Abitare sociale a Livorno, un’analisi della ex caserma

casa

Un’interessante analisi a cura della Ex Caserma Occupata di Livorno, tratto da Senza Soste:

Con questo articolo intendiamo affrontare ed approfondire la questione “Abitare Sociale” nella sua declinazione ed applicazione livornese. Sotto il titolo di “Abitare Sociale” sono  definite quelle varianti urbanistiche che interessano oggi la ristrutturazione del patrimonio ERP, dell’edilizia residenziale pubblica cioè, a Livorno.

Non è facile rintracciare nella letteratura urbanistica una fonte a cui risalire se tentiamo di chiarirci le idee sul concetto di Abitare Sociale. Cercando sul Web per esempio incappiamo in svariate definizioni, più o meno tutte accomunate dai medesimi elementi ma che lasciano però sempre l’impressione  del sommario. La storia di abitare sociale sembra mancare  di una teoria che ne orienti le varie applicazioni, sembra comporsi piuttosto di tutta una serie di interventi analitici a posteriori; si comporta come un fenomeno sociale cioè, scaturisce direttamente da una dimensione empirica, da una prassi più o meno consolidata. Quanto si rintraccia di scritto e testimoniale è studio a posteriori di un fatto già verificatosi. “Alloggi e servizi, con forte connotazione sociale, per coloro che non riescono a soddisfare il proprio bisogno abitativo sul mercato (per ragioni economiche o per assenza di un’offerta adeguata), cercando di rafforzare la loro condizione.” Questa è solo una delle definizioni che possiamo trovare in rete e fa capo al sito della stessa fondazione housing sociale. Vogliamo discutere almeno due o tre aspetti di questa definizione, aspetti forse di rilevanza primaria. Intendiamo discutere la “connotazione sociale”, la relatività rispetto ad un bisogno “per ragioni economiche o per assenza di un’offerta adeguata” ed infine la generalizzazione della condizione. Lo sforzo interpretativo non è indifferente, ve lo assicuriamo, poichè la galassia dell’housing sociale sul piano prettamente analitico e teorico sembra essere piuttosto “nebulosa”. Partiamo dal primo punto, dalla connotazione sociale della pratica. L’aggettivo sociale può essere carico di significati duplici. Può, per esempio, riferirsi al sostantivo “società” ed indicare con neutralità la condizione di chi organizza la propria vita all’interno di una collettività, che sia questo un agire sociale egoistico oppure altruistico, liberale oppure socialista, anarchico o fascista. Una condizione del proprio esistere insomma. In un altro senso possiamo inserire l’aggettivo sociale all’interno del dualismo storico tra il mercato e lo stato, dove per sociale intendiamo quella politica di  redistribuzione di una ricchezza sottratta al libero agire degli operatori del mercato. Lo Stato è quell’operatore che interviene con politiche fiscali che sostengono una spesa pubblica. Le politiche fiscali sottraggono denaro ad imprese e famiglie. A quel punto definire sociale l’abitare deve fare riferimento di forza ad opportunità negate alle famiglie sui mercati più o meno liberi. Per sociale si intende cioè quell’intervento capace di togliere ricchezza laddove si accumuli in eccedenza e redistribuire, la ricchezza stessa, tra chi dal mercato si è visto privare di opportunità relative a bisogni importanti. Escludiamo che la prima accezione abbia valenza contestuale alla definizione, data l’assoluta eccedenza del significato rispetto alla pertinenza del discorso. Aggiungere e specificare la natura “sociale” in quel senso significa, paradossalmente, istituire un dualismo tra il vivere in società e il non vivere in società, che non sappiamo bene cosa significhi, se una vita eremitica o chissà cosa altro. La “comicità” del passaggio serve a dimostrare come l’unica accezione interpretativa pensabile per la definizione espressa sopra di abitare sociale sia la seconda.Parlare di interventi di valenza sociale significa allora trattare modalità di istituzione del diritto all’abitare relative alla necessità di interferenza e coordinazione del diritto stesso da parte di un ente terzo, dotato del potere, economico, politico o culturale capace di trasformare una situazione di svantaggio e di privazione  in una situazione di vantaggio e ripristino di un equilibrio. Che poi si intenda il sociale in chiave assistenzialista, auto-gestionale o statalista non fa molta differenza.  Ciò che conta ora per noi è l’evidenziazione di alcuni tratti distintivi del sociale, ossia la trasformazione di una situazione di svantaggio e squilibrio in una di vantaggio ed equilibrio (si pensi come esempio di ciò l’edilizia popolare classica, che realizzava il diritto all’abitare proteggendo i salari più deboli da affitti troppo aggressivi), nonché l’organizzazione ad un livello superiore, secondo e non immediato, della socialità intesa nella prima accezione, della stessa vita in società. Se le relazioni sociali naturali, se la “legge di natura” può condurre a distorsioni delle situazioni individuali, a soprusi di ogni genere in assenza di una regolamentazione generale e condivisa, autentica e rispondente ad una “volontà generale”, il sociale e quel sovrappiù, quell’organizzazione di interventi tesi a sbrogliare le situazioni di svantaggio individuale e collettivo. Può provenire da soggettività sociali svariate simile intervento, ma pur sempre organizzate e finalizzate allo