Le proteste e gli scioperi che scuotono la Russia

Pëtr Bizjukov, Gazeta, Russia – traduzione a cura di Internazionale

Con l’aggravarsi della crisi, lavoratori di regioni e settori diversi hanno cominciato a organizzare mobilitazioni comuni. È il segno che le tensioni sociali sono in aumento

Gli osservatori della società russa sono confusi: il paese è nel mezzo di una grave crisi, l’economia sta crollando, il rublo perde valore e i prezzi aumentano, eppure i cittadini – a loro modo di vedere – rimangono in silenzio. Al di fuori degli istituti di ricerca e delle redazioni dei giornali, tuttavia, si stanno moltiplicando gli episodi che mettono in discussione la tesi del “popolo inerte”. Se le proteste che da qualche tempo si svolgono nelle zone periferiche del paese continueranno a crescere al ritmo attuale, ben presto si creerà una convergenza tra i movimenti, e le mobilitazioni si allargheranno ulteriormente.

Secondo i dati raccolti dal Centro per i diritti sociali e del lavoro, quasi tutti i mesi del 2015 hanno fatto registrare una crescita della conflittualità, con il numero medio delle azioni di protesta degli ultimi anni (circa 250 all’anno) che è stato superato già alla fine dell’estate. Il mese di dicembre ha segnato il record assoluto da quando, nel 2008, il Centro ha cominciato il suo lavoro di monitoraggio: le azioni di protesta dei lavoratori sono state 53. In totale nel 2015 le mobilitazioni sono state 409, con un aumento del 40 per cento rispetto al 2014 e del 76 per cento rispetto alla media annuale nel periodo compreso tra il 2008 e il 2013. Il 2015 è stato un anno da record anche per il numero di azioni più radicali, come le interruzioni del lavoro decise senza preavviso. Questo tipo di contestazioni è aumentato del 73 per cento rispetto al 2014 e dell’87 per cento rispetto alla media annuale del periodo 2008-2013, passando da circa un terzo del totale delle azioni di protesta al 41 per cento. Ma quali sono i motivi di questo salto di qualità?

Nuove categorie

La causa principale è ancora il mancato pagamento degli stipendi, responsabile del 48 per cento delle azioni dei lavoratori. Negli anni passati questa percentuale era in calo: se nel 2008 le proteste innescate dai salari non corrisposti erano il 58 per cento del totale, nel 2013 rappresentavano il 29 per cento. Questa tendenza faceva sperare che un fenomeno grave come il mancato pagamento dei salari fosse in via di estinzione. Ma a partire dal 2014 c’è stata una nuova inversione di tendenza.

L’ultima ondata di proteste è diversa dalle precedenti non solo per le cause, ma anche per i settori coinvolti. Nel 2008 la metà delle agitazioni sindacali interessava l’industria, settore in cui i sindacati, nonostante tutte le loro carenze, sono più forti. Nel 2015, invece, solo un’azione su tre ha riguardato il comparto industriale, mentre le altre chiamavano in causa nuovi settori come i trasporti, l’edilizia e la funzione pubblica.

Negli ultimi mesi hanno cominciato a scendere in piazza anche tassisti, medici e camerieri, categorie che in passato non si erano mai mobilitate: chi faceva questi lavori rimaneva in silenzio oppure cercava un impiego altrove a condizioni migliori. Ma con l’aggravarsi della crisi la situazione è cambiata, e oggi è quasi impossibile trovare lavoro a condizioni soddisfacenti. Così persone che fino qualche anno fa non avevano mai nemmeno immaginato di scendere in piazza, oggi devono imparare da zero a difendere i loro interessi. In questi settori i sindacati, infatti, non esistono o sono del tutto ininfluenti . La legislazione sul lavoro, inoltre, pone infiniti ostacoli alla risoluzione delle controversie per via sindacale, spingendo i lavoratori a cercare altri canali per far sentire la loro voce.

Le proteste degli anni passati avevano in comune una caratteristica: erano quasi sempre isolate e non collegate tra loro. Ogni mobilitazione puntava a risolvere un problema specifico in una data azienda e con un particolare datore di lavoro. Il forte aumento delle proteste, però, ha portato molti osservatori a chiedersi per quanto ancora queste agitazioni potessero mantenere il loro carattere locale e particolare. Un aumento quantitativo, infatti, porta necessariamente a un cambiamento anche qualitativo. I fatti del 2015 hanno dimostrato che, crescendo di numero, le mobilitazioni locali hanno cominciato a convergere.

