A proposito dell’iniziativa su Tolkien… “guerra di simboli” e forme di mimetismo politico
Il nostro contributo all’interessante dibattito sviluppatosi sul blog dei Wu Ming – www.wumingfoundation.com/…
Un estratto dal libro “Bastardi senza storia” di Valerio Gentili (in uscita aprile 2011, Castelvecchi).
Dall’introduzione, “Guerra di simboli e fenomenologia della violenza politica“:
È opinione comune, figlia di un’opera trasversale di rimozione storiografica, che la marcia di avvicinamento al potere dei fascismi europei non abbia trovato, sul terreno della violenza politica, nemici in grado di fronteggiare la situazione. Per motivi diversi si è preferito elidere il ruolo giocato, negli anni a cavallo tra le due guerre, da quei movimenti “irregolari” che contesero ai fascisti non solo il mero monopolio della violenza di strada ma un intero immaginario fatto di simboli, liturgie, marce, divise, slogan taglienti e affilati. Cercheremo di scovare all’interno della dicotomia rivoluzione-reazione, attraverso i suoi, a volte labili confini, nelle sue paludose zone grigie, le tracce dello scontro, manifestatosi con intensità variabile di nazione in nazione, che oppose, per le strade d’Europa, eserciti di soldati politici, l’uno contro l’altro, armati. Militarizzazione della lotta politica, retaggio del primo conflitto mondiale, crisi economica, disgregazione sociale, disoccupazione giovanile, incapacità della politica di interloquire con settori emergenti della società, ansie e/o speranze rivoluzionarie, crearono quella miscela sociale esplosiva che fece da innesco all’avanzata dei movimenti fascisti in Europa.
In queste prime pagine analizzeremo la <<guerra dei simboli>> e il loro, variabile ma insopprimibile, potere di fascinazione in contesti, fisici e temporali, diversi.
In Italia e Germania l’avanzata dei fascismi si rivelò inarrestabile, in altri paesi, come Francia e Inghilterra, movimenti che, per immaginario e metodo d’azione, si richiamavano alla matrice del sovversivismo reazionario non ebbero altrettanta fortuna. Non ci soffermeremo sulla complessa analisi delle cause che determinarono esiti così alterni, oggetto della nostra ricognizione sono quei movimenti che si opposero secondo un preciso schema di <<contro-violenza>>, fisica, verbale, ideale, ai fascismi europei.
L’avvento del nazismo in Germania era realmente ineludibile?
Non vi fu, come solitamente si è indotti a credere, alcuna forma di resistenza organizzata, armata, che gli si contrappose?
Le crescenti fortune politiche, nei primi anni trenta, del Mussolini inglese, Sir Oswald Mosley, furono arrestate solo grazie alla tenuta democratica delle forze parlamentari? Fu merito esclusivo della politica mainstream, del Sistema?
Chi contrastò, nello stesso periodo, per le strade di Parigi, le pulsioni golpiste della <<Croix de Feux>> e delle leghe di estrema destra?
L’interpretazione del <<Mito delle Trincee>>, nell’Europa tra le due guerre, è necessarimente univoca? Questo mito si riverberò negli anni della pace precaria fornendo esclusivamente quadri e militanti alle truppe d’assalto della destra radicale?
Questi, alcuni degli interrogativi che cercheremo di affrontare scandagliando nel magma storico ciò che a prima vista non risulta chiaro e lineare ma anzi appare come cifra oscura, confusionaria e complessa.
Nel tesissimo clima politico della Germania anni ’20, una neonata repubblica stritolata dalla crisi economica, in equilibrio sospeso tra Rivoluzione e Reazione –fallimentari colpi di Stato si succedevano ad altrettanto infruttuose insurrezioni- veterani del primo conflitto mondiale costituirono due associazioni di reduci in animosa, reciproca, competizione: la <<Reichsbanner schwarz-rot-gold>> (<<Vessillo dell’Impero nero-rosso-oro>>) e la <<Roter frontkämpferbund>> (<<Lega dei combattenti rossi di prima linea>>). La prima di area socialdemocratica (SPD), la seconda legata al parito comunista tedesco (KPD) erano, entrambe, organizzazioni di massa –due milioni di iscritti per la <<Reichsbanner>>, 120 mila effettivi dichiarati dalla RFKB nel 1929, anno in cui venne messa fuorilegge-. Negli anni (1929-’33) della guerra civile scatenata dall’attivismo violento delle SA (<<Sturm Abteilungen>>) naziste, le <<Schufos>> (<<Schutzformationen>>, Formazioni di difesa) della Reichsbanner e i soldati rossi della RFKB si opposero strenuamente alle truppe d’assalto hitleriane- come vedremo- contendendogli, palmo per palmo, strade e birrerie, queste ultime luogo simbolo della vita sociale e aggregativa tedesca. Ad esse si affiancarono le formazioni, politicamente miste, dell’<<Antifaschistiche Aktion>> (ANTIFA) e del <<Kampfbund gegen der faschismus>> (<<Lega di combattimento contro il fascismo>>), insieme ad una pletora di gruppi minori dai nomi battaglieri e minacciosi. Tutti, pagarono un alto tributo di sangue alla lotta contro il nazionalsocialismo.