scopo. Associazioni volontaristiche, in alcuni casi gli stati, i movimenti politici ed altro ancora, sono tutti soggetti capaci di promuovere politiche sociali, di organizzare i soggetti portatori di bisogni intorno a pratiche che realizzano uno scopo, di natura appunto sociale, funzionale agli obiettivi dell’organismo. Parliamo di forme superiori di socializzazione poiché intendiamo descrivere quelli istituti, più o meno fluidi e formalmente riconosciuti, che riescono attraverso la pianificazione di interventi ad hoc a compiere una costruzione di dimensioni del vivere in società, che si fanno ingegneri di spaccati autentici di realtà sociali. Sono entità meta-sociali cioè, che si occupano di società. Sono nella società ma costruiscono società, spaccati sociali. E’ in questo senso che vogliamo leggere tutto l’housing sociale. Come intervento organizzato di realizzazione di forme  di socializzazione in cui si concretizzi  il diritto all’abitare. Passando al secondo aspetto da trattare nella definizione, aggiungiamo nei risultati un tassello importante a quanto sostenevamo prima intorno all’idea di sociale.  I bisogni sono attributi di soggetti determinati. Individuare un bisogno cioè significa individuare un soggetto portatore del bisogno, dunque un soggetto specifico. Quando nella definizione si parla di bisogni relativi ad un’assenza di offerta adeguata cosa intendiamo? Se intendiamo alla lettera il testo, è chiaro come si intenda l’assenza di un’OFFERTA economica di edilizia che risponda, genericamente, a bisogni soggettivi. Di qualsiasi genere. Un’edilizia cioè ritagliata sulla soggettività abitatrice, una soggettivizzazione cioè dell’abitare. Proviamo a procedere, per semplificare il ragionamento, attraverso varie categorizzazioni dei bisogni relativi all’abitare. Da un lato classifichiamo quei soggetti indigenti, incapaci per la propria debolezza economica di soddisfare il bisogno di casa, dall’altro poniamo quei soggetti economicamente forti rispetto all’abitare, capaci cioè di reggere sul mercato libero degli affitti. Abitare sociale può interessare anche i secondi, dato che il dato che conta è la soggettività che esprime il bisogno e non necessariamente la condizione economica oggettiva di chi subisce la negazione del bisogno di casa. Riprendendo quello che scrivevamo sopra, il sociale in senso abitativo, ossia l’organizzazione e la realizzazione di forme di socializzazione in cui si concretizzi il diritto all’abitare, si muove per soddisfare i bisogni soggettivi di chi ha bisogno di casa. Di tutti in pratica, di chi ha potere economico e di chi non ha potere economico.  Dietro al sociale deve esserci però un’entità meta-sociale dicevamo sopra. Nel caso dell’Housing sociale questa entità non può che essere la stessa organizzazione di chi propone le proprie esigenze soggettive. Chi andrà ad abitare la casa è  lo stesso soggetto organizzato in senso meta-sociale. Altrimenti non si capisce in che senso il bisogno di casa venga soggettivizzato. Il passaggio da una logica di costruzione di una città decisa a monte, dalle istituzioni, ad un’idea di città espressa direttamente dalla cittadinanza è evidente. Sino ad oggi chi aveva forza economica attraverso un’agenzia immobiliare, per fare un esempio, entrava in contatto con chi dava disponibilità a concedere un appartamento in affitto o a vendere.  L’offerta era predeterminata. Abitare sociale probabilmente tenta di ribaltare questa logica, cercando di esprimere l’esigenza di un’offerta non predeterminata. Non è l’abitante ad adattarsi ad un mercato già definito, ma il mercato che si adatta alle esigenze dell’abitante. Stiamo parlando probabilmente di uno dei tanti, millantati, percorsi partecipativi. L’unica modalità cioè per comprendere le soggettività portatrici dei bisogni è comprendere le soggettività stesse, dunque adagiarsi sulle aspettative del cittadino. Proviamo a fare cioè un paragone, un parallelo con la sociologia del lavoro. Col ford-taylorismo si produceva con una metodologia pianificatrice, si decideva a monte, con i piani di produzione, cosa produrre. Il toyotismo cambia prospettiva, la cosiddetta “fabbrica snella” si fa più attenta alla domanda, si inizia a produrre “a valle”, ridimensionando il ruolo delle scorte e rispondendo con aderenza alle esigenze del mercato. Abitare sociale sembra appunto operare un ribaltamento di prospettiva in questo senso, spostando i piani regolatori da una valutazione a monte verso l’edificazione a valle, ricettiva verso le esigenze di soggettività abitatrici. In questo senso la questione “abitare sociale” si apre a scenari partecipativi. Enfatizzando il ruolo del soggetto che andrà ad abitare l’edificio, niente esclude che siano i soggetti stessi a farsi promotori ed organizzatori della propria concezione di abitare. L’ultimo elemento della definizione conferma quanto dicevamo ora. “Rafforzare una condizione”, ossia fare rete intorno ad un sistema comune di aspettative. Riprendiamo la classificazione fatta sopra tra meta-sociale e società intesa nel suo senso più immediato. Organizzarsi intorno ad aspettative soggettive, organizzare le aspettative e trasformarle in una condizione necessaria e sufficiente del proprio socializzare. L’iniziativa di chi sconta il bisogno è un dato fondamentale, l’attitudine partecipativa un elemento sostanziale dell’abitare sociale.

