Disoccupazione tecnologica, i dati e la fede

Disoccupazione tecnologica, i dati e la fede

È bellissimo avere una fede, incrollabile anche a dispetto dell’evidenza. La realtà, per un credente, diventa solo un momento transitorio – magari addirittura molto negativo – del percorso attraverso cui l’oggetto della fede si afferma.

Se questo oggetto è un dio, non c’è nulla – sulla Terra – che possa dimostrare il contrario. Se è invece, più banalmente, un modo di produzione (per definizione “storico”, ossia transeunte e mortale come gli esseri umani che ne fanno parte), allora dimostrare l’inconsistenza della fede è decisamente più facile.

Prendiamo ad esempio due articoli apparsi oggi su La Stampa di Torino, foglio di proprietà della Fiat, intorno allo stesso argomento. Da una parte ci sono i dati relativi all’incidenza – negativa, ma inarrestabile – dell’introduzione di tecnologie informatiche e robotizzazione in ogni aspetto o comparto della vita economica; dall’altra la manifestazione di fede assoluta nelle virtù salvifiche del capitalismo.

Il primo articolo, di Paolo Baroni, che sotto vi proponiamo in versione integrale, è “allarmista temperato”. Concetto ben riassunto dal sottotitolo: “Solo negli Usa entro il 2025 si perderanno 9 milioni di posti, ma dovevano essere 70”. Il secondo, di Massimo Russo, si preoccupa di trasformare quel residuo di allarme disoccupazione in un atto di fede cieca: “La tecnologia porta crescita e più libertà“.

Si parte da un report della Forrester Research che, analizzando “le strategie future di tante grandi aziende”, quantifica complessivamente in 22,7 milioni i posti di lavoro in meno nei soli Stati Uniti nei prossimi dieci anni. Meno dei 70 previsti in uno studio della Oxford University, due anni fa, ma comunque il 16% del mercato del lavoro statunitense.

Una tragedia che viene solo leggermente attenuata dalla creazione di nuvi posti di lavoro, perché ci sarà un solo nuovo occupato ogni 10 robot messi in produzione. Alla fine della fiera, il report quantifica in 9,1 milioni (7%) la perdita di occupazione. Numeri che azzerano qualsiasi atto di fede nel fatto che “faremo qualcos’altro”: sette milioni (almeno) tra dieci anni non avranno nulla fare. Ingrosseranno le fila degli “scoraggiati”, che neanche le statistiche prendono in considerazione…

Non sappiamo se la stima per il resto del mondo sia altrettanto ottimistica, perché l’elenco dei mestieri che scompariranno è particolarmente lungo; ma soprattutto investe tutte le mansioni ad alta intensità di lavoro, sia sul piano manuale che su quello intellettuale. Lo stesso Russo, senza forse rendersi conto gli stanno segando il ramo su cui è seduto, ricorda che circa 12.000 articoli l’anno del’agenzia Associated Press sui risultati finanziari delle società quotate non sono più scritti da un giornalista, ma da un software chamato Wordsmith. Articoli brevi, naturalmente, fatti quasi solo di dati e con parole-legame molto tecniche; quindi facilmente serializzabili (come ben sa qualsiasi redattore che sia costretto a scrivere dei risultati di borsa, per esempio), senza dover esprimere le proprie opinioni.

Ma questa intrusione del robot automatico anche nel campo della “creazione” – sia pure al livello infimo del giornalismo di servizio – sta avendo tanto successo (per l’azienda, che ha pagato il programma una sola volta, risparmiando su decine di redattori-macchina) che si pensa di elaborare una versione di Wordsmisth specializzata nel basket universitario (il che la dice lunga sull’intellettualità necessaria fare i giornalisti sportivi, almeno al livello base dei campionati minori).

Ce ne sarebbe abbastanza per preoccuparsi, magari addirittura corporativamente (a quando un software per scrivere articoli di fede assoluta nel capitalismo eterno? In fondo, si riciclano sempre le stesse quattro frasi su “crescita” e “libertà”…), ma Russo viene per ora pagato per smorzare le preoccupazioni: “Significa che rimarremo senza impiego e saremo rimpiazzati dalle macchine? No. Qualsiasi rivoluzione tecnologica, dall’invenzione della ruota in poi, ha eliminato lavoro e fatica, liberando le nostre energie per compiti più evoluti. Ma ciò non è mai stato un male, anzi”. Su quali dati fonda la fede nell’ennesima progressione positiva mediata dalle tecnologie? Nessun dato, solo un concetto: “ci saranno sempre conoscenze tacite e intrinsecamente umane che i robot non potranno rimpiazzare”.

È la ragione filosofica (la capacità di induzione) per cui non crediamo che i programmi di ricerca sull’intelligenza artificale arriveranno mai a riprodurre il funzionamento della mente umana, quindi siamo addirittura d’accordo. Ma la domanda che bisogna porsi è decisamente più terrena: in questo “salto di paradigma forse paragonabile solo a quel che accadde nel ’700 con l’arrivo di Watt e dei cavalli vapore”, sulla base dei dati a disposizione oggi, ci sarà un saldo positivo o negativo nell’occupazione effettiva? Fede a parte, insomma, quanta gente non avrà più la possibilità di guadagnarsi da vivere vendendo la propria forza lavoro?

Ricordiamoci che non stiamo parlando di tendenze dai tempi epocali, ma da qui a dieci anni. Quel 7 o 16% che non troverà più un’occupazione corrispondente al proprio saper fare, come farà a campare? Se il robot Hadrian può sostituire tranquillamente una decina di muratori, quei muratori – che certamente non potranno riciclarsi in sofisticatissimi programmatori software – che cosa faranno?

È vero naturalmente che il progresso tecnologico ci libera dalla fatica. Purtroppo non ci libera nel senso buono del termine (meno tempo di lavoro per tutti), ma in quello terrificante della disoccupazione di massa perenne.

C’è infatti una cosa “tipicamente umana” che la tecnologia non può fare: eliminare quel rapporto tra un gruppo ristretto di beneficiari del “risparmio di lavoro” e massa crescente degli impossibilitati a svolgere un lavoro. Ovvero quel legame schiavizzante tra possessori privati dei mezzi di produzione (quindi anche dell’innovazione tecnologica) e massa sterminata di “lavoratori in vendita”; o, se preferite, ma è la stessa cosa, tra produzione finalizzata al profitto individuale di pochi e produzione potenzialmente esaustiva dei bisogni di tutti. L’ideologia non c’entra nulla, basta guardare al ciclo del cibo per rendersene conto in un attimo: se ne produce più di quanto sfamerebbe tutti e sette i miliardi di abitanti di questa palla che corre nel cosmo, ma quasi tre milioni di bambini l’anno muore di fame, uno su sei (nel Terzo Mondo) è sottopeso, uno su quattro è rachitico.

Eliminare questo rapporto è un compito umano. Un “salto di paradigma” che farà impallidire, ne siamo certi, tutti quelli precedenti.

Qui si può leggere l’articolo in questione

http://www.lastampa.it/2015/09/04/societa/dal-robot-commesso-al-muratore-ecco-come-cambier-il-lavoro-KRtFR8FzwTdr7cF3FygCDI/pagina.html

tratto da http://contropiano.org/

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