Nella Londra della metà anni ’30, associazioni di ex-Serviceman, veterani della I guerra mondiale, ebbero un ruolo di non poco conto nell’organizzare quella parte di popolo che non intendeva assistere passivamente al dilagare fisico e strategico delle <<black shirts>> di Sir Oswald Mosley (leader carismatico della <<British Union of Fascists>>) nei distretti working-class dell’East end cittadino. Questa guerra per il predominio territoriale ebbe il suo punto di non ritorno nella legendaria battaglia campale, il 4 ottobre 1936, di Cable Street. Le camicie nere – benchè i consensi tra la classe operaia, così come in Germania, Francia e ancora prima in Italia, non erano trascurabili- furono costrette a desistere e l’antifascismo militante britannico ebbe il suo battesimo di fuoco.
In Italia, il laboratorio fascista, all’avanzata del moto squadrista si contrapposero nel biennio 1921-‘22, in difesa del movimento operaio organizzato e sul terreno della violenza politica, gli <<Arditi del Popolo>> (ADP), di matrice combattentistica, già il nome richiamava l’esperienza dei Reparti d’Assalto dell’esercito regio. Gli Arditi corredarono un’incombenza, quella della contrapposizione in armi alla dirompente marcia paramilitare fascista, di liturgie e simboli provenienti dall’esperienza bellica. Teschi, allori, pugnali e gagliardetti neri si sovrapponevano alla tradizionale iconografia operaia accompagnandosi ad una fraseologia che esaltava il mito vitalistico dell’azione fino al suo, apparentemente paradossale, corollario: la morte onorevole in battaglia per la causa.
Su questo terreno, gli ADP non rappresentano un unicum, le tedesche e più longeve <<Reichsbanner>> e RFKB vestivano uniformi, marciavano al passo, praticavano il culto della bandiera e quello, di dannunziana fattura, dei caduti. Il potenziale emotivo sprigionato dai simboli veniva tenuto in grande considerazione, i colori della <<Reichsbanner>>, nero-rosso-oro, richiamavano il vessillo della rivoluzione democratica prussiana del 1848 e si contrapponevano ai colori reazionari della Tradizione, nero-bianco-rosso, adottati dai nazionalisti. Quando il richiamo ad un passato democratico sembrò non bastare più e lo scontro politico-militare si fece veramente duro (1930-’33), la <<Reichsbanner>> divenne il cardine di un Fronte che si autodefinì <<Esercito della Libertà>>. L’ <<Eiserne Front>> (<<Fronte di Ferro>>) aveva l’obiettivo di contrastare i nazisti sul terreno in cui avevano mostrato maggiore maestria, quello propagandistico. Sotto la bandiera del <<Dreipfeile>> (tre frecce), i giovani aderenti alle Schufos si impegnavano a combattere i seguaci della svastica: spregiativamente apostrofata come <<un simbolo omosessuale indiano>>, ad un simbolo d’impatto, facilmente riproducibile, la svastica, se ne contrapponeva un altro altrettanto efficace. Le tre frecce, con la punta orientata verso il basso da destra verso sinistra, stavano a significare una precisa volontà di potenza: schiacciare quelle forze che, per i socialdemocratici, minacciavano la repubblica. Ai proclami verbosi, fino ad allora il marchio di fabbrica della SPD, si sostituirono slogan diretti, chiari e concisi, anche la propaganda murale del partito si fece più maschia (nei manifesti elettorali per le elezioni del 1932, la socialdemocrazia si trasforma in un lavoratore nerboruto pronto a prendere a pugni in faccia tutti i suoi nemici). Alla chiamata alle armi nazista, il <<Sieg Heil>> e al <<Rot Front>> comunista, l’ <<Eiserne Front>> contrappose il grido <<Freiheit!