Passiamo, dopo questa analisi preliminare, tesa a chiarificare il fenomeno interessato, ad una critica dello stesso. Struttureremo la critica su due aspetti, uno generale e l’altro relativo all’applicazione livornese dell’abitare sociale. Sfrutteremo cioè, col secondo aspetto, un caso concreto per dedurne conclusioni generali, con metodo induttivo.

Il primo elemento di critica concerne la generalità con cui vengono definiti gli stessi bisogni.Generalizzare le condizioni soggettive dietro l’universalità di ogni bisogno significa guardare alla società attuale come ad un tutto capace di esprimere, come tutto, esigenze di carattere universale. La società di oggi però è divisa in mille rivoli, è una società altamente complessa popolata da soggettività plurime, da individui caratterizzati da condizioni di vita che mancano oggi di una coscienza comune. La morte del proletariato, come dicono molti, la fine di una coscienza di classe, sono una premessa di questo fenomeno. Sebbene i più guardino alla moltiplicazione delle soggettività come ad una premessa per una cultura politica post-ideologica, noi preferiamo denunciare l’impossibilità, l’irriducibilità, di determinate condizioni soggettive rispetto ad altre. Le classi non sono scomparse, ma semplicemente sono state “decostruite”. Una cultura politica attenta all’abitare, inteso come diritto universale, lavora più per una “ricomposizione” del tessuto sociale che sconta l’attuale pauperizzazione, non per la sua assimilazione ad interessi, magari da palazzinari, che si trovano in conflitto irrimediabile con l’abitare stesso. Cosa significa “processo partecipato” se la partecipazione si compone degli interessi che producono la stessa povertà? Spieghiamoci meglio. Dire che tutti i bisogni sono legittimi, che tutti gli interessi abbiano dignità sociale rappresenta l’aspetto più pericoloso di questo genere di abitare. Ci sono interessi relativi al diritto all’abitare che conoscono un’urgenza prioritaria rispetto ai capricci edilizi di chi può permettersi oggi l’appartamento di proprietà. Stato sociale è questo, ossia redistribuzione della ricchezza. La controtendenza delle politiche sociali deboli rispetto alla necessità di stato sociale forte, di redistribuzione di ricchezza verso chi non ha più niente, ebbene è questo il quadro in cui sembra inserirsi l’abitare sociale,  come un’opportunità per chi ha ancora soldi da spendere, quindi di per se una minoranza esigua in questa fase economica, un lusso radical-chic e culturale e non uno strumento sistematico di intervento sull’esercizio di un diritto in un momento in cui è a rischio la tenuta sociale del diritto stesso.  Approfondiamo quanto scritto sino ad ora, avanziamo nella critica prendendo spunto dall’applicazione labronica dell’abitare sociale.

