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pubblicato il 7.05.08
Verona rassegna stampa - 1 -
·

Pd e sinistra contro il neopresidente della Camera
Non sono figli nostri e Fini è stato frainteso La destra minimizza

Romina Velchi
Meditare su ciò che è stato? No, meglio minimizzare, derubricare, sminuire, scrollare le spalle. I cinque di Verona massacrano a calci e pugni un ragazzo solo perché ha i capelli lunghi; odiano gli ebrei; danno la caccia agli immigrati (basta leggere le loro biografie). Cioè mettono in pratica quello che i loro referenti politici teorizzano più o meno apertamente. Eppure sono figli di nessuno; eppure «la politica non c’entra».
Urge prendere le distanze. La “linea” l’ha data Gianfranco Fini: Verona e Torino non sono paragonabili; il primo è un “semplice” episodio di violenza comune (ammazzare un ragazzo); il secondo, invece, è un atto politico (bruciare le bandiere di uno Stato) e quindi ben più grave. Per difendere il neopresidente della Camera dalle polemiche che le sue parole hanno suscitato, compagni di partito e alleati, ovviamente, proseguono sulla stessa strada. Gli aggressori diventano così, di volta in volta, dei «vandali» (Assunta Almirante), dei «bulli» (Ignazio La Russa, An), dei «teppisti» (Roberto Castelli, Lega), degli «imbecilli» (Luca Barbareschi, Pdl), degli «stupidi» (Italo Bocchino, Pdl). Da punire severamente, certo; ma senza gettargli la croce addosso, par di capire. Per il sindaco di Verona, Flavio Tosi, sono «dei disgraziati, ragazzi senza valori, un branco di teppisti che si sentono impuniti», perché per due anni la giustizia italiana li ha lasciati liberi di continuare (e dunque hanno meno colpe?).
Inutile dire che, se gli aggressori fossero stati dei cittadini stranieri i toni sarebbero stati ben diversi. Tant’è. Il governatore del Veneto Giancarlo Galan ci va giù un po’ più duro: «Altro che disagio giovanile, sono dei delinquenti. Quindi nessuna pietà per questi individui» e «non penso che si possa fare una graduatoria fra atti così vili e così codardi». Restano le parole di Fini. Dalle quali prende le distanze Francesco Storace (Destra): «La vita di un ragazzo vale molto di più. Spero si sia trattato solo di un equivoco». Lo difende, invece, Antonio Di Pietro (Idv), che scommette sulla «buona fede» del leader di An: «Non credo che volesse fare una divisione tra un fatto più grave e uno meno grave». Il suo capogruppo alla Camera, Massimo Donadi, però, è di tutt’altro avviso: «Chi, come Fini, riveste un ruolo istituzionale dovrebbe usare maggiore prudenza prima di stilare personalissime classifiche di gravità. Come prima uscita ufficiale non è stata delle più felici».
Di dichiarazione «sbagliata e inopportuna» parla Nicola Latorre (senatore Pd), mentre la presidente del gruppo Pd a Palazzo Madama, Anna Finocchiaro, fa l’ecumenica: «Tutti dovremmo evitare strumentalizzazioni di fronte a due episodi così gravi. Esiste una presenza neonazista e questo è un fatto. Dall’altra parte, il gesto di bruciare le bandiere di Israele è grave e non solo simbolicamente». Un altro parlamentare del Pd nonché esponente della comunità ebraica, Emanuele Fiano, ritiene invece che Fini abbia «fatto male a parlare insieme dei due argomenti. E’ grave sminuire la questione dei naziskin», continua Fiano, aggiungendo che «sarebbe un bel gesto se il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, si togliesse dal collo la croce celtica, lo stesso simbolo dei naziskin che hanno colpito a Verona». E se per Fiamma Nirenstein, giornalista e neoeletta in parlamento per il Pdl, quello di Fini «è stato solo un lapsus», Margherita Boniver (Pdl) ha poco da dire: «Le critiche al presidente della Camera sono poco eleganti».
Eleganti o no, per Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, il leader di An ha «preso una cantonata. Non esiste una classifica degli atti ignobili. Così si finisce per giustificare anche ciò che non è giustificabile», aggiunge il primo cittadino, chiarendo, tra l’altro, che a Torino «non c’è stato alcuno scontro: cinque rappresentanti dei centri sociali hanno bruciato tre bandiere davanti alle telecamere, gli altri trentamila non se ne sono neanche accorti».
Intanto c’è una famiglia schiacciata dal dolore. Ai genitori del ragazzo ucciso, il quasi ex premier Romano Prodi ha inviato un telegramma di cordoglio per «la tragica morte di Nicola vittima di una violenza inumana ed insensata che deve essere eliminata per sempre». Alla famiglia Tommasoli rivolge un pensiero anche il ministro uscente Paolo Ferrero (Prc), che ieri a Verona ha incontrato il prefetto. «La politica di queste amministrazioni – osserva Ferrero – che sempre individua un capro espiatorio, un diverso da tenere fuori, caccia i campi nomadi e impone la gerarchia per le case popolari, ha contribuito a costruire il clima in cui è maturata la tragedia».