>> (Libertà!). Grande sforzo impegnò la <<Reichsbanner>> nel contendere la gioventù alle più dinamiche e spregiudicate compagini nazista e comunista, attraverso una precisa <<ginnastica rivoluzionaria>>, fatta di adunate, dialoghi mistico-emotivi tra leader e folle –anche qui ritorna l’imprinting dannunziano- incursioni nei bastioni ritenuti sicuri dal nemico. Tutto questo finiva necessariamente per porsi al di fuori delle tradizioni antimilitariste, pragmatiche e razionali della SPD, il cui esecutivo alternava nei confronti del movimento, per considerazioni di natura strumentale, momenti di mal digerita tolleranza a offensive e provvedimenti disciplinari. Mentre i vertici della SPD erano impegnati, infatti, a farsi supremi garanti degli equilibri repubblicani, sottovalutando fino all’ultimo la marea montante nazista e plaudendo, nel contempo, con pervicace piglio legalitario, alla repressione poliziesca della sovversione anarco-comunista –indipendentemente dalla sua oggettiva consistenza come minaccia- tra i ranghi della <<Reichsbanner>>, soprattutto tra i giovani, si faceva largo la mistica di una <<Seconda Repubblica>> da attuare secondo criteri non proprio legalitari, ciò era troppo anche per i vertici, moderati, della <<Reichsbanner>>. Nè i propositi visionari delle giovani Formazioni di Difesa della <<Reichsbanner>> come, d’altro canto, quelli di <<seconda ondata rivoluzionaria>> delle giovani Truppe d’Asssalto nazionalsocialiste avrebbero mai avuto luogo, pur rappresentando il più alto movente ideale del loro confronto armato e sanguinoso per le strade.
Tra le fila della gioventù tedesca, quella ribelle e marginale innanzitutto, esercitava grosso fascino l’associazione di veterani comunisti, la RFKB, che aveva aperto ai giovani attraverso la propaggine del <<Rote Jungfront>> (<<Fronte della gioventù rossa>>). Il nome, <<Lega dei combattenti rossi di prima linea>>, non era affatto l’unico rimando all’esperienza di guerra, gli affiliati, infatti, vestivano una propria uniforme, usavano una terminologia spiccatamente bellica ed avevano perfino militarizzato il poi tradizionale saluto a pugno chiuso del movimento operaio – in una variante, pugno chiuso ruotato verso l’interno di 90 gradi e braccio attaccato al busto, che, vedremo riapparire tra i miliziani repubblicani nella guerra civile spagnola -. Nella RFKB, si praticava il giuramento dell’<<Ehre und Treue>> (Onore e Fedeltà) alla bandiera rossa, tra i suoi ranghi, non vi era spazio per gli imboscati delle retrovie, l’organizzazione interna rifletteva il modulo combattentistico, con l’unità base della Squadra, avanguardia sul territorio nella lotta sanguinosa contro il nemico politico per il controllo di strade, quartieri, birrerie, estremo baluardo di fronte all’espansionismo aggressivo delle SA nei distretti operai delle grandi città. Gli squadristi della RFKB si percepivano come soldati di un esercito particolare, quello della classe operaia, la loro organizzazione ne rappresentava la truppa d’assalto, i loro inni glorificavano il sacrificio supremo per la causa, la fedeltà fino alla morte all’esercito proletario finiva per sublimare il precedente sacrificio dei soldati, nella grande guerra, ad una causa sbagliata quella del nazionalismo.
Messa fuorilegge dopo i fatti del sanguinoso primo maggio berlinese 1929, la RFKB continuò ad operare nell’illegalità, affiancata, nella lotta al nazismo, da due organizzazioni di massa, attive sul crinale della legalità, ANTIFA e Kampfbund. I rapporti col partito comunista furono spesso turbolenti. La KPD era un partito di giovani –ed anche in base al gap generazionale devono misurarsi le travagliate relazioni con la ben più attempata socialdemocrazia- e negli anni della grande crisi (1930-’33) divenne il partito dei giovani disoccupati. Il ruolo che giocò la disoccupazione di massa nello spingere la gioventù ad arruolarsi nelle formazioni paramilitari non è di poco conto. Nello specifico comunista, i giovani dei distretti popolari di Berlino ed Amburgo potevano trovare nella militanza dura e pura un mezzo per dare senso ad un’esistenza altrimenti vuota, scegliere ed accettare le regole cameratesche delle milizia paramilitare significava compiere innanzitutto una scelta di vita, a lungo andare, però, la piaga sociale della disoccupazione avrebbe finito per indebolire le forze del fronte operaio. Mentre, infatti, una certa componente mercenaria è riscontrabile tra i ranghi del paramilitarismo nazista (SA-SS) –era accaduto precedentemente in Italia, sia NSDAP che PNF non avevano problemi economici godendo dei finanziamenti di agrari e industriali- la militanza a sinistra faceva leva esclusiva sul volontarismo. Le casse delle organizzazioni erano spesso a secco dipendendo dalle sole sottoscrizioni dei militanti, quando, questi ultimi si trovarono senza più un centesimo, afflitti dallo status di disoccupati permanenti, il tracollo economico fu inevitabile. La mancanza cronica di fondi depotenziò – a tutti i livelli, dal semplice manifesto fino all’acquisto di armi- la combattività delle milizie antifasciste concedendo, al contrario, un grimaldello strategico all’opera di sistematica penetrazione delle SA nei milieu popolari, la lotta per il controllo delle birrerie rappresenta la cartina-tornasole di questa dinamica.
Fedele alla scolastica marxista, la KPD si proponeva di essere il partito delle avanguardie di fabbrica, il luogo-mito che avrebbe innescato la miccia rivoluzionaria ma la realtà era ben diversa, il partito rappresentava il bersaglio grosso contro cui si indirizzavano gli strali repressivi dello stato weimariano, costretto ad operare, spesso, in condizioni di semi-legalità, per ordine dei vertici socialdemocratici i suoi militanti venivano espulsi dai sindacati, sospette simpatie comuniste potevano costare ad un operaio il suo posto di lavoro. Il partito si trovò, così, contrariamente ai suoi desiderata, ad esercitare il più alto grado di controllo non sul mondo della fabbrica ma su quello dei quartieri popolari. Quando l’ondata nazista s’infranse sui bastioni popolari, segmenti rilevanti del proletariato marginale – giovani e disoccupati- che vi abitava, transitò per le organizzazioni paramilitari vicine al partito <<per colpire i fascisti ovunque li avessero incontrati>>. Nella rossa Berlino, le gang giovanili di Neukölln, Prenzlauer Berg, Wedding, Kreuzberg e quel lumpenproletariat così estraneo alla vulgata marxista, si distinsero nella lotta di strada alle agguerrite squadre nazionalsocialiste.
Il distinguo capzioso, operato dall’esecutivo comunista, tra <<lotta di massa>> e <<terrore individuale>>, le risoluzioni del novembre 1931 posero fine alla tolleranza del partito verso l’attivismo spontaneo (che in molti casi si era rivelato efficace) dei militanti di base e dei distaccamenti autonomi di quartiere. L’allontanamento, dalla troika che guidava il partito, di Heinz Neumann –il Goebbels rosso, come era chiamato per le sue non comuni qualità di propagandista- autorevole difensore dell’autorganizzazione su base territoriale della violenza antifascista, e la sua progressiva marginalizzazione, fino all’espulsione dal partito nel ’32, erano il segno che i tempi della malcelata ambiguità nei confronti della violenza spontanea e delle liason con ambienti poco ortodossi, per ciò che concerneva i vertici di partito, si chiudevano definitivamente.
Nel febbraio dell’anno successivo il nazismo trionfava, mentre Hitler era intento ad assestare il colpo definitivo alla comatosa repubblica di Weimar, l’esecutivo della SPD si mostrava ancora una volta incerto e timoroso. Alla <<Reichsbanner>> venne messa la sordina da quegli stessi leader che avrebbero, invece, dovuto servirsene per vendere cara la pelle ai nazisti, le armi erano pronte, così come i distaccamenti territoriali ma dal centro non giunse nessun ordine per l’insurrezione democratica, la fiducia cieca della SPD nelle morenti istituzioni si sarebbe rivelata fatale. La mozione che chiamava il popolo lavoratore allo sciopero generale e le truppe paramilitari della <<Reichsbanner>> alla difesa attiva della democrazia si rivelò minoritaria, la maggioranza preferì controbattere al terrorismo nazionalsocialista attraverso pacifiche dimostrazioni di massa, in 20 mila manifestarono il 7 febbraio a Berlino, 15 mila a Lubecca, il 19 seguente, e poi diverse migliaia a Dortmund, Francoforte e in tante altre città. Ovunque, i manifestanti vennero facilmente dispersi dall’azione congiunta di polizia, SS e SA, queste ultime spararono sulla folla facendo diversi morti e feriti. Pochi giorni dopo, il 27 febbraio, la farsa nazista dell’incendio al Reichstag andava in scena, seguita dall’arresto di 4 mila tra comunisti, socialdemocratici, anarchici e antifascisti generici. Intanto, alle SA era affidato il compito di organizzare il sistematico annientamento politico degli oppositori, il 21 marzo, si aprivano i cancelli dei campi di concentramento di Dachau e Oranienburg, seguiti, nei mesi successivi, da un’altra cinquantina di campi secondari, primi e numerosi reclusi: socialdemocratici e comunisti. La KPD, il partito autentico vincitore delle elezioni di novembre, l’allora più grande tra i partiti comunisti d’Europa, era arrivato al redde rationem più isolato che mai, sfibrato da oltre un decennio di repressioni concentriche, ad ogni livello, nemico pubblico numero 1 delle polizie locali, della classe politica di governo, delle milizie paramilitari di destra, il sogno di un fronte antifascista dal basso, caldeggiato sia nei ranghi della RFKB che tra la <<Reichsbanner>>, naufragato, di fronte all’odio atavico che opponeva il CE comunista a quello SPD.
Per le tre frecce dell’<<Esercito della Libertà>>, il <<Fronte Rosso>> della Lega dei combattenti di prima linea e le bandiere sovrapposte nel cerchio dell’ANTIFA, la partita era chiusa. Sergei Chakotin, il propagandista visionario inventore del logo a tre frecce del Fronte di ferro, l’allievo di Pavlov, lo studioso attento e affascinato dalle tecniche di propaganda bolsceviche e naziste, costretto alla fuga dalla Germania di Hitler, riparò in Francia, a Parigi, dove mise le sue conoscenze sul potenziale di mobilitazione totale ed emotiva delle masse al servizio del movimento socialista locale. Il partito socialista francese (SFIO) vinse le elezioni, nel 1936, con la coalizione di Fronte Popolare, sotto l’egida delle tre frecce. Il simbolo comparve anche tra i socialisti belgi e quelli austriaci (sempre per influenza di Chakotin) e tra reparti della milizia repubblicana nella guerra civile di Spagna. Poi la scomparsa. Nel secondo dopoguerra, dopo la vittoria sul nazismo, le milizie paramilitari di sinistra dei decenni precedenti caddero nell’oblio storiografico, motivazioni politiche diverse ma interessi coincidenti. A destra, la loro esistenza – e consistenza- contraddiceva il presunto monopolio, rivendicato in questa area politica, su un certo combattentismo, simulacro di una forma mentis fuoriuscita, insieme ai reduci, dalle fangose trincee della I guerra mondiale. A sinistra, esse potevano rappresentare l’ingombrante, fallace passato del quale la cattiva coscienza di taluni socialismi europei era impaziente di sbarazzarsi. Sia la moderata SPD tedesca, partito a vocazione governativa, che il PSI italiano, dalla fraseologia massimalista e rivoluzionaria, seppur in presenza di contesti e referenti diversi, ebbero pesanti responsabilità nello spuntare le armi di una contro-risposta militare all’affermarsi dei fascismi nei due paesi. Sul comunismo italiano pesava l’impostazione settaria degli esordi, mentre a quegli eredi tedeschi della KPD, divenuti rispettabile partito-Stato ad est, probabilmente non avrebbe fatto piacere riemergessero i legami informali del partito, negli anni del crepuscolo di Weimar, con l’universo sotterraneo e lumpenproletariat delle gang e, più in generale, della devianza giovanile. Il 4 ottobre 1936, il giorno che a Londra una buona fetta di proletari dell’East end sbarrò la strada agli squadristi di Mosley, il direttivo cittadino del partito comunista aveva esortato i militanti a partecipare ad un comizio al centro, Trafalgar square, precettandoli dal prendere parte attiva alla difesa della zona est ma la base comunista non ebbe dubbio: scelse le barricate –ed alcuni pagarono con l’espulsione dal partito-. I simboli di cui abbiamo parlato finora: tre frecce, svastica, logo dell’ANTIFA (aggiungiamo anche il fulmine cerchiato con la punta rivolta verso il basso, simbolo delle camicie nere inglesi adottato recentemente in Italia dal movimento studentesco neofascista <<Blocco Studentesco>>) abbandonato l’agone della politica mainstream e di massa, sarebbero tornati a scontrarsi, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, con buona dose di violenza, nel mondo underground delle aggregazioni giovanili e di strada.