Partiamo facendo una premessa, una constatazione non da poco. Le fonti a cui abbiamo attinto per ricostruire la vicenda dell’housing sociale ( ossia la variante urbanistica che ha motivato l’edificazione di nuovi edifici in zona est, tra coteto e scopaia, Nuovo Centro compreso) a Livorno sono disparate e mai precise. Sulla stampa di larga diffusione, come il Tirreno, gli interventi chiarificatori sono scarsi, è difficile rendersi conto delle cifre spese e della funzionalità, rispetto alle esigenze abitative presenti in città, della variante stessa. Sono citate voci di spesa relative a singoli interventi, al mercato ortofrutticolo per esempio, ma mai quanto costi complessivamente la variante. I  costi dovrebbero infatti essere messi in relazione con le funzioni della variante. Se proviamo ad indagare le funzioni della variante entriamo subito in possesso di svariati elementi. Per prima cosa essa è collegata al contenzioso del comune con Fremura. In secondo luogo la variante dovrebbe interessare l’edilizia popolare, dato che una percentuale degli edifici costruiti sono destinati ad uso residenziale pubblico. Sapere quale percentuale sia destinata a questo scopo permette di capire quali siano stati i reali investimenti di chi ci amministra in questo genere di edilizia, forse l’unica in grado di tamponare l’emergenza abitativa in questa fase critica sul piano degli strumenti formali e “politicamente corretti”. Altri due aspetti di grande interesse sono lo spostamento demografico che la variante provocherà nei quartieri ad est, almeno nell’ipotesi che questi edifici non restino disabitati ed infine la “partecipazione” di cui l’abitare sociale dovrebbe essere garanzia. Infine desta interesse il fatto che tutta la variante sia retta da una collaborazione tra settore pubblico  e settore privato. Proviamo dunque ad analizzare la variante soffermandoci su questi cinque aspetti. Partiamo dal contenzioso che il Comune aveva con Fremura.

Riportiamo le parole espresse dallo stesso Bruno Picchi nel 2007,con cui l’assessore all’urbanistica di allora spiegava la variante: «Con la famiglia Fremura – afferma Picchi – abbiamo raggiunto un accordo transattivo che impegna il Comune a pagare 7.531.259 euro a titolo di indennità per i maggiori oneri di esproprio e per l’occupazione (sulla base della quantificazione fatta dalla Corte d’Appello di Firenze con sentenza 1379/01) e a cedere sempre ai Fremura 49.824 metri quadrati di superficie lorda pavimentabile nella zona del Nuovo Centro compresa tra via di Popogna, la ferrovia e il Rio Maggiore”. Si capisce come il Comune abbia sborsato i soldi sopra citati per risolvere il contenzioso con Fremura. I lavori di edificazione poi vengono ovviamente appaltati a dei privati, tra cui figura lo stesso Fremura. Per capire quanto l’operazione avvantaggi lo stesso bisogna immaginare quale valorizzazione i terreni possano conoscere. Perché magari, di fronte ad una spesa di sette milioni di euro da parte del settore pubblico, sette milioni sottratti in materia abitativa allo stato sociale, Fremura conoscerà dei guadagni spropositati relativi alla valorizzazione dei terreni. Il contenzioso con Fremura nasce da tutta una serie di espropri effettuati dalle amministrazioni pari a più di 40 milioni di euro. Per quanto il Comune di denaro pubblico ne abbia speso di meno, l’operazione conduce dritta verso la speculazione dato che Fremura tramite la valorizzazione dei terreni conoscerà guadagni ben superiori ai 40 milioni di euro del contenzioso. Spieghiamo come avviene ciò, ossia come la valorizzazione dei terreni possa produrre l’operazione speculativa. Citiamo, per filo e per segno, l’intervento che fece sul Tirreno Sergio Nieri nel 2004: «Nell’operazione di Salviano 2 – scrive – l’interesse pubblico alla trasformazione urbana del Nuovo Centro si “concilia” – lo ha ammesso il sindaco – con l’interesse privato (lo stesso che ha capitalizzato l’acquisto dei terreni afferenti a Salviano 2 con le disponibilità dei soci risparmiatori) alla cessione bonaria delle aree destinate al nuovo Deposito Atl e al costituendo Distretto socio-sanitario. Alcune domande di merito: posto che la individuazione delle aree destinate ad un progetto di trasformazione urbana presuppone una dichiarazione di pubblica utilità delle aree stesse, non sarebbe stato più opportuno, oltreché più trasparente, comunicare alla cittadinanza lo stato di avanzamento della pratica Edilporto in rapporto al complesso iter di approvazione della Stu Nuovo Centro? La «retribuzione» di Edilporto, in valori fondiari, (vale a dire l’incremento dell’indice edificatorio su Salviano 2) viene stabilita assai prima che si approvassero atti formali su Salviano 2. È in questa fase che si consolida l’azione del soggetto attuatore mentre, per altro verso, non è chiara, tanto meno vincolante, la destinazione sociale delle aree cedute o permutate (a seconda dei tempi e dei punti di vista), in considerazione del fatto che nessun atto formale ha riguardato la trasformazione urbana del Nuovo Centro e la corrispondente individuazione delle aree di pubblica utilità. È questo un problema di rilevanza politica, a meno che al «politica» non resti che ratificare il fatto compiuto o, quel che è peggio, mediare tra l’organo pubblico e il privato per realizzare la propria quota di consenso». Questi passaggi chiariscono quali interessi prevalgano nella variante Nuovo Centro a cui verrà poi ricollegato l’Abitare Sociale.