Già nel 2012 si era notata in alcuni casi la tendenza a passare da una dimensione strettamente locale a una più ampia, di tipo regionale, che rendeva necessaria qualche forma di coordinamento. Simili azioni organizzate sono ancora molto limitate (erano l’1 per cento del totale nel 2012, nel 2015 sono state il 3,5 per cento), ma la loro intensità sta aumentando. Negli anni passati coinvolgevano in media da due a quattro regioni, ma nel 2015 hanno acquisito dimensioni decisamente più ampie. Lo sciopero dei camionisti dello scorso novembre, per esempio, si è svolto contemporaneamente in 43 regioni, mentre le proteste degli insegnanti del maggio del 2015 hanno riguardato venti regioni, ottenendo anche il sostegno attivo di altri dipendenti pubblici, per esempio dei medici. Anche i lavoratori in sciopero del centro logistico della Pdk, nella regione di Mosca, hanno ricevuto l’appoggio di dipendenti delle ditte fornitrici in decine di città, dove sono stati organizzati picchetti e manifestazioni. E in diversi centri del paese si sono svolte dimostrazioni di sostegno agli scaricatori di porto in sciopero a San Pietroburgo. Se il Centro per i diritti sociali e del lavoro avesse considerato queste azioni sindacali come eventi separati, il numero totale delle proteste sarebbe il doppio di quello registrato.

Obiettivi e rivendicazioni

Ma non è tutto. Oltre alle mobilitazioni che hanno toccato più di una regione, sono aumentate anche quelle intersettoriali: lavoratori di imprese e categorie diverse che protestano insieme. A ottobre e novembre, nella regione dell’Altaj sono stati organizzati diversi picchetti, a cui hanno preso parte medici, insegnanti, impiegati del settore culturale e altri dipendenti pubblici, che protestavano contro il tentativo delle autorità di tagliare i fondi destinati agli stipendi. A dicembre, nella regione degli Urali, alla manifestazione dei minatori che chiedevano l’adeguamento automatico dei salari all’aumento del costo della vita si sono uniti i lavoratori dell’industria del legno di una città vicina, che stavano protestando contro il taglio dei posti di lavoro. In appoggio ai minatori sono arrivati anche i medici locali, che due settimane prima avevano organizzato azioni contro i tagli agli stipendi.

Questi lavoratori uniscono le loro forze perché si trovano in situazioni simili: alcuni sono minacciati di licenziamento, altri non ottengono la firma di un contratto collettivo, altri ancora subiscono tagli di stipendio. Quando vivono in città vicine, organizzano cortei comuni e trovano il modo di coordinare le proteste.

Ma, ancora una volta, non è tutto. Nella città di Ivanovo a dicembre si è svolta una manifestazione a cui hanno partecipato lavoratori che protestavano contro i tagli agli stipendi, persone indebitate e in difficoltà e pensionati infuriati per il progetto delle autorità di bloccare l’indicizzazione delle pensioni. In questo caso la protesta dei lavoratori si è saldata con una mobilitazione di carattere locale e sociale. Il risultato è che si sta creando un contesto nuovo: persone che lavorano in settori diversi e che appartengono a categorie sociali diverse lottano insieme. E anche se non sono mosse dalle stesse motivazioni, l’obiettivo è comune: opporsi a tutto quello che peggiora il loro livello di vita. Per ora queste forme strutturate di protesta sono ancora rare. Ma il fatto che siano emerse, che si verifichino sempre più spesso e che le loro dimensioni stiano aumentando, ci autorizza a parlare di un salto di qualità del movimento dei lavoratori. Per le autorità è facile ignorare o reprimere le proteste locali e spaventare la gente che scende in piazza colpendo gli attivisti più esposti. Ma come ha dimostrato il recente esempio dei camionisti, se una mobilitazione supera i confini di una singola regione, tutto diventa molto più complicato.

Non c’è dubbio che questo tipo di azioni aumenterà di numero e che la tensione salirà. Da molti anni i sindacati chiedono una modifica delle leggi sul lavoro che semplifichi le procedure per l’organizzazione degli scioperi. Ma le autorità non li ascoltano, temendo che la situazione possa sfuggirgli di mano. I loro timori sono giustificati. Non va dimenticato, infatti, che dietro alla maggior parte delle proteste ci sono cause reali e concrete. Molto probabilmente le autorità riusciranno in qualche modo a fare fronte alle tensioni attuali. Ma, se scoppierà un’ondata di proteste organizzate e capaci di unire settori e rivendicazioni diverse, sarà difficile fermarle.

Oggi si può far finta che questi problemi non esistano e perfino rallegrarsi per l’assenza di segnali chiari di un’insoddisfazione di massa. Ma il rischio è non accorgersi che queste prime ondate possono essere le avvisaglie di uno tsunami.

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