La <<Cable Street Battle>> ha rappresentato l’epico punto di ispirazione per quei gruppi che, nella seconda metà degli ’80, in Inghilterra, diedero vita al network dell’<<Antifascist Action>> (AFA) col preciso intento di contrastare il crescente proselitismo dei gruppi neofascisti nelle aree depresse della working class. L’AFA era composta da una ventina di chapter (dislocati soprattutto nelle grandi città) in reciproco contatto su base orizzontale, a composizione anarchica, comunista o di matrice mista, autorganizzati, attraverso le Squadre (Squad) si concentravano su un’attività di autodifesa, organizzando servizi d’ordine, pattugliando i quartieri di provenienza, scontrandosi fisicamente col nemico ma soprattutto propagandando il verbo antifascista in territori considerati, dagli altri raggruppamenti di sinistra, esclusive riserve di caccia dell’avversario. In una intervista al magazine <<Blitz>>, nel giugno 1988, un militante dell’AFA dichiarava: Quello che ci distingue dagli altri gruppi di sinistra è che il grosso dei nostri militanti sono bianchi, combattenti della classe operaia [...] buona parte della sinistra è impegnata a patrocinare le minoranze etniche, noi crediamo che la propaganda non debba essere indirizzata alle vittime del fascismo [...] la propaganda dovrebbe essere indirizzata verso le potenziali reclute del fascismo! Il look adottato dai militanti dell’AFA compendiava elementi decisamente paramilitari: bomber, anfibi, mimetiche, la sfida lanciata al nemico, così, finiva per riproporsi anche sulla postura estetica. Il minimo comun denominatore dei tronconi ideologici che avevano costituito l’AFA era stato l’allontanamento dai rispettivi gruppi di provenienza – <<socialist workers party>> (SWP), <<anti nazi league>> (ANL), movimento anarchico- con l’accusa di <<squadism>>, cioè, di squadrismo: I fascisti fanno uso della violenza politica perchè ritengono che funzioni, se la si ritiene funzionale, allora, non puoi fare di meglio che usarla su di loro e più duramente. Qualsiasi mezzo può essere lecito per farli desistere dai loro obiettivi [...] Se non attacchi i fascisti, loro saranno liberi di organizzarsi ma se li attacchi non potranno farlo, qui, sta la rilevanza della violenza.
Così iniziava l’intervista rilasciata al quotidiano <<The Guardian>> (21-11-1994), dal leader dell’AFA di Manchester. Il reporter continuava di suo pugno: Come molti membri dell’AFA, Danny proviene dall’area sociale di reclutamento del British National Party (BNP): giovani ragazzi bianchi della classe operaia delle zone depresse ad alta percentuale di minoranze etniche. Sono le opinioni di quelli come Danny ad influenzare l’organizzazione che si colloca a distanza dall’Anti Nazi league (ANL) o dalla Youth against Racism in Europe (YRE). L’AFA disprezza apertamente quegli studenti e gli <<smellies>> che vanno alle manifestazioni per poi tornarsene tranquillamente a casa in zone dove il BNP non è attivo.
Il documentario <<Fighting Talk>>, nome che riprendeva il titolo della fanzine pubblicata dall’AFA, mandato in onda dal secondo canale della BBC nell’agosto del ’92 ma soprattutto la recente pubblicazione letteraria <<Beating the fascists, the untold story of AFA>> (2010) tratteggiano, con dovizia di particolari, piglio militante e gesta del network elencando vittorie strategiche e militari conseguite nella lotta alle organizzazioni di estrema destra, di volta in volta, più minacciose.
Nella Germania dei primissimi anni novanta, in seguito al dilagare, soprattutto mediatico, di gruppi neonazisti, conosciuti dall’opinione pubblica attraverso l’inesatto neologismo giornalistico di naziskins, spezzoni della galassia extraparlamentare della sinistra autonoma (autonomen) – molto attiva nel decennio precedente- rispolveravano sigla e simbologia della weimariana Antifaschistische aktion. Guadagnata la ribalta mediatica internazionale dopo gli episodi di Rostock 1992 – culminati con l’incendio del centro cittadino di accoglienza per immigrati (asilanten)- l’estrema destra tedesca capitalizzava consensi attraverso una spregiudicata propaganda xenofoba che non disdegnava il ricorso alla spedizione punitiva, contro quei soggetti individuati quali nemici politici o sociali, come mezzo di pressione politica. Il nucleo duro della militanza si autodichiarava erede spirituale delle SA, l’adozione di una versione paramilitarizzata del look di strada proprio della sottocultura skinhead sublimava, per questi novelli soldati politici, le antiche divise delle tuppe d’assalto nazionalsocialiste. La nuova ANTIFA raccolse la sfida mettendo in atto il vecchio slogan, coniato quasi settant’anni prima da Heinz Neumann sulle colonne della <<Rote Fahne>>: <<Schlagt die fascisten wo Ihr sie trefft!>> (<<Colpite i fascisti ovunque li incontriate!>>).
Il recente documentario francese <<Chasseurs de skins>> (2008) narra la guerra sotterranea tra gruppi neonazisti e Cacciatori nelle strade della Parigi di metà anni ’80. Prima dell’avvento degli Chasseurs alcune aree della città erano impraticabili per i giovani alternativi e i militanti di sinistra, la presenza aggressiva –amplificata, come accadrà pochi anni più tardi in Germania, dai mass media – di gang d’estrema destra si palesava in continue, violente aggressioni a macchia di leopardo, in giro per la ville. Sotto la sigla Chasseurs, si radunarono decine di giovani delle banlieues parigine, provenienti da militanze atipiche ed irregolari tra le fila della sinistra extraparlamentare, che si organizzarono in bande elitarie, in cui potevano entrare solo esperti praticanti di arti marziali o personaggi distintisi in azioni coraggiose contro il nemico, che rivendicavano la pratica dell’antifascismo militante attraverso il ricorso all’autodifesa attiva e violenta. Il battesimo di fuoco dei <<Red warriors>> – gang primigenia degli Chasseurs- si palesò con una spedizione punitiva, a colpi di mazza da baseball, nel covo della <<Legion 88>> (la numerologia 88 indica la ripetizione dell’ottava lettera dell’alfabeto h, quindi, HH e cioè <<Heil Hitler>>) del distretto di Halles. L’attacco si concluse con l’arrivo dei gendarmi e l’arresto di alcuni esponenti delle due fazioni ma la battaglia era ormai cominciata. In controtendenza rispetto agli umori pacifisti, maggioritari negli ambienti giovanili di sinistra, i Cacciatori aggregarono neofiti sulla base di una forza d’urto che contendeva al nemico non solo il monopolio della violenza fisica ma, come abbiamo già visto accadere nei decenni precedenti, immaginario e codici semiotici. Tratti estetici muscolari, ostentazione di una simbologia netta, chiara, identitaria, codici linguistici e slogans facilmente assimilabili dai giovani della lower class, presenza marcata nei tradizionali bacini di reclutamento del nemico: birrerie e stadi. Nella lotta, i <<cacciatori di skin>> finirono per adottare gli stilemi estetici del nemico che combattevano adottando il look skinhead. Anfibi rinforzati e cranio – parzialmente- rasato ben si confacevano alla lotta di strada, sui bomber militari, alle toppe con rune e svastiche si contrapponevano quelle con la falce incrociata non più al tradizionale martello ma alla più evocativa mazza da baseball: Il segreto dei Red warriors era che non ci fermavamo mai nello stesso posto. Eravamo molto meno numerosi dei nazi e per questo le nostre azioni dovevano essere organizzate alla perfezione. Studiavamo il terreno per evitare ogni imprevisto, i nostri incontri prima delle azioni erano veloci e discreti e generalmente avevano luogo nelle nostre case o negli squat. Per le azioni dirette eravamo capaci di radunare approssimativamente 60 persone. Tutti noi praticavamo qualche sport da combattimento (Full-Contact, Thai Boxing, Kung-Fu) ed inoltre usavamo anche armi, come le mazze da baseball, in sole quattro occasioni usammo armi da fuoco. Politicamente, nel nostro gruppo, ognuno aveva le proprie idee (eravamo tutti antifascisti e questo bastava) e non c’erano problemi di militanza [...] combattemmo contro la Division St. Gorges, Juvisy, Bunker 84 and JNR [Jeunesse nationaliste revolutionaire], li coglievamo alla sorpresa, per dimostrare che i nazi non erano superuomini. L’intenzione era che i nazisti fossero terrorizzati quando scendevano in strada con i loro simboli (bandiere francesi, celtiche, svastiche ecc. ). La lotta antifascista non è una lotta disorganizzata [...] In una delle nostre azioni, a Maraîchers, c’era uno squat di nazi che voleva imporsi sugli altri squat, ci organizzammo con 50 persone e andammo là alle 7 di mattina. Il risultato fu 23 nazi feriti e lo squat chiuso dalla polizia per due giorni. Queste azioni furono frequenti fino al 1992.