L’intera trasformazione urbanistica ruota attorno all’affermazione prioritaria degli interessi di un privato. L’unica risposta data dall’amministrazione e da Casalp in materia di “edilizia popolare” dunque si deve inserire all’interno di quanto detto sopra, dato che la leva principale, l’origine di tutta la variante è da ricondurre ad un processo edilizio speculativo. Gli interventi fatti sull’edilizia popolare in città, i principali, sono legati a questo processo speculativo. I risultati di queste operazioni si vedono. Queste operazioni sono incapaci di entrare con forza e capacità risolutiva sulla questione casa, sono incapaci di funzionare da stato sociale. Prendiamo come esempio un’altra operazione in cui un privato ha affermato i propri interessi rispetto a quelli pubblici, ossia quali beni universali, come la casa, siano stati strumentalizzati per poter generare una rendita. Parliamo del  mercato ortofrutticolo, dove 4 milioni di euro sono stati spesi per ottenere in cambio solo 10 appartamenti “popolari”. Che siano soldi privati o pubblici questi non fa differenza, dato che la questione casa dovrebbe avere una voce prioritaria nei capitoli di spesa sociale del settore pubblico, dato il momento emergenziale. Mentre con la variante ad Est si producono guadagni spropositati che vanno tutti nelle casse dei privati, ben oltre ogni contenzioso, si insinua che non ci sia denaro per altre operazioni magari e si chiede così l’intervento di nuovi privati. E’ un gioco infinito, una concatenazione che non ha conclusione. A meno che non si decida di intervenire sulle sacche di ricchezza accentrate nelle mani di pochi, pochissimi oggi, detentori della stessa, per ricavare risorse capaci di produrre stato sociale. Senza un processo politico di aggressione alla rendita saremo sempre più schiavi di queste operazioni speculative, che poi rappresentano esse stesse un azzardo sul mercato immobiliare, dato che spesso pretendono di rivolgersi ad una fascia grigia, ad una classe media oggi in via di estinzione. Da un punto di vista urbanistico sembrano profilarsi piuttosto preoccupanti scenari di desolazione urbana e di “quartieri fantasma”, di periferie prive di significato sociale perché mancanti appunto di quel livello autentico di “partecipazione” che si pretenderebbe a monte col discorso dell’abitare sociale. Una bella speculazione culturale questo Abitare Sociale, l’”ideologia” dal volto buono e partecipativo del mercato e dei palazzinari.

