“Determinatio est negatio”: dialettica del jazz

Continuando sulla scia delle riflessioni proposte qui, pubblicheremo una serie di contributi su filosofia e musica. Oggi prendiamo in esame il jazz.

“Quanto al fatto che la figura è una negazione, e non alcunchè di positivo,  è evidente che l’intera materia, considerata come indefinita, non può avere alcuna figura e che la figura può aver luogo soltanto nei corpi finiti e determinati. Infatti chi dice di percepire una figura, non dice con ciò niente altro se non che concepisce una cosa determinata e in quale relazione essa sia determinata. Questa determinazione, dunque, non appartiene alla cosa per se stessa, ma al contrario appartiene al suo non essere. Poiché, allora, la figura non è che determinazione, e la determinazione è negazione, la figura, dunque, come si è detto, non può essere altro che negazione”

(Baruch Spinoza)

Come una figura che si può tracciare, determinare, solo per distinzione da altre possibili figure, solo negando altre possibilità, così i suoni ed i silenzi dello swing si determinano negando altri suoni ed altri silenzi: in questa musica la singola nota pone come altro da sé tutto ciò che è diverso da essa. Il jazz rovescia l’ambizione, propria della musica accademica, all’uguaglianza tra le note ed alla regolarità – il che non significa monotonia – del fraseggio. Ogni nota si caratterizza per l’assoluta ineguaglianza di timbro e di intensità da tutte le altre. Ogni nota è la negazionedi tutte le altre.

Gli artisti che dettero vita alla musica che chiamiamo jazz, erano spesso autodidatti, o comunque non avevano avuto il modo di ricevere quella che oggi chiameremmo una formazione professionale, non padroneggiavano il proprio strumento. Da esso erano interessati a tirar fuori prevalentemente una loro forma di espressione, non avevano interesse per i virtuosismi. Nacque così un modo di suonare attraverso accenti e ritmi sincopati mediante scelte mirate a creare una gerarchia nel fraseggio attraverso note accentate che negano quelle non accentate e viceversa. Villanueva descrive lo spirito delle accentuazioni jazzistiche attraverso una riflessione su un altro tipo di musica:
«Per spiegare quella percezione dello scorrere del tempo che i musicisti jazz chiamano “pulsazione”, proponiamo un’analogia con musiche più direttamente ispirate alle fonti africane. Le musiche afrocaraibiche non sono, il più delle volte, basate ritmicamente su una segmentazione regolare per unità di misura, ma su cicli d’accentuazioni irregolari in un flusso costante. Come per la musica africana, non esiste una divisione in tempi propriamente detta. Sono per lo più degli strumenti acuti ad esprimere ciò che nei Caraibi spagnoli viene chiamato le claves, termine che significa esattamente “chiavi”» (Patrick Villanueva, “Il jazz”, Torino, Einaudi, 2007, p. 525).
Successivamente, con l’epoca delle grandi orchestre da ballo, questo “metodo” divenne una necessità: senza swing il pubblico rimaneva fermo come…nei teatri. I musicisti che si formarono in queste orchestre avevano più confidenza con i propri strumenti perché potevano dedicarsi alla musica come unica professione anziché suonare solo per arrotondare entrate provenienti da altre occupazioni: nacque così il bebop come sperimentazione ed improvvisazione sulle melodie che venivano suonate dalle orchestre da ballo. Artisti come Charlie Parker e Bud Powell iniziarono ad incastonare accenti e silenzi in una miriade torrenziale di altre note meno importanti, spesso appena accennate, talvolta solo pensate – sarà l’orecchio dell’ascoltatore a “immaginarle”. Questa nuova corrente operò una vera e propria corrosione dell’ armonia usata nei brani ballabili, ma non poteva mancare la componente principale di quel “metodo” per far smuovere l’ascoltatore: lo swing.

Lo swing è quindi la componente principale del jazz: la sola improvvisazione, ammesso che sia necessaria, non è sufficiente. Come nota Villanueva, parlando degli arrangiamenti di Duke Ellington: “In tutto questo, per la verità, non vi è nessuna improvvisazione, e nessuno può contestare che si tratti di jazz, per via di una scrittura e di un’interpretazione di grande flessibilità, valorizzate da una costante presenza di swing”. Altra differenza tra la musica accademica ed il fraseggio del jazz: se il carattere di quella è la continuità, il carattere di questo è il discreto. Prendiamo ad esempio l’ a solo di Miles Davis in So What dove “la chiave del suo fraseggio risiede nel gioco suono-silenzio” (in figura evidenziato dal rosso delle pause):

In questo a solo apprezziamo sia il negarsi di note in altre note diverse per timbro e dizione, sia, più in generale, il negarsi dei suoni nei silenzi e viceversa. La tensione elastica di questo fraseggio è generata dall’alternanza di lunghe pause e frasi minimali. Le pause pongono altro da sé, superandosi in un suono nell’istante in cui hanno coperto una quantità di silenzio sufficiente a generare la giusta aspettativa. Ecco che la quantità di silenzio si supera nella qualità del suono.

Il jazz è generato quindi da una duplice determinatezza come negazione; ogni nota si determina negando le altre ed i suoni ed i silenzi si determinano ponendosi come negazione dei rispettivi opposti. Tutta la musica, del resto, è generata dalla dialettica tra suono e silenzio, ma nel jazz l’uso che viene fatto di questa naturale alternanza è diverso da qualsiasi altro contesto: in questo fraseggio il silenzio raggiunge una enorme importanza, nel jazz le pause sono vere e proprie note…note mute. «Il trombettista Eddie Henderson amava raccontare che “una sera a San Francisco vide Thelonius Monk in un bagno di sudore passare un intero set premendo i tasti del pianoforte molto dolcemente, in maniera tale che non uscisse nessun suono dal pianoforte. Logico risultato!

E questa autentica filosofia del sottinteso si manifesta in tutti gli aspetti della sua musica, come in quelli della sua musica, come in quelli della sua vita  […] esprimendo il più con il meno […] E’ così, Thelonius Monk ha il potere di far parlare quello che sta sotto, celato agli occhi disincantati dei comuni mortali. Il potere di dire tutto con qualche nota soltanto…qualche indicazione…immaginiamo che disciplina richieda tutto ciò” (Laurent Wilde, Thelonius Monk Himself, trad. it., Minimum fax, Roma 1999, pagg. 102-103) .» (Massimo Donà, Filosofia della musica, cit., pag. 201).

La musica di Monk, nel suo complesso, può essere letta attraverso il motto dialettico dell’architetto Ludwig Mies van der Rohe: “il meno è il più” (Peter Blake, Tre maestri dell’architettura moderna, Milano, Rizzoli 1963).

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