Lo stadio, il conflitto c’è sempre stato, ma l’odio e il rancore?
Verona, la normalità mostruosa della città di ieri e di oggi

Guido Caldiron
Una delle prime cose che vengono insegnate in ogni corso o scuola di giornalismo è che non si deve mai usare la prima persona per raccontare un avvenimento. L’eccezione la fanno l’aver assistito direttamente a un fatto o avere quel tanto di esperienza e magari di capelli bianchi da permettersi questo lusso. Eppure ci sono casi nei quali è davvero difficile evitare di dire come la si pensa fin dalle prime righe di un articolo. Sono casi in cui non si saprebbe come dare conto in altro modo delle proprie emozioni. Perché ci sono sentimenti e luoghi che non si possono spiegare e descrivere che partendo da sé. Come spiegare altrimenti che un posto che custodisce alcuni dei nostri ricordi più cari, che contiene una parte dei “dati sensibili” di ciò che siamo, che porta i segni indelebili dei nostri affetti, ci fa paura? Come raccontare una città, Verona, e dei luoghi, gli stessi vicoli di pietra bianca dove è stato aggredito e ucciso di botte Nicola Tommasoli, come lo spazio dei propri giochi d’infanzia, senza stupirsi, senza un’incredulità che sconfina nel timore? Non c’è altro modo.
Verona è il luogo della memoria della mia infanzia, quella parte della vita che psicoanalisi e letteratura pongono a fondamento di ciò che diventeremo in seguito. E’ un luogo caldo e accogliente, condito dei sapori delle cose buone preparate dai parenti, illustrato dalle immagini evocate dai racconti di uno zio capomastro che spiegava cosa c’era lì prima di quella casa o di quel palazzo: un prato, un pezzo di collina… Verona è lo spazio libero e sicuro delle corse in bicicletta, delle bande di bambini che selezionavano i loro membri con piccole prove di coraggio e spavalderia e delle prime “morose”, si dice così da quelle parti. Un luogo immaginario, che continua a essere rielaborato dentro di sé perché conserva la memoria sempre presente di persone a cui si è voluto bene e che oggi non ci sono più.
Poi c’è la cronaca. La violenza, il fascismo diffuso. Tanti anni fa Pasolini scriveva del fascismo «come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società». Ecco a Verona c’è questa normalità e la sua costruzione ideologica, la sua rappresentanza politica: dalla Lega al Veneto Fronte Skinheads passando per An – veniva da qui il mentore politico del nuovo sindaco di Roma Alemanno, l’avvocato rautiano Nicola Pasetto. Ma a far paura oggi non è né la violenza fisica, né la barbarie politica che l’ha tenuta al caldo della sua costruzione identitaria e comunitaria – le band di estrema destra e gli editori negazionisti ospitati già anni fa dalle iniziative del Comune di centrodestra.
La Verona che mi fa paura è la stessa che amo con l’entusiasmo di chi si attacca alle proprie radici tanto più sono lontane e confuse nei ricordi dell’infanzia. A far paura, in questo caso, non è però ciò che appare lontano, ignoto, ma ciò che si vede e si percepisce al primo sguardo. Si dice che a motivare il voto – politico o amministrativo non ha fatto molta differenza – sia stata in quest’ultima tornata elettorale la paura. La paura che è diventata odio, “Rancore” come spiega l’ultimo libro del sociologo Aldo Bonomi. Magari quel rancore sordo c’era già, come un deficit emotivo che ci si portava dentro e che una crescita troppo rapida ha congelato, mantenuto immutato nella parte più intima delle persone. Ma, comunque sia, se è la paura la cifra distintiva di questa terribile stagione italiana – paura e odio verso il diverso, l’immigrato, il rom, lo straniero “di ogni razza e colore” e insieme il rancore verso un sistema politico compreso come nemico, inutile o parassitario (e anche la sinistra sembra averne fatto le spese) – Verona ne è per me la capitale. La paura di svegliarsi una mattina e scoprirsi afoni, incapaci di spiegare qualunque cosa a chi ci sta vicino. La paura che la realtà sia stata definitivamente ingoiata dalla propria rappresentazione simbolica, al punto che la morte di un ragazzo – la materialità terrificante di un corpo inerte appiccicato al marciapiede – sia meno significativa del bruciare delle bandiere. Bandiere, certo, che portano i segni dolorosi di un popolo che si voleva cancellare dalla terra, nel bel mezzo della nostra Europa solo mezzo secolo fa. La morte di un essere umano è un evento incommensurabile, è una piccola morte di ciascuno di noi, eppure è stato detto che è un fatto meno grave del bruciar bandiere – che resta comunque una violenza anche se simbolica.
