Le guerre dimenticate: Siria e Libano
Dopo 4 anni di guerra civile, 150 mila morti, 2 milioni e mezzo di sfollati, enormi distruzioni e lo sprofondamento delle condizioni di vita per la massa dei proletari rimasti, dobbiamo osservare come quella che era iniziata come una rivolta popolare è divenuta uno scontro tra potenze (regionali e mondiali) che fanno cinicamente leva sui contrasti etnico-religiosi per esercitare una propria influenza nell’area.
Se una indicazione possiamo dare, è che non c’è nessuna parte per cui parteggiare, perché ogni esercito e banda armata esprime interessi borghesi e reazionari; l’unica via è l’organizzazione indipendente del proletariato, in Siria come in Italia e ovunque nel mondo, e il suo collegamento internazionalista per una lotta comune contro i propri oppressori borghesi e l’imperialismo.
Ci sono guerre che improvvisamente scompaiono dai clamori della cronaca; questo non significa che non si continui a combattere o a morire ma semplicemente che i contendenti interni e i burattinai esterni al paese non ritengono utile un coinvolgimento emotivo e propagandistico del grande pubblico. E’ il caso attualmente del sanguinoso conflitto siriano e del possibile riesplodere di un conflitto libanese diretta conseguenza del primo.
La guerra civile in Siria dura ormai da quattro anni, con i suoi numeri tremendi di morti (almeno 150 mila) e profughi (almeno 2 milioni e mezzo), che da mesi non vengono aggiornati. Nessuno più punta su una sconfitta o una deposizione di Bashar al Assad, i ribelli a tutt’oggi non hanno una catena unificata di comando e non c’è una coerente coalizione internazionale che li sostenga o li indirizzi.
Oggi il regime controlla il 40% del territorio (dalla capitale Damasco alla costa occidentale, le strade da Damasco ad Hama e Aleppo) e il 51% circa della popolazione. Gli aiuti in armi e finanziari da parte dell’Iran restano inalterati nel tempo. Assad conserva una superiorità militare sui ribelli, in particolare per missili, artiglieria, ed ha il totale controllo dei cieli. Un suo punto di debolezza resta che dei circa 300 mila soldati che costituiscono la truppa la maggioranza sono sunniti e sta diventando difficile il reclutamento. Tanto che si ricorre sempre più spesso a forze irregolari alawite, anche di origine turca o irachena, dette Shabiha, e a volontari sciiti iracheni, per lo più sadristi e sciiti afghani. Qualcuno ha detto ironicamente che il regime siriano è ormai una coalizione di forze filo-iraniane. Sul piano militare comunque Assad a metà 2013 ha iniziato una sorta di riconquista (Qusayr, i monti Qalamoun, che garantiscono l’accesso al Libano, Homs e Rankous e ha in programma per l’estate 2014 la riconquista di Aleppo (Figaro 4 giugno). Aleppo significa per il regime il recupero parziale del controllo sui campi di petrolio (cfr Deutche Welle 10 maggio 2014).
La previsione di uno status quo di guerra senza modifiche sostanziali è confermata dalla ripresa dell’attività diplomatica verso Damasco: apertura di un “ufficio di cooperazione” svizzero a Damasco, riattivazione delle sedi diplomatiche di Svezia, Austria, Spagna, Serbia. Molti faccendieri con base in Libano hanno intensificato la spola fra Damasco e Beirut per conto di clienti europei mentre sempre attivi sono i businessmen cinesi, russi e coreani.
La frammentazione della Siria, la sua dissoluzione come stato unitario è ormai in atto. Il paese oggi è un confuso patchwork di poteri rivali, di feudi che si combattono gli uni con gli altri e a intermittenza combattono contro Assad, nessuno abbastanza forte da eliminare il regime o i rivali.
Assad del resto non controlla più una struttura statale unitaria, ma piuttosto coordina una rete di interessi. Anche militarmente Hezbollah e Guardie Rivoluzionarie iraniane combattono al suo fianco, ma non sotto il suo comando.