Prendiamo sempre come spunto, per approfondire in secondo luogo la riflessione sulla percentuale di edilizia popolare prodotta, il caso del mercato ortofrutticolo. Come abbiamo più volte ripetuto, il mercato ortofrutticolo è un’operazione che coinvolge direttamente i privati, che costruiscono ed investono un determinato numero di appartamenti destinandone poi una quota all’edilizia popolare sovvenzionata, quella classicamente detta popolare. Di 60 appartamenti soltanto 10 rientrano nella categoria. Gli altri 50 sono destinati all’affitto concordato, che come abbiamo sostenuto già in altri interventi su senza soste  rappresenta solo un disperato tentativo per riattivare il mercato degli affitti privati. Come con l’Agenzia degli Affitti, si creano gli stimoli per il mercato. Peccato che al momento siano centinaia le famiglie che percependo un reddito ben al di sotto della “fascia grigia” vengono escluse da queste operazioni. Di 60 appartamenti edificati 50 sono destinati a questo fine, sostenere il mercato degli affitti privati. Questa, rendiamoci conto, è la proporzione che riflette quanto chi gestisce l’edilizia pubblica investe politicamente sul diritto all’abitare. La verità è che in questi ultimi due anni se la popolazione non si fosse autonomamente organizzata, grazie all’operare ed all’appoggio, alla solidarietà di strutture come la nostra, ed autogestita il diritto stesso, non avrebbe ricevuto risposte risolutive da chi gestisce la dimensione pubblica della nostra vita. Quale destino attendesse queste famiglie non vogliamo neanche immaginarlo. Senza fare preghiere e ringraziare qualche santo, possiamo con tutta serenità sostenere che la lotta, l’opposizione sociale e l’organizzazione autonoma di un diritto stiano producendo dei risultati nella gestione diretta del bisogno di casa.

Poche righe sopra, abbiamo accennato allo scenario urbanistico su cui Livorno oggi si affaccia. Senza avere presunzione di urbanisti, con qualche nozione di politica e sociologia, di economia, possiamo provare ad intuire i contorni di questo scenario. I tre aspetti chiaramente si intrecciano. L’economia incontra la politica, la sociologia si palesa in senso critico, nei piani dell’amministrazione e nei fatti come assenza drammatica, come mancanza di un piano, di una visione della città. Se il decennale tentativo di trasformazione dell’inclinazione industriale di Livorno in un’attitudine più turistica denuncia il cedimento del controllo sociale e del consenso politico da parte dei poteri secolari, del Pd e degli imprenditori che vi si legano, delle varie “cooperative rosse”, perché il cambiamento sociale viene a mancare di un referente politico moderno (si genera una situazione di anomia), di un interprete aggiornato, non c’è da stupirsi neanche quando i precipitati degli interventi compiuti mancano di un piano e di una razionalità, cioè di un governo dei fatti e di una logica. L’idea del turismo è sin troppo facile, ma i risultati tardano a manifestarsi, ed i tanti pregi turistici di cui si pretenderebbe menar vanto alla città sono in verità delle autentiche bugie, dei fatti che non esistono. Su un piano provinciale Livorno potrebbe anche possedere potenzialità turistiche, ma non ci risulta che il Comune di Livorno stia investendo in un tipo di occupazione “migrante” come risposta alla crisi occupazionale generata dal ritiro dell’industria, che favorisca il lavoro nella provincia incentivando l’inter-scambio con le aree limitrofe. Livorno manca di strutture ricettive adatte nonché di un’organizzazione imprenditoriale (per fortuna vogliamo aggiungere) del turismo balneare, di una rete di aziende. Facciamo fatica ad immaginare quali risorse turistiche possa possedere il nostro territorio, relativamente all’amministrazione comunale.

Questo per dire che delle attuali trasformazioni sociali chi ci amministra possiede una visione miope e distorta, alimentata da interessi specifici di cui si muove a protezione. Non ci stupiamo perciò del fenomeno demografico ed urbanistico a cui stiamo assistendo. Se da un lato il processo di valorizzazione dei terreni rischia di rivelarsi un’arma pericolosa, perchè rischia di riattivare il mercato degli affitti in tutto il suo dannoso splendore, ed un clamoroso flop, per assenza di un referente sociale, della “fascia grigia” o classe media, medio-bassa, oggi sempre più proletarizzata , perché dunque rischia da dover agire su un referente sociale alla cui sparizione sta contribuendo come dimensione privata dell’abitare, dall’altro si verifica uno spostamento demografico di determinati abitanti dei quartieri Nord, di residenti in edilizia popolare, nei quartieri Est. Per questo parliamo di periferie desolate. Il principale referente della trasformazione, la fascia grigia, mancando abbandonerebbe fior di appartamenti al disuso, come inabitati. Abitandoli genererebbe probabilmente nuove sacche di povertà ,come è ovvio che avvenga quando ridiamo fiducia al mercato in fasi in cui il mercato non ha più niente da esprimere. A lavori compiuti però ci sarebbe una popolazione certa, ossia quella che viene spostata da Nord ad Est. