Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo (parte 3)

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Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo 1

Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo 2

26. Giappone e petrolio

La Prima Guerra mondiale dipese dal petrolio ma molto più dal carbone, le cui fonti erano abbastanza equamente distribuite fra i contendenti. Nella Seconda il petrolio ebbe un ruolo decisivo, rendendo drammatica la situazione di quei paesi, come il Giappone, privi di risorse energetiche sul territorio nazionale. Da quando il Giappone aveva sconfitto la flotta russa a Tsushima, lo scontro con gli Stati Uniti per il dominio del Pacifico era solo questione di tempo. Ciò che era sempre interessato agli Stati Uniti era il mantenimento della politica della “porta aperta” in Cina. In funzione di questa politica gli Usa avevano occupato una serie di isole del Pacifico: le Hawaii, Wake, Guam, le Filippine dovevano costituire un sistema di scali, di basi di rifornimento, di stazioni telegrafiche sulla rotta della penetrazione e del dominio del favoloso mercato cinese.

Nel 1931 il Giappone invase la Manciuria e nel 1935 attaccò la Cina mettendosi in diretto contrasto con gli Usa. Lo sforzo militare giapponese richiedeva petrolio, e questo arrivava per la maggior parte dall’Indocina che era sotto controllo occidentale. Senza addentrarci nei più complessi problemi politici, si può dire che, sotto molti aspetti, la guerra contro l’occidente non fu che un prolungamento della guerra che i giapponesi stavano già combattendo in Cina. In gran parte, l’attacco giapponese a Pearl Harbour e l’invasione dell’Asia sud-orientale furono il naturale sviluppo della penetrazione militare in Cina. Anche gli Stati Uniti entreranno in guerra per la Cina, oltre che per emarginare il Giappone.

Benché gran parte del Sud-Est asiatico si trovasse sotto il controllo delle potenze europee, per il Giappone l’interlocutore privilegiato, con cui intavolare i principali negoziati, furono gli Usa a causa del ruolo chiave che questi avevano nel commercio giapponese, soprattutto nel settore delle materie prime strategiche. Mentre l’Inghilterra, accogliendo le richieste di Tokyo, per isolare il regime nazionalista cinese aveva chiuso la strada dalla Birmania alla Cina, d’importanza vitale per il Kuomintang, e la Francia permesso alle truppe giapponesi di stazionare nel Nord dell’Indocina, furono gli Stati Uniti a creare gravi difficoltà ai giapponesi nel luglio 1940, introducendo un blocco delle esportazioni di alcuni prodotti di uso comune in Giappone. Nel settembre 1940, in coincidenza con l’occupazione giapponese dell’Indocina settentrionale, alla lista furono aggiunti due prodotti fondamentali, il petrolio e i rottami di ferro. Il 26 luglio 1941 il presidente Roosevelt firmò l’embargo totale, subito appoggiato dai governi inglese e olandese che bloccarono del tutto le esportazioni di petrolio dall’Indocina verso il Giappone.

Il petrolio del Sud-Est asiatico rappresentava per i giapponesi quello che per i tedeschi era il petrolio del Caucaso: la possibilità dell’autonomia energetica come base della proiezione di potenza, che per la Germania era la Russia e per il Giappone la Cina. L’embargo fu vissuto dai giapponesi come una calamità che metteva in pericolo la vita stessa dell’Impero, un incubo che influenzerà tutte le decisioni, soprattutto quelle belliche, spingendo il generale Hideki Tojo, capo del governo durante la guerra, a sostenere che il destino dell’Impero giapponese dipendeva dal petrolio.

Il Giappone offrì un accordo per porre fine ad ogni discriminazione nei rapporti commerciali nell’area del Pacifico, compresa la Cina, ma l’America nell’autunno del 1941 respinse la proposta di un incontro al vertice tra il primo ministro giapponese e Roosevelt, spingendo il Giappone a recitare la parte dell’aggressore. All’alba del 7 dicembre 1941, per rompere l’embargo petrolifero, il Giappone attaccò la base americana di Pearl Harbour, nelle Hawaii, dando occasione per l’entrata in guerra degli Stati Uniti. L’operazione contro Pearl Harbour aveva lo scopo di rendere inutilizzabile la flotta americana e non offrirle il fianco delle truppe giapponesi durante l’invasione del Sud-Est asiatico e dei giacimenti petroliferi delle Indie Olandesi. Inspiegabilmente i giapponesi lasciarono intatti i serbatoi di carburante a Pearl Harbour che contenevano riserve sufficienti per rifornire la flotta americana per due anni.

Durante la guerra gli Usa riforniranno di ingenti quantità di carburante la Cina nazionalista attraverso il Tibet, con grande impiego di uomini e mezzi.

