Le ragioni geopolitiche del crollo dei prezzi del petrolio

di Demostenes Floros
Il trend ribassista del greggio non si spiega solo con l’aumento dell’offerta e il rallentamento della domanda. Pesano le scelte strategiche delle principali potenze mediorientali e mondiali.


A novembre, il prezzo del petrolio è crollato: la qualità Brent è diminuita da 84,71 a 70,02 dollari al barile ($/b), mentre il Wti da 78,78 a 66,1$/b.

Il cambio euro/dollaro si è mantenuto attorno a 1,24€/$. Nel contempo, il rublo si è fortemente deprezzato, sfondando quota 49 contro il dollaro e quota 60 contro l’euro. Solo nel breve periodo Mosca attutirà le minori entrate – espresse in dollari – derivanti dalla vendita delle materie prime, grazie all’apprezzamento del biglietto verde nei confronti del rublo. L’oro invece, nonostante la vittoria del No al referendum svizzero che mirava a obbligare la Banca Centrale a detenere il 20% di riserve in metallo prezioso, si è mantenuto poco sotto i 1.200$/oncia.

Alberto Clò ha recentemente scritto che “la caduta dei prezzi è riconducibile, in buona sostanza, a due grandi ordini di variabili. Primo, lato offerta, il ciclo degli investimenti che si è avviato dalla metà del decennio scorso, con una spesa totale tra il 2003 e il 2013 di 4 mila miliardi di dollari nel solo upstream, che ha generato un sensibile aumento dell’offerta corrente e della capacità produttiva di petrolio (oltre i 100 milioni di b/d).

Secondo, lato domanda, la sua distruzione strutturale nei paesi industrializzati (2005-2013: -5,0 milioni di b/d) quale effetto combinato dell’elasticità ai più elevati prezzi, dei miglioramenti d’efficienza, della recessione e del rallentamento congiunturale della crescita della domanda nei paesi emergenti (specie nell’area asiatica) [...]. Il combinato disposto di queste dinamiche ha generato due effetti: (a) un forte oversupply di greggio (eccesso di offerta), specialmente di qualità leggera nel bacino Atlantico, rispetto a una domanda mondiale comunque in crescita che ha raggiunto un nuovo record di 92-93 milioni di b/d; (b) un aumento della spare capacity (capacità produttiva inutilizzata) a 7-8 milioni di b/d – e quindi della resilienza a eventi traumatici – come non si osservava dalla metà degli anni 1980”.

Siamo così certi che una caduta dei prezzi dell’ordine del 38% circa in meno di 5 mesi sia riconducibile, in buona sostanza, a queste due variabili? A metà 2010 e 2012, il mercato del petrolio – nonostante la presenza di surplus dell’offerta nettamente superiore a quello attuale – non ha prodotto un crollo dei prezzi di questa entità. Di fatto, il trend corrente non è determinato solo dall’equilibrio fisico di domanda e offerta ma anche da altri fattori, in primis geopolitici, sulla scia dei quali si inserisce la speculazione.

Più precisamente: già a ottobre abbiamo suggerito l’ipotesi di una precisa scelta politica – operata anzitutto dai sauditi – in funzione anti-russa e anti-iraniana. Per il ministro delle Finanze di Mosca, Anton Siluanov, il calo del prezzo del petrolio potrebbe costare alla Federazione Russa fino a 100 miliardi di $ all’anno, mentre le sanzioni provocherebbero perdite per 40 miliardi di $.

Al momento, la Banca Centrale di Russia, non sempre in linea con le volontà del Cremlino, sta cercando di arginare questa situazione attraverso l’innalzamento dei tassi di interesse e l’abbandono della banda di oscillazione del rublo in favore della libera fluttuazione del medesimo (deprezzamento). Parallelamente, in accordo con le volontà presidenziali, essa prosegue da tempo una lenta ma costante accumulazione di riserve di oro in vista di ulteriori turbolenze: una parte della rendita derivante dalla vendita di materie prime viene investita in oro fisico.