A nord tre province sono ormai sotto il consolidato controllo dei Curdi del Partito dell’Unione Democratica Curda (PYD con la loro milizia YPG), da quando Assad si ritirò nell’estate del 2012 l’area va dal confine turco al confine iracheno, comprendendo Ayn al Arab, Kobani in curdo, nel governatorato di Aleppo, fino a Afrin/Efrin, sulle rive dell’Eufrate, a Ar Raqqah e fino ad Ras al Ayn, non lontano dal confine con l’Iraq del Nord, anch’esso a controllo curdo.
Ormai completamente autonomi, ben organizzati sotto il profilo militare, ma anche sul piano amministrativo, i leader curdi, a fronte del disfacimento dello stato siriano, parlano apertamente di diritto all’autodeterminazione dei popoli e della creazione di un Kurdistan siriano collegato con il Kurdistan iracheno e con i curdi della Turchia vedi cartina).
Curdi siriani hanno forti legami con il PKK dei curdi di Turchia, hanno regolari rapporti con i curdi iracheni e il loro stato autonomo.
Un sostegno consistente ricevono anche dai circa 100 mila curdi che vivono in Israele (immigrati negli anni ’40 e ’50), col pieno appoggio delle autorità israeliane.
Oggi Israele è un modello per un eventuale Kurdistan formato dalla federazione dei vari spezzoni etnici esistenti in medio Oriente e molti politici americani, soprattutto repubblicani, cominciano a puntare su questa ipotesi, vedendo nei curdi un interlocutore valido per gli interessi statunitensi in alternativa al caos “arabo”. Israele ha iniziato ad avere intensi rapporti d’affari prima con l’autonoma nazione curda creatasi dagli anni ’90 in Iraq al riparo della no-fly zone creata dagli americani (oggi indicata come KRG), sia sul piano commerciale che degli investimenti. Adesso intensifica i rapporti con i curdi siriani, con fornitura di armi e assistenza di intelligence perché i gruppi come al Nusra e in genere l’opposizione islamica siriana è considerata pericolosa dagli israeliani, che preferiscono di gran lunga il regime di Assad. Gli aiuti israeliani al KRG sono sempre stati forniti in assoluta discrezione, perché Israele non voleva urtare i Turchi con cui vigeva un accordo diplomatico molto stretto. Oggi i rapporti fra Israele e Turchia si sono raffreddati, gli stessi turchi intessono rapporti diplomatici e di affari con il KRG, ma sono i curdi, che vogliono mantenere rapporti di affari con le comunità arabe locali e con i paesi del Golfo Persico, a non voler rendere troppo evidente il rapporto con Israele. Ancora più coperti sono gli aiuti israeliani ai curdi iraniani, che sono i più deboli in termini di opposizione al proprio governo. E’ interessante che l’informazione viene da fonti dell’intelligence tedesca, molto interessata a tutto ciò che avviene nella “mezzaluna fertile”, dall’Egitto all’Iraq (cfr Ofra Benjo del Moshe Dayan Center della Tel Aviv University su Texas University Press aprile 2014).
A minacciare la loro autonomia però ci sono gruppi islamici, il più importante dei quali è il ISIS o ISIL, Islamic State of Iraq and the Levant, i cui membri accarezzano il progetto di un “califfato sunnita” entro i confini dei tempi di Maometto e nel frattempo introducono in modo anche brutale la sharia in un paese fino a ieri noto per la sua laicità. L’ISIS non ha buoni rapporti con l’altro gruppo islamico militarmente rilevante, al-Nusra, nonostante i tentativi di al-Zawahiri, attuale leader di al Qaeda, di collegarli fra loro. La Turchia è stata accusata di armarli, ma non ci sono prove certe di questo. Quello che è certo è che alcuni di questi combattenti sono ceceni, e molti sono iracheni, vengono dalle regioni di Anbar e Ninewah, e stanno tentando di diventare i “doganieri” per i traffici fra Siria e Turchia, costituendo posti di blocco, praticando il contrabbando dalla droga alla benzina, alle armi, non disdegnando per autofinanziarsi il rapimento di ricchi curdi o alawiti (cfr Guardian 7 giugno). Dopo una forte avanzata verso ovest nell’estate del 2013, adesso gli uomini dell’ISIS hanno abbandonato tutta l’area di Aleppo, temendo che una avanzata delle truppe di Assad li separi dalle loro fonti di rifornimento in Iraq.