27. Il grande affare della Seconda Guerra

Con l’entrata in guerra degli Usa la fame di petrolio subì una decisa impennata, con grave danno soprattutto per la Germania, che fino ad allora era stata rifornita sottobanco dalla Texaco attraverso la Spagna. Le risorse tedesche rischiavano di prosciugarsi perché i soli pozzi della Romania non erano sufficienti per le necessità dell’industria e dell’esercito. Giocoforza l’Europa nazista si riempì di fabbriche per la idrogenazione del carbone, proveniente oltre che dalle miniere della Germania da quelle della Francia e del Belgio. La distruzione delle riserve tedesche di carburante diventò quindi per gli alleati una priorità. A loro volta, gli oltre mille sommergibili tedeschi fecero del loro meglio per affondare le petroliere che attraversavano l’Atlantico, ma nulla poterono contro l’immensa capacità dei cantieri navali statunitensi, che riuscivano a sfornare più navi di quante i tedeschi ne colassero a fondo.

A partire dal 1943 i bombardieri della Raf e dell’Us Air Force iniziarono a colpire i pozzi rumeni riducendone di tre quarti la capacità. Nella primavera del 1944, in previsione dello sbarco in Normandia, migliaia di aerei alleati martellarono per due mesi i depositi di carburante e le linee di comunicazione della Wehrmacht in Francia, mentre nelle retrovie i “resistenti” sabotavano ponti e linee ferroviarie. Nonostante i massicci bombardamenti alleati, le fabbriche di carburante sintetico continueranno a funzionare in Germania fino all’ultimo, riuscendo miracolosamente a far fronte al 57% del fabbisogno nazionale di energia e producendo il 92% della benzina per l’aviazione. Ma, ormai, la sconfitta della Germania era solo questione di tempo, scritta anche nella sua carenza drammatica di petrolio.

Il secondo conflitto mondiale permetterà un arricchimento senza precedenti per i grandi gruppi monopolistici. Lo Stato nazionale diventerà il maggiore committente delle industrie del settore bellico, la siderurgia, la chimica e la meccanica, garantendo la fornitura di materie prime e prezzi di monopolio. Il petrolio delle raffinerie di Abadan costerà molto caro alle borghesie alleate ceduto, in base agli accordi di Achnacarry, ad un prezzo superiore di cinque volte il suo costo, e i governi inglese e americano si guarderanno bene dal fare pressione sui petrolieri dei loro paesi!

Ma la guerra fu un affare colossale non solo per i petrolieri. Già prima della loro entrata in guerra, gli Stati Uniti avevano avviato una produzione intensiva di materiale bellico. In pochi mesi diventeranno, insieme al Canada, i fornitori ufficiali delle democrazie alleate arrivando a produrre il 50% degli armamenti complessivi. Le industrie di punta convertirono la loro produzione e applicarono sistematicamente la standardizzazione dei processi lavorativi: Ford e Chrysler interruppero la fabbricazione di automobili per dedicarsi all’assemblaggio di aerei e carri armati, mentre le imprese di costruzione allestirono i cantieri navali. La standardizzazione permise di fabbricare una nave da guerra in 15 settimane (contro le 35 settimane del 1939) e una petroliera in 45 giorni (contro i 244 giorni di tre anni prima).

Per rifornire di benzina l’enorme quantità di mezzi che il 6 giugno 1944 sbarcarono sulle spiagge della Normandia furono gettate sotto la Manica qualcosa come ventidue condutture di acciaio flessibile che permisero un flusso ininterrotto di carburante dalla Gran Bretagna verso Cherbourg e Boulogne. Le pipe-line si allungheranno secondo le esigenze dell’offensiva nei territori man mano conquistati, raggiungendo il Belgio, l’Olanda e la Germania. Questo sistema evitò l’impiego di migliaia di camion-cisterna.

Nel dicembre 1944 i tedeschi, approfittando della nebbia che costringeva al suolo l’aviazione nemica, tentarono una controffensiva disperata nelle Ardenne. Il vero obiettivo erano i depositi di benzina del porto belga di Anversa ma, per ironia della sorte, i panzer furono bloccati sulla Mosa proprio dalla mancanza di carburante, a pochi chilometri da un enorme deposito di benzina americano. Anche le divisioni corazzate sovietiche, che da est si lanciarono attraverso la Germania, recavano al seguito un’enorme quantità di vagoni ferroviari pieni di carburante proveniente dai pozzi russi, iraniani e perfino americani.

Le bombe atomiche americane sganciate su Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945 più che determinare la fine della guerra suoneranno a morte per le velleità russe nell’area asiatica e affermeranno la supremazia economica mondiale del capitale a base statunitense. La politica rooseveltiana, accantonato l’isolazionismo, aveva permesso agli Stati Uniti di assurgere al rango di prima potenza imperialistica, dando alle forze armate americane il controllo dell’Europa occidentale e l’assoluta egemonia marittima.