La morte di Nicola Tommasoli arriva dopo tante altre violenze razziste, in un clima che ha fatto di Verona la capitale di una naziland tutta nostrana, paciosa e godereccia quanto brutale. I capi dei naziskin da queste parti fanno i piccoli imprenditori che tengono famiglia: come a dire che tutto si tiene nel laborioso nordest. E prima dell’egemonia politica e culturale dei nuovi mostri berlusconiani e fascisti c’erano gli assassini del gruppo Ludwig o Piero Maso. E prima ancora c’era il mercato internazionale dell’eroina che vedeva Verona come principale “hub” dell’intero nord: in un libro inchiesta del Pci locale si ricostruivano traffico e interessi locali, volume d’affari e coperture. Tutte storie che ci parlano di vicende eccezionali, di drammi che sembrano entrarci poco con la vita di ogni giorno. E invece il fascismo a Verona fa paura per la sua normalità. La sua “familiarità” si sarebbe portati a dire.
Dei giovani arrestati per la morte di Nicola Tommasoli si è detto che appartengono alle “frange del tifo ultrà”, legato all’estrema destra. Le immagini su YouTube del sindaco leghista della città – veicolate anche a mò di campagna elettorale – allo stadio con gli amici futuri assessori di An, dovrebbero rassicurci da questo punto di vista? Quello è un tifoso “normale”, gli altri no? Qualche anno fa allo Stadio Bentegodi di Verona apparve uno striscione che diceva “Noi skin non siamo pignoli, odiamo tutti”. Poi la tifoseria gialloblù ha scalato le classifiche del tifo nazi, mentre la squadra rotolava giù. Quando da bambino andavo allo stadio con mio zio i sedili di cemento erano coperti da piccoli cuscinetti a strisce gialle e blù, ognuno portava il suo da casa e poi lo riportava educatamente via. Poi, a un certo punto, allo stadio non ci si è andati più perché i cuscini cominciavano a volare in campo e soprattutto perché si sentivano, per le orecchie di mio zio, troppe bestemmie. All’epoca il giornale più letto in città dopo L’Arena era Verona fedele , l’organo della Curia.
Non c’è niente di più normale dello stadio e non c’è niente di più normale dell’essere tifoso. A questo punto non c’è più nemmeno bisogno delle virgolette. Il calcio è onnipresente nella nostra vita sociale, e perciò dire di qualcuno che appartiene “alla frange estreme” di tutto ciò è come dire che è un estremista del senso comune. Ed è questo che fa davvero paura. Il calcio è uno straordinario gioco ma è anche il sistema narrativo più popolare di una società. Se i valori dominanti di questa società si rispecchiano nel voto di poche settimane fa, perché la narrazione del calcio – compresi i suoi protagonisti, siano anche eroi negativi o folk devils – dovrebbe essere diversa? Il movimento ultrà, violenza compresa, aveva rotto questa normalità mettendo in discussione quello che si potrebbe definire come il sistema della rappresentanza del tifo, sovvertito i tempi del dopolavoro operaio limitato al weekend e invaso con la propria energia l’intero spazio del calcio. Erano gli anni 70 e qualcosa si muoveva anche fuori degli stadi. Poi il mercato si è ripreso tutto, compresi sogni emozioni e rivolte dello stile, cercando di quotare in borsa ogni cosa. E così anche gli ultrà – o almeno moltissimi tra loro – si sono trasformati nella propria caricatura: specie di pitbull alla catena, orribili e pericolosi ma del tutto mansueti verso il potere. Così nel resto d’Italia, così a Verona.
La città, lo stadio – che nel frattempo è cambiato senza che cambiassero però i tifosi – l’intera Verona, sono oggi sotto osservazione. Ma sappiamo tutti che durerà poco. Fa notizia ciò che appare come eccezionale, non la normalità mostruosa che costruisce piccoli assassini di poco più di vent’anni. Poi tutti resteremo soli a curare la nostra memoria, ciascuno il suo pezzetto, più tragico o ferito degli altri. Forse per tentare di curare il mio e non avere più paura di questo luogo che amo dovrò tornare a Verona, riattraversare le strade dove giocavo da bambino e portare un fiore dove un ragazzo è morto schiacciato da tutta questa normalità.