Che l’area più contesa sia il nord non è casuale, è quella dei campi di petrolio/gas, dove si concentrano i silos di grano e quel poco di produzione industriale ancora in atto. Lo scontro fra curdi e ISlS può anche avere motivi religiosi, etnici, politici, ma è soprattutto una lotta per il controllo delle risorse, delle strade importanti e delle frontiere
Quindi il conflitto al nord per ora non è più con Assad, ma fra questi due gruppi dominanti.
Una analisi dettagliata dei gruppi islamici ribelli attivi in Siria, dal punto di vista degli sponsor stranieri, della forza e organizzazione militare e della ideologia è possibile, ma rischia di essere un esercizio sterile (Nota 1), perché quello che sta avvenendo è lo sfascio dello stato e l’instaurarsi di una “economia di guerra” in cui ogni gruppo grande o piccolo, prende possesso delle risorse di un’area e le sfrutta a proprio vantaggio senza più dover rispondere a una autorità superiore. Per chi è al vertice si tratta spesso di insperati guadagni e di una situazione di vantaggio sociale a cui diventerà più difficile rinunciare per una eventuale “pace”. Una eventuale “Ginevra 3” è sempre più inverosimile perché al tavolo delle trattative dovrebbero sedersi attori sempre più numerosi. Lo scrive Jonathan Spyer su Middle East Forum del 2 giugno – Disaster in the Levant: the Syrian Civil War in its Fourth Year ma anche Vartan Oskanian per Al Jazeera che vede una opposizione siriana con molte teste e “almeno 10 importanti attori stranieri” e cita Usa, Russia, Europa, Iran, Turchia, Arabia, Qatar, Giordania, Libano e Iraq.
Il regime di Bashar al Assad ha appena celebrato la sua farsa elettorale (le elezioni presidenziali in cui poteva accedere solo il 60% dei siriani, con una partecipazione dichiarata del 75% degli aventi diritto, Bashar sarebbe stato riconfermato con l’88% dei voti validi). Non meno farsa questa elezione di quella svoltasi pressoché in contemporanea in Egitto, per eleggere Al Sissi, ma non sembra che gli elettori siano stati costretti a votare.
Secondo gli osservatori ormai Assad sembra il male minore, rispetto al caos delle zone “liberate”. Ha votato in massa per Assad soprattutto chi si trova negli orribile campi profughi in Libano, Giordania e Turchia (cfr Figaro 5 giugno 14). Come hanno spiegato ai giornalisti di le Figaro, i profughi hanno votato per disperazione per l’unico contendente che sembra in grado di garantire uno stato unitario quale che sia, mentre l’opposizione fa solo paura (Le figaro 5 giugno). Il fatto è confermato dall’inviato di Al Jazeera in Girdania e Libano nel reportage del 4 giugno
Per la popolazione, infatti, anche se non muore o è costretta alla fuga, la nuova situazione significa quasi sempre la rinuncia a una regolare fornitura di energia elettrica, in un paese in cui il ventilatore non è un optional di poco conto, e il ricorso a generatori dal funzionamento un po’ fortuito, scarsità di cibo, di medicine, di rifornimenti in genere. Anche la fornitura di acqua potabile è irregolare e si ricorre a pozzi di fortuna. Nelle enclaves curde e nell’area controllata dal regime almeno gli ospedali sono aperti, le scuole funzionano, si gode di una relativa pace e sicurezza (cfr Middle East Forum – Jonathan Spyer Wars within wars 26 marzo 2014). Ma Aleppo, un tempo fiorente città di 3 milioni di abitanti oggi è un deserto di resti fumanti, in cui la residua popolazione ha ricominciato a soffrire di morbi scomparsi da anni, come la tubercolosi, la lesmaniosi e la scabbia.