In secondo luogo, la scelta di Riyad mette in difficoltà l’estrazione di tight oil nordamericano. A ben vedere però, come spiega Jack Worthington, investment banker e consigliere finanziario, la maggior parte dei produttori americani di tight fa profitti con costi del barile inferiori al break-even point (punto di pareggio del bilancio fiscale) della quasi totalità dei paesi Opec. Ad esclusione, guarda caso, di paesi come il Kuwait (75$/b), gli Emirati Arabi Uniti (70$/b) e il Qatar (65$/b), mentre i 93$/b equivalenti al prezzo di equilibrio dell’Arabia Saudita non sono certo un problema, visti gli oltre 720 miliardi di dollari in riserve di valuta estera del Regno.

[Break-even prices. Fonte: rt.com]

 In realtà, gli Stati Uniti sono da tempo ben consapevoli dei pregi e dei limiti – ambientali, geografici ed economici – del fracking. Secondo Bloomberg.com [citata al minuto 6'05" di questo video], il sogno dell’indipendenza energetica degli Usa sta creando “una montagna di debito” visto che “nei 12 mesi precedenti il 30 giugno, in media, per ogni dollaro guadagnato ne sono stati spesi 1.17$. Solo sette tra le imprese americane quotate al Bloomberg Intelligence E&P index, in tale arco di tempo, hanno presentato ricavi superiori ai costi di perforazione”.

Per di più, il problema per Washington potrebbe presto riguardare anche l’effetto sul mercato finanziario prodotto dal calo del proprio output di non convenzionale visto che “il 16% del mercato americano da 1,3 miliardi di dollari dei cosiddetti bond spazzatura fa riferimento al settore energetico”. Dopo che il tesissimo vertice dei membri dell’Opec del 27 e 28 novembre scorso ha sancito l’impossibilità di ridurre la produzione di greggio, cosa potrebbe riportare verso l’alto le quotazioni del barile?

Una prima risposta la si desume dalle parole di Clò: “determinante, in entrambi i casi [domanda e offerta], sono stati gli Usa, da cui dal 2005 è provenuta tutta la produzione incrementale di petrolio a livello mondiale. Se le loro importazioni nette di petrolio – la loro domanda estera – non fossero crollate da allora di 7 milioni di b/d (da 12,5 a 5,5), spiazzando una produzione pari a quella congiunta di Iran e Iraq, oggi pagheremmo il petrolio ben oltre gli 85 dollari”.

Nel medio periodo, quindi, l’eventuale impossibilità degli Stati Uniti di mantenere l’attuale output di tight oil – che a sua volta sostiene finanziariamente la produzione dello shale gas, visto che il costo medio di estrazione, negli Usa, è di $6 per Mbtu mentre l’attuale prezzo all’Henry Hub è di circa $4 per mbtue – potrebbe frenare l’effetto ribassista. Nel corso di un’intervista alla Cnn del 12 novembre, Obama ha nuovamente dichiarato che l’obiettivo Usa in Medio Oriente è rimuovere Assad. Il oresidente americano pare indicare nel sacrificio di quest’ultimo la strada grazie alla quale riproporre un nuovo “equilibrio” – anche in campo energetico? – a russi ed iraniani, nella speranza che nessuno sia tentato dal voler far naufragare il già difficile dialogo sul nucleare di Teheran.

Il vertice Apec del 10 novembre scorso è stato descritto come foriero di uno sconvolgimento degli equilibri mondiali. Di fatto, il numero di accordi attorno alla proposta cinese dell’area di libero scambio Asia-Pacifico ha prevalso sulla Trans Pacific-Partnership statunitense, al di là dell’intesa sino-americana sull’ambiente definita,impropriamente storica. Le parole con cui Xi Jinping ha salutato Vladimir Putin, “Russia e Cina devono resistere alle pressioni di Washington e rimanere unite, nell’interesse del mondo intero”, devono essere giunte alle orecchie dell’ex segretario di Stato americano, Henry Kissinger, secondo il quale ogni ulteriore mossa volta a ignorare “i pericoli di una nuova guerra fredda” può tradursi in una “tragedia”.

Forse sarà per questo motivo che Matteo Renzi, di fronte all’abbandono da parte della Federazione Russa del progetto South Stream a causa del doppi standard della Commissione Europea, ha commentato: “non è per noi motivo di preoccupazione immediata”.

Per approfondire: Il prezzo del petrolio, il dollaro e lo scontro tra Russia e Usa

Demostenes Floros è un analista geopolitico ed economico. Insegna presso il Master di 1° Livello in “Relazioni Internazionali di impresa: Italia-Russia” (Modulo: Energia) dell’Università di Bologna”.

(5/12/2014)
da Limes
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