Anni più tardi, a cavallo dei due secoli, furono proprio elementi degli ormai disciolti <<Red warriors>> a riutilizzare il vecchio simbolo delle tre frecce che, nei primi duemila, sarebbe divenuto il logo del network modiale RASH (<<red & anarchist skinheads>>). Da circa dieci anni, svastica e tre frecce sono tornate a scontrarsi nell’arena sommersa del radicalismo giovanile, in una battaglia in cui ai loro significati storici si sovrappone la più recente contesa egemonica – tra rivoli politicamente contrapposti- su quel fiume carsico che è la sottocultura skinhead. Lo scontro è totale, sul terreno ideologico, propagandistico, di strada ed abbraccia l’intero globo. L’intensità della violenza varia a seconda delle aree geografiche, negli ultimi anni, picchi si sono registrati in America Latina e Russia. Vediamo degli esempi.
In Russia, dove il numero di skinheads affiliati a formazioni di etrema destra è stato valutato in un ordine superiore alle 50 mila unità, le cronache recenti hanno registrato decine di omicidi – spesso impuniti- di militanti antifascisti. Il 16 novembre 2009, a Mosca, è stato assassinato il leader della locale sezione RASH, Ivan Khutorskoy, una vera e propria esecuzione, due colpi di pistola sparati dietro la nuca in un agguato sotto casa, personaggio odiato dall’estrema destra per le sue doti carismatiche, in precedenza, aveva subito una lunga e infruttuosa sequela di aggressioni a mano armata e sfondo omicida. Per lo più, come in questo caso, i delitti politici, secondo le autorità russe, non hanno colpevole, le agguerrite milizie paramilitari di destra sembrano agire indisturbate, in alcune circostanze, come forze ausiliarie nella repressione poliziesca del dissenso. É il caso della recente, estate 2010, mobilitazione guidata dalla RASH Mosca contro la distruzione della foresta di Khimki – ostacolo naturale, a pochi chilometri dalla capitale, alla costruzione dell’autostrada Mosca San Pietroburgo -. Di fronte alle proteste, le autorità cittadine non hanno esitato a servirsi delle truppe d’assalto neonaziste per scoraggiare militanti e popolazione locale dall’alzare la voce. La vicenda ha avuto, di riflesso, una grossa eco tra l’opinione pubblica occidentale solo in seguito all’aggressione di un giovane reporter del <<Kommersant>>. Il 6 novembre 2010, una telecamera condominiale ha ripreso per intero il pestaggio, a suon di martellate, del giornalista Oleg Kashin reo di aver sostenuto la protesta della RASH moscovita dalle colonne del suo giornale. Il video, che mostra due oscuri ed esperti sicari ridurlo in fin di vita sotto casa, ha fatto il giro del web mondiale.
In Ecuador, il 17 maggio 2010, un giovane affiliato alla RASH Quito, Alvaro Paredes, attaccato da 4 neonazisti fuori dalla sua scuola, uccideva per autodifesa uno dei suoi aggressori:
La confederazione internazionale RASH UNITED, che raccoglie centinaia di sezioni in tutto il mondo con migliaia di militanti attivi, offre pieno supporto e piena solidarietà ad Alvaro Paredes [...] e allo stesso tempo al movimento antifascista ecuadoregno, ricordandovi che non siete soli [...] Noi, gli antifascisti del mondo, non siamo criminali nè assassini ma agiamo per autodifesa, come ultima spiaggia, quando le nostre vite sono in pericolo, come nel caso del nostro compagno ecuadoregno e in molti altri casi nel mondo [...] RASH UNITED chiama urgentemente tutte le sezioni del mondo a mobilitazioni di fronte alle ambasciate ecuadoregne per esercitare una pressione diretta in modo che il caso del nostro compagno Alvaro prenda una direzione differente da quella propagandata dai media che parla di semplice rissa tra gang. Si tratta, invece, di aggressioni selettive dei gruppi di etsrema destra, compiute col sostegno economico delle organizzazioni paramilitari ecuadoregne.
A Bogotà, Colombia, due anni prima, nel febbraio 2008, il leader della RASH cittadina, Freddy faro Ramirez veniva ingiustamente accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di un militante di estrema destra, ucciso con sedici coltellate, nel corso di uno scontro di strada tra RASH e neonazisti. É stato scagionato e liberato dopo oltre un anno di detenzione.
La guerra dei simboli continua.