Il PIL siriano è crollato dai 19.600 miliardi di dollari del 2011 ai 10.200 del 2013, il bilancio statale in mano ad Assad finisce quasi tutto in spese militari, nemmeno le infrastrutture vengono ripristinate.
Deutsche Welle del 10 maggio 2014 sottolinea che l’economia formale è al collasso, le varie microeconomie di guerra che emergono al suo posto servono interessi privati, che si opporranno al processo di pace e alla normalizzazione. Jihad Yazigi incaricato dell’European Council on Foreign Relations dichiara che le nuove reti di affari sono inscindibili dall’uso della violenza e ci vorrano un paio di decenni per smantellarle definitivamente, quando la guerra finirà. Aggiungiamo noi mai come oggi le guerre del capitalismo (Afghanistan, Libia o Siria non importa) pongono all’ordine del giorno l’alternativa “Comunismo o barbarie”.
Il conflitto siriano destabilizza tutta l’area: Libano
Il Libano è in pieno caos istituzionale. Dopo 330 giorni di crisi in febbraio è stato formato un governo di compromesso guidato da Tammam Salam, in cui ogni fazione del complicato puzzle libanese ha ceduto qualcosa pur di mantenere lo status quo. Ma il 25 maggio è scaduto il mandato del presidente Michel Suleiman, un militare che dal 2008 ha garantito la mediazione fra le due frazioni di potere contrapposte: la coalizione 8 Marzo, espressione di Hezbollah e sponsorizzata dalla Siria e dall’Iran, e la Coalizione 14 marzo, il partito di Hariri, sostenuto dall’Arabia Saudita e dagli Usa. In Libano il presidente deve essere cristiano-maronita, il premier sunnita e lo speaker parlamentare sciita.
La mediazione a suo tempo era stata presieduta dall’emiro del Qatar (accordi di Doha) e garantiva in pratica a Hezbollah potere di veto sul governo; è andata in crisi nel 2011 quando Hezbollah, contro il parere di Suleiman, ha deciso di combattere apertamente a fianco del regime siriano. Da quel momento attentati, scontri fra fazioni hanno minacciato il fragile equilibrio etnico-politico-religioso del Libano, messo in forse anche dall’afflusso di più di un milione di rifugiati siriani (pari a un quarto della popolazione libanese). Il rischio di una riedizione del sanguinoso conflitto del 1975-90 iniziato con l’arrivo di migliaia di profughi Palestinesi, non è teorico.
Al primo turno delle elezioni presidenziali (in cui votano i parlamentari), il candidato più votato, il cristiano maronita (e assassino conclamato) Geagea ha ottenuto solo 48 voti (contro gli 86 necessari), poi Hezbollah ha fatto mancare il numero legale, perché intende garantirsi la piena libertà di continuare a combattere a fianco di Bashar al Assad.. La sesta votazione è fissata per il 9 giugno, ma nessuno si aspetta la soluzione del vuoto di potere che si è creato.
(Nota 1) oltre ad Al Nusra e al ISIS già citati, ricordiamo il Fronte Islamico (Islamic Front), una somma di sottogruppi fra cui le Brigate Tawhid di Aleppo, Liwa al lslam di Damasco, Suqur al Sham, il gruppo salafota Ahrar al-Sham. L’IF opera soprattutto nella provincia di Latakia. Nella provincia di ldleb è presente il Syrian Revolutionaries Front, Harakat Hazm ecc. e infine il SMC Supreme Military Council) che si considera il braccio armato della Syrian National Coalition, assai beneficiata da aiuti europei e sauditi, ma di modesto rilievo militare. In particolare la stampa francese sottolinea la modesta entità dell’aiuto statunitense. Secondo Asia Times l’amministrazione Obama fornisce l’aiuto minimo per tacitare l’opposizione repubblicana, ma non vuole il minimo coinvolgimento in Siria. Arabia Saudita e Qatar, spesso in concorrenza fra loro, si contendono l’influenza e il supporto a molti gruppi islamici. Fonti militari Usa hanno dichiarato che poi i vari gruppi fanno commercio delle armi fornite , che quindi spesso sono vendute…. al nemico, cioè alle truppe sciite irregolari filo-Assad.