Volevano organizzarla per il 25 aprile, una manifestazione antifascista nel giorno della Liberazione per lanciare l’allarme su quella che la sinistra veronese non esita a chiamare, da mesi, «l’emergenza democratica»

Poi quell’appuntamento si è trasformato nella giornata dei migranti, scesi in piazza a Verona per denunciare il clima razzista e xenofobo.
La manifestazione antifascista, invece, ha dovuto attendere la morte di Nicola Tommasoli. Smentite le prime voci secondo le quali l’iniziativa si sarebbe dovuta tenere sabato 10, ora si va confermando la data del 17 maggio lanciata dal Coordinamento migranti di Verona e che verrà raccolta, con ogni probabilità, dai disobbedienti di Luca Casarini. Secondo la sinistra cittadina e i centri sociali “La chimica” e “Pink” è meglio attendere qualche giorno per coinvolgere non soltanto il movimento ma anche i sindacati, gli studenti e chiunque, da Verona e da fuori, vorrà partecipare. C’è chi, come Graziano Perini (Pdci), unico consigliere comunale veronese della Sinistra l’Arcobaleno, vorrebbe coinvolgere anche il Partito Democratico. Si vedrà.
Quasi sicura l’adesione a livello nazionale del Prc, mentre ieri Manuela Palermi aderiva con convinzione dalle colonne delle agenzie di stampa. Questo quotidiano e il manifesto si sono dati lo scopo di rilanciare e promuovere l’iniziativa, primo segnale di piazza della sinistra dopo l’esclusione dai seggi del Parlamento.
Il centrodestra locale e nazionale, sindaco Tosi in primis , si affanna a escludere la matrice politica del bestiale pestaggio. O, piuttosto, disconosce l’appartenenza dei cinque picchiatori neo-fascisti alla destra estrema: Donna Assunta Almirante nega persino che siano di destra, il leader di Fiamma Tricolore Luca Romagnoli afferma che non sono ascrivibile ad alcun contesto sociale in quanto semplici «delinquenti». Sarà, ma l’avvocato di Raffaele Dalle Donne, Roberto Bussinello, è l’ex leader di Forza Nuova della città, passato poi alla Destra di Storace, e in passato ha già difeso giovani skinheads finiti nei guai.
Per il procuratore della Repubblica veronese Guido Papalia, è chiara infatti la «matrice nazi-fascista». Per i ragazzi che si trovavano quella sera con Tommasoli, l’aggressione non ha avuto un movente politico in quanto i cinque neo-fascisti avrebbero soltanto chiesto una sigaretta prima di cominciare a colpire alle spalle. Versione smentita dai responsabili, secondo i quali sarebbe stata una rissa con armi alla pari, finita in tragedia.
In carcere, i cinque aggressori di Nicola ammettono di aver partecipato al pestaggio ma nessuno di loro conferma di aver sferrato i colpi più micidiali, quei calci sulla nuca di Tommasoli quando già giaceva a terra. Sono accusati, secondo quanto riportato dagli inquirenti, di omicidio preterintenzionale aggravato da futili motivi. Per i titolari dell’inchiesta, insomma, quei cinque ragazzi provenienti da famiglie «non benestanti, ma perbene», non volevano uccidere. Papalia parla anche di «omicidio doloso».

07/05/2008


Le dichiarazioni di Fini ci provocano rabbia e indignazione
L’Italia sotto il tiro della destra radicale
Andiamo tutti a manifestare a Verona