Tuttavia, la contesa che ha visto il campo imperialista economicamente più forte uscire vittorioso dall’immane massacro, non è spiegabile, né tantomeno risolvibile, nei moduli delle libertà nazioni, né della vittoria della democrazia sulla barbarie, come sarebbe piaciuto a vinti e a vincitori. Sono interpretabili soltanto nei moduli della lotta mortale fra le classi, nella quale il proletariato mondiale aveva dovuto pagare il prezzo più alto, immolato alla controrivoluzione democratica-staliniana e per soddisfare la sete di profitto del capitale finanziario internazionale. Il piano di divisione del mondo foggiato a Yalta e Potsdam pretendeva costringere il magma sociale nei confini della contesa inter imperialista.

Ma, mentre l’Europa veniva chiusa nella morsa dell’occupazione militare, gli altri continenti sarebbero presto entrati in ebollizione per l’incontenibile moto di rivolta delle popolazioni più povere, più oppresse, più affamate del mondo. In particolare falliranno i piani neo-coloniali giapponese ed americano di espansione nell’immenso e popoloso spazio cinese.

28. Il nuovo ordine mondiale

Si era così addivenuti ad una nuova spartizione del mondo fra potenze imperiali in funzione della forza economica e militare di ciascuno, sempre in rapporti di rivalità e di conflitto tra i loro Stati nazionali, gendarmi a difesa di macchine produttive fondate sullo sottomissione della classe operaia. Le armate americana e russa, incontratesi nel cuore della Germania, avevano messo fine al primato imperialistico dell’Europa borghese.

Nei paesi europei “liberati” l’industria petrolifera era praticamente annientata dopo gli smantellamenti operati dai tedeschi e i bombardamenti alleati, per cui i petrolieri anglo-americani si trovarono in una posizione di forza.

Un accordo per un “nuovo ordine mondiale” finanziario e monetario venne negoziato fra inglesi e americani e firmato a Bretton Woods nel luglio 1944. Nella cittadina americana quarantaquattro capi di Stato, uomini di governo ed economisti di tutto il mondo, fra cui lord Maynard Keynes, fecero da maggiordomi alla potenza che poteva vantare il controllo della maggior parte dei capitali mondiali e l’economia più produttiva, gli Stati Uniti. Non c’è da stupirsi se il dollaro fu promosso allora a perno dell’economia mondiale. All’epoca gli americani possedevano i due terzi di tutto l’oro del mondo capitalista ed era quindi nel loro interesse stabilire un nuovo sistema monetario internazionale basato sull’oro.

Per l’Europa, distrutta dalla guerra e pressoché priva di mezzi di pagamento internazionale, un sistema basato sull’oro sarebbe stato attraente se quest’oro fosse stato in qualche modo ridistribuito, ma gli americani preferirono distribuire dollari sotto forma di doni o prestiti a basso tasso di interesse (Piano Marshall), imponendo che la loro moneta venisse considerata un mezzo di pagamento internazionale alla pari dell’oro, prendendo l’impegno di cambiare i dollari in oro al prezzo fisso di 35 dollari l’oncia. La supremazia del dollaro rispetto alle altre monete trae dunque la sua origine dalla posizione speciale che il dollaro assunse nel sistema monetario internazionale nel secondo dopoguerra.

Gli Usa acquisteranno all’estero merci, servizi e capitali, pagando i debiti con la moneta nazionale; gli altri paesi dovranno accettare i dollari in pagamento e metterli nelle proprie riserve accanto all’oro. Le cose fileranno lisce fino a quando ci sarà una proporzione ragionevole tra la somma di dollari accumulatisi fuori dagli Usa e la loro riserva aurea. Ma all’inizio degli anni Sessanta le cose cambiarono perché questa proporzione si squilibrò a svantaggio della riserva aurea e le banche centrali non americane cominciarono a esigere dalla banca centrale americana il cambio in oro dei dollari in loro possesso. La morte del sistema del gold exchange standard sarà certificata il 15 agosto del 1971 quando Nixon dichiarerà l’inconvertibilità del dollaro in oro.

