!

Le conclusioni di queste righe non sono altro che le proposte che ho accennato in alcune assemblee, come quella del 14 marzo scorso:

uno- la Repressione è interna al conflitto di classe e al disordine sociale. Per il primo opera per riportarlo, o non farlo uscire, dal recinto della legalità; per il secondo opera per tenere il recinto della extralegalità ben distinto dall’altro, sottomesso e controllato perché non fuoriesca dal fisiologico andamento.

due- Che fare dunque? Abbiamo solo la possibilità di ridurre gli effetti della repressione, non di abolirla finché non si abolirà lo stato borghese, sostenendo con forza chi la subisce. Il controllo penale tende a separare e isolare, la solidarietà materiale e fattiva può ricostruire i legami sociali in termini conflittuali e organizzati. Si può iniziare costruendo in ogni territorio una cassa di resistenza per chiunque venga colpito dalla repressione (comprendendo anche la repressione sul lavoro: sospensioni, licenziamenti, multe). Chiunque però, evitando di ergersi a giudici! Facendo in modo che i proletari, nella cui famiglia o cerchia di conoscenti vi sia un “extralegale”, si liberino dalla stigmatizzazionee dal velo della vergogna e affrontino la “legalità” come un avversario da combattere, come un padrone.

tre- organizzare sul territorio, insieme alle lotte sui bisogni quali casa, salario, ambiente, trasporti, ecc., anche il contrasto alla repressione, nelle forme che si riterranno storicamente praticabili stante i rapporti di forza.

Il resto lo dirà il dibattito nel movimento.

marzo 2014                                 salvatore ricciardi

Sullo stesso problema vedi anche qui e qui

Da http://contromaelstrom.com/

 

Facebook

YouTube