Piero Sansonetti
La dichiarazione di Fini in Tv (che paragona un omicidio al rogo di alcune bandiere, e addirittura sostiene che uccidere un ragazzo, senza motivo alcuno, è meno grave che protestare in modo sguaiato contro Israele e negare – rozzamente – il diritto di Israele ad esistere) ci provocano una indignazione e una rabbia incontenibili. Fini probabilmente non si è reso conto di quello che ha detto, appena un’ora dopo l’annuncio della morte di Nicola. Con le sue parole, e per puro amore di polemica verso sinistra, ha sminuito e ridotto a una ragazzata uno dei peggiori delitti degli ultimi anni. E si è rifiutato persino di accennare un ragionamento sul perché succedono queste cose, su dove sia l’incubatrice di questa violenza insensata e bestiale, su quali siano le colpe – non sue o di Berlusconi, o di Bossi, e neppure di Prodi o Veltroni – ma delle classi dirigenti di questo paese. Possibile che un personaggio del calibro di Fini non capisca che le sue parole non devono solo servire a far aumentare o scendere i consensi per il suo partito, o ad alimentare una certa polemica di ceto politico, ma hanno un valore generale, creano opinione, spostano modi di pensare, di sentire, di afferrare i fatti della vita e della storia? Sono queste cose, queste scivolate irresponsabili che danno fiato alla destra radicale, e la trasformano in fenomeno pericolosissimo per la nostra civiltà. Così come lo sono le demagogiche tirate contro i clandestini, o i rom, che spesso affascinano anche il centrosinistra, e distruggono i principi della convivenza, la cultura della tolleranza che è la gemma della cultura occidentale.
Io spero che Fini in queste ore si renda conto dell’errore, e ripari, corregga. Preferisco avere qualche argomento polemico in meno, nei suoi confronti, ma vivere in un paese più civile, meno feroce.
Ieri abbiamo chiesto ai nostri lettori di mobilitarsi per la tragedia di Verona. Oggi possiamo precisare gli appuntamenti: martedì prossimo ci sarà una assemblea cittadina, a Verona, alla quale partecipano varie associazioni, movimenti, partiti di sinistra, e servirà anche a decidere le scadenze successive. Intanto il coordinamento dei migranti di Verona ha indetto una manifestazione per sabato prossimo, sabato 17, nel pomeriggio a piazza Bra. La parola d’ordine è semplice: questa città così com’è non ci piace, vogliamo cambiarla. Questa città non è sicura per i migranti, per la povera gente, per le persone qualsiasi, non è sicura soprattutto al centro, perché il centro è dominato dall’ideologia del pugno duro, dalla legge del più forte, del più macho, e questa legge porta al moltiplicarsi e all’esaltazione della violenza. Pubblica o privata. Il coordinamento dei migranti dice che l’antidoto a questa violenza e a questa ideologia, non sono le ronde – aggressive a altrettanto guerresche e machiste – ma sono le piazza e le strada piene, pacifiche e allegre.
Noi di Liberazione diamo il pieno appoggio a queste iniziative e chiediamo ai nostri lettori di mobilitarsi, e di andare a Verona a partecipare alle iniziative di lotta. La sinistra non può restare a guardare di fronte al rafforzarsi della destra radicale. Non può pensare: ”è affare loro”. Se non entra in questa battaglia perde la sua funzione, il suo scopo. E’ inutile che ci aspettiamo che il centrosinistra, il Pd, si assuma questo compito. Spontaneamente non lo farà mai, è stato troppo segnato dalla svolta moderata dell’ultimo anno. Dobbiamo essere noi a spingerlo, a incalzarlo, a metterlo davanti ai fatti e alle responsabilità: coi nostri partiti, con la forza dei movimenti, coi giornali. Non siamo rappresentati in Parlamento, ma dobbiamo avere una forza politica tale che permetta alle nostre idee di irrompere in Parlamento.

P.S. Naturalmente non è che noi pensiamo che sia una bella cosa bruciare le bandiere israeliane. E’ un gesto assurdo, arrogante. Specie se compiuto non in occasione di una iniziativa culturale come è il salone del libro di Torino. Questo giornale ha già preso posizione varie volte, in modo nettissimo, contro il boicottaggio del salone, e dunque della cultura israeliana, e contro l’idea che debba essere negato il diritto di Israele di esistere. Protestare – come è legittimo e giusto fare – contro il governo israeliano e la sua politica di guerra e di oppressione del popolo palestinese, mai e poi mai può tradursi in un boicottaggio della importantissima cultura di quel paese. Confondere cultura e potere, in ogni caso, è un atto di totalitarismo. Noi speriamo che a Torino la cultura israeliana abbia tutto lo spazio che gli compete, e che ci sia il modo anche per dire che Israele ha diritto ad esistere, ed esiste, e che anche la Palestina ha questo stesso diritto, e che dobbiamo impegnarci perché possa esercitarlo, anche criticando aspramente il governo israeliano e lottando contro la sua politica.

07/05/2008

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