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pubblicato il 1.11.07
A Mantova la borsa di studio che riabilita il repubblichino
·

Scontro nella scuola intitolata a una martire ebrea, il caso scoppiato dopo il silenzio delle istituzioni
“Giusto dialogare, ma non mettere sullo stesso piano le vittime e i carnefici”
A Mantova la borsa di studio
che riabilita il repubblichino
dal nostro inviato
FABRIZIO RAVELLI

A Mantova la borsa di studio
che riabilita il repubblichino

Lo striscione degli studenti di Mantova
MANTOVA – Il repubblichino e la ragazza ebrea morta nelle camere a gas di Bergen Belsen. Si possono commemorare sotto lo stesso tetto due figure così distanti? Domanda difficile, pesante. Tanto pesante che, qui a Mantova, la questione è stata al centro di un caso così scomodo da finire confinato dentro alla scuola Luisa Levi, dedicata appunto alla quattordicenne deportata e uccisa.

Un caso segnato da qualche lettera ai giornali locali, dall’indignazione di pochi, e dall’impressionante silenzio delle istituzioni locali e dei partiti. Un caso nato pochi mesi fa, quando i nipoti di Ferruccio Spadini, maggiore della Gnr (la Guardia nazionale repubblicana, polizia militare fascista, ndr) istituirono una borsa di studio in memoria del nonno, destinata a uno studente del complesso che comprende la scuola “Luisa Levi”. Il preside parlò di Spadini come di una “figura incolpevole”. Il ragazzino vincitore della borsa disse che era “un martire fascista morto difendendo le sue idee”.

Ferruccio Spadini, professore mantovano, era il comandante della guardia repubblichina a Breno, in Valcamonica. Organizzava e dirigeva i rastrellamenti, arrestava i partigiani e li consegnava ai tedeschi, teneva come ostaggi i familiari dei renitenti e dei disertori. Pochi giorni dopo la liberazione tentò la fuga e venne arrestato in Val di Sole. Fu processato e condannato a morte per collaborazionismo e complicità nella morte di alcuni partigiani. Un suo ricorso in Cassazione venne respinto.

La domanda di grazia non fu presa in considerazione dal Guardasigilli Palmiro Togliatti. Il 13 febbraio del 1946 Spadini venne fucilato, pochi mesi prima dell’amnistia. Nel 1960 i suoi familiari presentarono un nuovo ricorso in Cassazione. Le testimonianze di tre ex-partigiani (la più importante fu quella di don Carlo Comensoli) fecero sì che venisse assolto post-mortem dall’accusa di concorso in omicidio. Il reato di collaborazionismo (che da solo avrebbe giustificato la pena capitale) fu coperto dall’amnistia. La famiglia Spadini poté rientrare in possesso dei beni che erano stati confiscati.

Quando l’istituzione della borsa di studio venne deliberata, racconta Gabriella Ramaroli, rappresentante dei genitori, “il dirigente ci disse che Spadini era un professore, amante delle Lettere, morto alla fine della seconda Guerra mondiale”. Il caso esplose alla consegna del premio (800 euro), quando i giornali locali scrissero che era stata “riabilitata” la memoria di un “padre di famiglia e buon cristiano”, nonché “martire fascista”. Protestarono l’Anpi, la direttrice dell’istituto di Storia contemporanea Maria Bacchi, il presidente della Comunità ebraica Fabio Norsa, numerosi insegnanti e genitori. Protestarono, innanzitutto, i familiari di Luisa Levi: “Crediamo fermamente che con questa intitolazione si cerchi di far credere che il passato è passato, che bisogna dimenticarsi di quello che è successo… Noi pensiamo che la fucilazione del maggiore Spadini sia stata una cosa ingiusta. Ma il maggiore ha rappresentato una pagina vergognosa per l’Italia e per l’Europa intera…”. Un solo esponente della famiglia, Leonello Levi, solidarizzò con gli Spadini.

Poteva essere un’occasione per discutere. “Ho sempre pensato che servisse un confronto dentro la scuola – dice Maria Bacchi, direttrice dell’istituto di Storia contemporanea e autrice di un libro su Luisa Levi – ma era impossibile l’equivalenza fra una vittima e un carnefice, nell’ignoranza dei fatti storici”. La Voce di Mantova, quotidiano che l’anno scorso pubblicò alcuni articoli antisemiti, l’ha derisa come “pasionaria sessantottina” e “capopopolo della morale”. Fabio Norsa, presidente della Comunità ebraica, si stupisce del silenzio di istituzioni e partiti: “Un silenzio di tomba. Eppure, a parole, sono tutti antifascisti. E mi chiedo: perché, dopo 47 anni, questa iniziativa per riabilitare Spadini? Se volevano riabilitarlo, potevano contribuire alle ricerche della scuola Luisa Levi sull’antisemitismo”. Continua la Bacchi: “Ma questo avrebbe significato assumersi una responsabilità storica. Invece gli Spadini mettono sullo stesso piano il nonno repubblichino e la bambina ebrea”.

La faccenda si è trascinata senza slanci. Il provveditore ha consigliato, pilatescamente, che la borsa di studio Spadini venisse dirottata al liceo classico. Alla fine, tre giorni fa, il Consiglio di istituto ha respinto, a maggioranza risicata, il progetto, e ha cancellato la borsa. Paolo Comensoli, dirigente regionale scolastico, era soddisfatto: “Democrazia e fascismo non sono la stessa cosa, e non si possono confondere”. Lui è il nipote di don Carlo Comensoli, il prete partigiano che venne arrestato da Spadini, ma che in Cassazione testimoniò in suo favore: “I figli di Spadini vennero a chiedere aiuto a mio zio, per poter riavere i suoi beni. Mio zio era un prete, e si prestò a un gesto umanitario. Che, però, non interpretò mai come una riabilitazione”.

Barbara Spadini, maestra in una scuola elementare che fa parte del complesso Luisa Levi, annuncia che non si arrenderà. Promette una nuova battaglia per commemorare la figura del nonno. “Il nostro intento è stato di carattere culturale e memoriale. Ne è nato uno scontro ideologico e politico che non abbiamo mai cercato”, dice. “Scriverò un libro su mio nonno. Bisogna saper dividere il fascismo, che può esser stato discutibile, dagli uomini che ne facevano parte”. Si è persa l’occasione per convergere su un’unica memoria, e dire che tutti vanno rispettati perché erano figli del loro tempo”. Del nonno dicono che “salvò la vita a molti partigiani”. Insomma, un muro contro muro. Maria Bacchi dice: “E come se si volesse restare legati ai sentimenti famigliari, per cui ognuno si piange i suoi, e sono tutti uguali”.

Fabio Levi, docente di Storia contemporanea a Torino, che segue attentamente queste vicende mantovane, commenta: “Bisogna dire che la cancellazione della borsa di studio è stata una vittoria. Ma anche che questo caso esemplare dimostra come non bisogna essere tanto ottimisti. Si fa confusione fra soluzione giuridica e giudizio storico. C’è un unanimismo di facciata sulle questione della memoria, che nasconde in realtà grandi problemi”. Viene di lì, con tutta evidenza, il silenzio con cui le istituzioni hanno accolto il caso del repubblichino e della ragazza ebrea, e delle loro memorie divise.

(1 novembre 2007)

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