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PALESTINA 01/10/2002

Dossier Palestina


Attentati, morte, distruzione. Due anni di intifada (dal 28 settembre 2000) e altri trenta sulle spalle di continuo conflitto, e l'aggressione di Israele nei confronti della Palestina continua senza sosta. Contare i morti però non basta.
Con gli attentati, le morti, le distruzioni in Palestina hanno dovuto imparare a convivere tutti. E cio che rende sempre più lontana una risoluzione, non è solo la guerra tradizionale, ma lo stillicidio di violenze che vengono praticate quotidianamente nel tentativo di stroncare i presupposti stessi della vita. Ai Palestinesi, lo stato israeliano sottrae case, terra, acqua. Seimila case distrutte dal 1967, 30 mila palestinesi rimasti senza casa. Nessun permesso rilasciato per la costruzione di edifici, mentre quelli dove abitano le famiglie palesinesi vengono abbattuti per impedire che le comunità non israeliane si possano espandere. E una delle più raffinate strategie di intervento senza l'uso diretto della forza, preve l'accerchiamento dei piccoli insediamenti con grandi edifici costruiti appositamente e in poco tempo. In questo modo viene interrotto ogni collegamento con le comunità palestinesi di riferimento. Lo scopo: creare disagio e paura e costringere la gente ad abbandonare volontariamente le case.
Un vero accordo di pace non è mai stato analizzato da chi gestisce il potere, e tra i primi responsabili ci sono gli Stati Uniti, anche se i grandi media americani dipingono l'impossibilità di raggiungere un accordo come un fallimento dovuto a opinioni inconciliabili, a fanatismi religiosi e culturali. Persino la proposta del principe saudita Abdullah di normalizzare le relazioni con tutti gli stati arabi, in cambio della rinuncia ai territori del West Bank, è stata accolta tiepidamente dall'amministrazione Bush, che le ha attribuito il valore di "un sogno". E, secondo il New York Times, il segretario di stato americano Colin Powell l'ha bollata come una proposta di rilevanza minore.



Qualcosa però sta cambiando. Sono segnali sparsi, ma significativi, che dimostrano che il disagio provocato in tutto il Medio Oriente, sta confluendo in una reazione forte, che proviene da più fronti. Arrivano sia dal mondo arabo sia dall'opinione pubblica israeliana. E potrebbero costringere chi detiene il potere a rinunciare allo stereotipo più ricorrente, quello secondo il quale Israele è la grande Vittima e ogni israeliano ha il diritto di difendersi dai terroristi palestinesi con ogni mezzo e combatte solo per difendere la sua libertà, mentre tutti i palestinesi sono violenti terroristi. Questo stereotipo, come in altre occasioni, giustifica un potere forte, occulta i reali motivi per cui la situazione in questa area geografica sembra essere non risolvibile.


La situazione sarebbe ben diversa se anche le opposizioni israeliane al governo di destra di Sharon potessero avere voce. In parte sta accadendo. Si tratta di inviative di grande richiamo pubblico,anche se vengono definite dagli stessi che le propongono come operazioni "morali" e non politiche: mille ex generali israeliani, che appartengono al Consiglio per la pace e la sicurezza, un movimento al quale partecipano alti gradi del Mossad e del servizio segreto Shin Beth, hanno lanciato un appello nel quale si chiede che Israele si ritiri unilateralmente dai Territori occupati. E un gruppo di soldati riservisti, ossia soldati che dopo il servizio di leva vengono richiamati per periodi brevi in servizio, che hanno lanciato un appello nel quale annunciano pubblicamente di rifiutare di combattere nei Territori occupati. Si affiancano però ad altre iniziative, di diversa matrice e molto più articolate, come quelle dei movimenti per la pace.
In questa grande categoria compaiono gruppi pacifisti veri e propri sia organizzazioni che non sono nello specifico "pacifiste", ma portano avanti delle richieste per un accordo di pace bilaterale e per il riconsocimento di entrambi gli stati, quello israeliano e quello palestinese.

Nei prossimi incontri in Medio Oriente tutti questi segnali non potranno più essere trascurati . C'è grande attesa per esempio per il meeting della Lega Araba,previsto per il 27 marzo a Beirut. Gli Stati Uniti potrebbero trovare conveniente appoggiare la proposta del principe saudita Abdallah, in cambio di collaborazioni su altri versanti politici ed economici. E in molti sono convinti che la proposta di far rientrare Israele entro i confini del 1967 sia l'unica e significativa idea emersa da fonti istituzionali negli ultimi dieci anni.
Era già stata avanzata. Ma forse, dopo l'11 settembre, qualcosa è cambiato.


Appello per la manifestazione del 9 marzo a Roma e per la giornata della terra il 30
Dossier TMCrew
IMC Israele
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Rapporto Mitchell (da Studi per la Pace)


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