L’architettura finanziaria costruita a Bretton Woods e che aveva consentito agli Usa di gestire a proprio vantaggio per almeno un ventennio le ricorrenti crisi del debito, i rapporti di cambio e la politica petrolifera mondiale, si basava sul Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, il Gatt e altre istituzioni internazionali. Originariamente, gli scopi del Fmi erano di assicurare la stabilità monetaria in una economia mondiale aperta, facendo le veci della parità aurea che aveva assolto il compito fino al 1914. Esso avrebbe dovuto assicurare ai paesi che si fossero trovati in situazioni di eccesso o di deficit nella bilancia dei pagamenti la liquidità necessaria ad attuare misure correttive. Ma dopo l’introduzione del sistema di fluttuazione delle monete, alla fine degli anni Sessanta, la funzione del Fondo diventò tecnicamente superflua, ed esso è sopravvissuto come semplice esecutore delle strategie dei Grandi (G4, G5, G7, ecc.) sia riguardo alla gestione degli aggiustamenti strutturali imposti unilateralmente ai paesi del Sud, sia riguardo all’integrazione nel sistema monetario internazionale dei paesi dell’Est.http://aurorasito.files.wordpress.com/2012/03/23178_dollar-oil.jpg

Quanto alla Banca Mondiale, essa fu pensata come ente complementare al Fmi per concedere credito a lungo termine in vista del progetto di “sviluppo” del Terzo mondo, mentre la ricostruzione economica europea fu affare privato di Washington attraverso il piano Marshall. A grandi linee possiamo dire che la Banca, più che essere una istituzione pubblica in concorrenza con il capitale privato delle multinazionali, è stata piuttosto un agente incaricato di sostenerne la penetrazione nei mercati del Terzo mondo, adoperandosi per distruggere le economie di sussistenza attraverso l’erogazione di crediti ad hoc e fungendo da assicuratore politico contro il rischio di nazionalizzazioni.

Inoltre furono gettate le basi per un accordo generale su dazi e commercio, volto a sostenere il “libero mercato”, in modo da scardinare tutte le resistenze doganali, tariffarie, protezionistiche dei paesi dominati che impedivano alle merci e ai capitali di fare del mondo un unico mercato. Accanto alle istituzioni finanziarie, l’Organizzazione Mondiale del Commercio rivestiva un ruolo fondamentale perché il capitale potesse trovare nuovi spazi di valorizzazione.

Nella loro apparente onnipotenza, i tre Grandi vittoriosi tennero dunque un vertice a Yalta, in Crimea, dal 4 all’11 febbraio 1945, allo scopo di spartirsi il pianeta e le sue fonti di energia.

Già la fornace della guerra, con le sue immani distruzioni e l’espansione dell’industria dovuta alle commesse statali e alla fame di approvvigionamenti, aveva dato all’economia una decisiva accelerazione. D’ora in avanti, il consumo di petrolio non poteva che aumentare, in considerazione del prevedibile sviluppo dell’industria automobilistica, della meccanizzazione delle aziende capitalistiche nell’agricoltura, della fabbricazione di tessuti sintetici, dell’impiego delle materie plastiche su grande scala. Per l’industria petrolifera americana era essenziale poter sostenere l’esplosione della domanda di greggio, e in questa prospettiva divenne irrinunciabile una più forte presenza in Medio Oriente. Di ritorno da Yalta, il presidente Roosevelt farà scalo in Arabia Saudita (dove già operava la Compagnia petrolifera americana Aramco) per suggellare i legami con i paesi maggiori produttori di petrolio e assicurare così la supremazia del capitale finanziario a base americana, in cambio della protezione politica e militare degli Stati Uniti.

Cominciò la solita commedia, su probabile sceneggiatura del governo di Washington, per eliminare gli ostacoli che intralciavano il libero movimento alle Compagnie americane. La Standard of New Jersey e la Mobil volevano entrare nella vecchia Aramco, una joint-venture operante tra la Socal e la Texaco, la quale necessitava di capitali freschi per sfruttare gli immensi giacimenti sauditi che aveva in concessione. Ma c’era l’ostacolo dell’accordo della Linea Rossa che legava le mani ai soci dell’Iraq Petroleum (cui appartenevano sia la Jersey sia la Mobil), impedendo loro di agire autonomamente. Di portarsi dietro gli altri soci, tra i quali l’Anglo-Persian, la Shell e la francese Cfp, neanche a parlarne. Meglio tentare di far decadere l’accordo del 1928. Il cavillo trovato dagli americani fu questo: durante la guerra la Compagnia francese Cfp si era venuta a trovare in territorio sotto controllo tedesco, quindi era da considerarsi “nemica” e perciò motivo di sopravvenuta illegalità dell’accordo.

Le quattro Compagnie americane dell’Aramco avviarono la costruzione della famosa Tap-line (trans-arabian pipeline), che oltre a costituire il più grande oleodotto del momento era anche il progetto privato più costoso al mondo. La sua costruzione fu portata a termine in due anni (fu terminata nel 1950) e richiese l’impiego delle tecniche più moderne per assemblare i 1700 chilometri di tubi che collegavano i pozzi sauditi al porto libanese di Saida. Si andava delineando la futura strategia petrolifera statunitense, che avrebbe fatto perno su tre paesi: l’Arabia Saudita, il Venezuela e l’Iran.

tratto da http://www.international-communist-party.org

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