L’efficacia delle lotte

L'efficacia delle lotte

Sta succedendo anche questo, nelle lunghe e spesso contorte discussioni sul “post Primo Maggio milanese”, in cui l’attenzione esasperata per i dettagli rischia di far perdere di vista la situzione nel suo complesso o viceversa, col rischio di inciampare ad ogni passo.

Si può insomma da un lato arrabbiarsi per come si deve stare in piazza e per quali obiettivi, o dall’altra appassionarsi sulla torsione reazionaria evidente impressa da Renzi per conto di Confindustria e Unione Europea. E in entrambi i casi può però risultare complicato cogliere l’elemento decisivo che si erge di fronte a chiunque, a qualsiasi livello, è abituato o costretto a gestire iniziativa sindacale, sociale, politica: come si fa ad ottenere un successo, se non c’è più alcun margine di trattativa?

Tutti veniamo da una lunga fase in cui, tra alti e bassi, si agiva conflitto – talvolta anche molto aspro e violento – per ottenere riforme vere (lo Statuto dei Lavoratori, per esempio), aumenti salariali, allargamento della sfera dei diritti, ecc, oppure per “limitare il danno” nell’erosione di quelle conquiste, una volta rovesciatisi i rapporti di forza. Persino nelle prigioni più dure si poteva ragionevolmente spuntare qualche condizione migliore, qualche spazio in più.

Tutto ciò è finito. Il renzismo è arrivato alla fine di un lunghissimo ciclo di arretramenti. Ed è arrivato per sanzionare, anche sul piano costituzionale, che il comando dell’impresa sulla società è l’unica priorità dell’agire pubblico. Che, quindi, non ci sono più spazi per contrattare alcunché. Qualsiasi sia il tipo di opposizione che viene messo in campo, inclusa quella parlamentare.

Per essere chiari. Non ottengono più nulla, pur accettando di arretrare vistosamente, nemmeno le Camusso e le Furlan, sindacalisti “complici” di lunga esperienza nel trattare in perdita. Non ottengono quasi nulla neanche i sindacati conflittuali, se non a livello aziendale e in casi sporadici. Non riescono più a ottenere spazio neanche i centri sociali più dialoganti, quelli che per oltre 20 anni hanno potuto contare su forme di dialogo con gli enti locali che si traducevano in regolarizzazioni, assegnazioni, “progetti” e qualche spicciolo.

Basta guardare la reazione governativa al grande sciopero della scuola (“ascoltiamo, ma tiriamo avanti con la testa dura”) per rendersi conto che la possibilità di incidere a livello politico generale è ridotta a zero. Il potere politico e le strutture di interessi che lo pilotano non si spostano di un millimetro dalla realizzazione dei propri obiettivi “strutturali”, di ridisegno complessivo degli assetti sociali e istituzionali per mettere al sicuro – perennemente – gli interessi del grande capitale mutinazionale.

Quindi, che si fa? Non è un problema di “forme di lotta”, perlomeno in prima battuta. Chi manifesta pacificamente a decine di migliaia non ottiene nulla, spesso neanche un articolo di giornale. Chi blocca la produzione (l’esempio delle lotte nella logistica) viene attaccato dalla polizia, licenziato, criminalizzato dai media. Chi sfascia tutto quello che gli capita a tiro (quasi soltanto “simboli”) forse non si pone neppure il problema di “ottenere qualcosa”.

È il problema dell’efficacia delle lotte e della pressione politica sulla classe dominante. Nessuna lotta singola (di una categoria, di una figura sociale, di un territorio, ecc) ha più speranza di raggiungere davvero l’obiettivo. Ancora una volta l’esempio della scuola arriva a proposito: ha rappresentato per decenni la base sociale più solida dell’”opinione pubblica democratica”, e si trova davanti come nemico il partito-governo su cui aveva fatto completo affidamento.

Ma se è così, ed è indubbiamente così – è finita anche l’epoca delle rappresentanze (sociali o politiche) costruite secondo la logica delle lobby particolari (dalle categorie produttive all’ultimo dei centri sociali, passando per l’intero “terzo settore”), fino alla autosufficienza autoreferenziale dei mille microscopici circoli della “sinistra antagonista”.

Ottenere un successo, in queste condizioni, ha ben poco a che vedere con le “tragicomiche conquiste immediate”, che pure sono indispensabili nei percorsi vertenziali (non solo sindacali). Ha invece a che fare con la costruzione unitaria sia del blocco sociale antagonista al capitale multinazionale, sia della soggettività politica relativa, sia dell’idea di altra società possibile.

Ogni giorno di permanenza nelle sabbie mobili dell’impotenza è una sconfitta che può diventare irrimediabile. Ogni passo avanti su questa strada è un “successo” che permette di avanzare.

da http://contropiano.org/

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