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pubblicato il 8.12.08
Libro: Il sangue e la celtica
·
STORIA
Voci in diretta dalla galassia nera
Il neofascismo degli anni Sessanta e Settanta
Andrea Colombo

NICOLA RAO, IL SANGUE E LA CELTICA SPERLING & KUPFER, PP. 459, EURO 18
Certo che è uno strano paese, questo. Si scervella sui fatti di un passato distante. Si scanna brandendo quelle vicende come lame affilate, sforzandosi peraltro ben poco di capirle, o anche solo di contestualizzarle adeguatamente. Sforna in materia volumi a getto continuo, senza curarsi della loro effettiva utilità. Però, se per caso esce un libro in grado di aggiungere qualcosa al già noto, di far luce sugli angoli in penombra, di mettere a fuoco le contraddizioni e le diverse tonalità coperte dal manto bugiardo delle categorizzazioni di massima («estremismo», «terrorismo», «neofascismo»), quasi lo ignora.
Come nel caso del libro di Nicola Rao, Il sangue e la celtica, che non è certo il primo ad affrontare il sanguinoso ciclo delle stragi e dei sogni golpisti che va dal 1969 al 1974, ma è in compenso il primo ad addentrarsi in quel continente misterioso facendosi guidare dagli «indigeni», dando cioè la parola ai neofascisti che di quella fase furono, a diverso titolo, protagonisti. Il risultato è un quadro infinitamente più variegato e complesso di quel che solitamente si immagina quando si pensa al neofascismo di allora come a un blocco indistinto, connotato solo da unanime passione bombarola.
Invece di limitarsi a rileggere e commentare gli atti giudiziari sfornati a valanga nell'arco di un quarantennio, Rao ha pedalato su e giù per la penisola, intervistando tutti coloro che, in quell'ambiente, erano disposti a prendere la parola, anche per sostenere tesi opposte e discordanti: dal negazionismo puro di chi fieramente insorge al solo sentir parlare di coinvolgimenti della destra estrema nella stagione delle stragi alle testimonianze dirette di quelli che, invece, di quei coinvolgimenti sono certi. A volte, come nel caso di Fabrizio Zani o dello scomparso Nico Azzi, per conoscenza diretta: Azzi, per chi non lo ricordasse, fu catturato dopo che gli era esplosa tra le gambe la bomba con cui si preparava a far saltare il treno Torino-Roma, nell'aprile 1973.
Per molti versi, il lavoro di Nicola Rao arriva alle stesse conclusioni cui era giunto il giudice milanese Guido Salvini. Dalle testimonianze raccolte dal giornalista esce più che mai confermato l'impianto storico-analitico sul quale era basato l'atto di accusa dell'ultimo processo per la strage di piazza Fontana. Emergono ad esempio in evidenza lampante, attraverso i ricordi dei diretti interessati, le connessioni strettissime tra il neofascismo veneto e quello lombardo, elemento di fondamentale importanza ma rimasto per decenni celato, individuato proprio da Salvini e dimostrato qui in maniera inoppugnabile.
È bene peraltro ricordare che l'ultimo processo per la strage di piazza Fontana si è sì concluso con l'ormai consueta raffica di assoluzioni, però, a differenza di tutti quelli precedenti, ha fissato un punto fermo dal punto di vista della rilevanza storica se non di quella propriamente giudiziaria. Ha sancito cioè la responsabilità certa dell'area neofascista veneta, e in particolare di Franco Freda e Giovanni Ventura, nella «madre di tutte le stragi». Solo la legge che rende impossibile la revisione delle sentenze assolutorie (a differenza di quelle di condanna) già passate in giudicato ha salvato l'editore nazista e il suo sodale dalla condanna per la mattanza del 12 dicembre 1969.
In altri casi, le ipotesi avvalorate da Rao si discostano seccamente dai luoghi comuni universalmente avvalorati. A differenza dell'ordinovismo veneto-lombardo, il giornalista non crede infatti nel coinvolgimento nelle trame stragiste dell'area romana di Avanguardia nazionale e del suo capo indiscusso, Stefano Delle Chiaie. Gli avanguardisti, in quella fase legatissimi al Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese, coltivavano progetti golpisti, sfociati infine nell'abortito colpo di stato «dell'Immacolata», nella notte tra l'8 e il 9 dicembre 1970. Ma quei piani, stando alla ricostruzioni di Rao, erano ostacolati non agevolati dalla strategia al tritolo dei camerati del nord.
È una tesi certamente discutibile, però non priva di argomenti a sostegno, e ha comunque il merito di evidenziare le differenze e le divisioni che campeggiavano all'interno della stessa area neofascista a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta. Divisioni che rinviano ad altre e ancor più tortuose contrapposizioni: quelle tra spezzoni dei servizi in lotta tra loro e prontissimi a usare le aree golpiste e/o stragiste a proprio vantaggio, quelle tra le correnti politiche dei partiti centristi, in particolare della Dc, per cui le trame nere erano uno strumento per affermare la propria supremazia, quelle infine tra le diverse visioni strategiche che si combattevano nei servizi segreti americani.
La lettura di quella fase come segnata da un univoco progetto stragista-golpista e da un intervento omogeneo e coerente dei servizi segreti è nella migliore delle ipotesi superficiale. L'Italia dei primi anni Settanta è un proscenio in cui, sullo sfondo della guerra fredda, si intrecciano disegni diversi e di diverso cabotaggio, riflessi l'uno nell'altro come in un gioco di specchi deformanti, intrecciati in un nodo scorsoio di doppi e tripli giochi, di alleanze inconfessabili e di accoltellamenti alle spalle.
Le testimonianze qui raccolte rivelano anche l'inconsistenza dell'equazione eversione nera-golpismo-stragismo. Per quanto i tre livelli si siano intrecciati, la scelta dell'azione violenta contro lo Stato non comportava affatto, di per sé, un'automatica adesione al golpismo, né quest'ultima postulava di necessità il ricorso alle stragi. Tra Pierluigi Concutelli e Mario Tuti, i «rivoluzionari» che verranno presi ad esempio dalla destra armata di fine decennio, e Stefano Delle Chiaie, il braccio destro di Junio Valerio Borghese, c'è una marcata differenza, ed è possibile che una distanza non minore separi il capo di Avanguardia nazionale da Franco Freda e dai suoi accoliti del nord. La realtà è che il neofascismo italiano dei primi anni Settanta è in larga misura ancora sconosciuto, anche perché in campo democratico si contano quelli che davvero si sono presi la briga di conoscerlo. E se è vero che, a differenza del terrorismo rosso, sono stati pochi i neri che hanno parlato della loro esperienza, ancor meno sono stati quelli che si sono peritati di andarli ad ascoltare, come ha fatto adesso l'autore di questo libro.
Di certo, non era mai successo che un così cospicuo numero di militanti neofascisti parlasse tanto chiaramente di quelle vicende, infrangendo il negazionismo adottato, anche in buona fede, da chi riteneva (e ritiene) che solo negare ogni possibile coinvolgimento valga a contrastare una colpevolizzazione generalizzata e indistinta. Ma stavolta quasi infrange il dettato in questione, sia pure a mezza bocca, persino Stefano Delle Chiaie: «Certo, le cose le sentivo e le idee me le facevo. Perché non feci o dissi nulla? Innanzitutto perché la verità spesso è un sottile limite che separa dall'infamia». Un limite che forse, a quarant'anni di distanza dall'inizio della catena di stragi, sarebbe possibile superare.

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/06-Dicembre-2008/art44.html

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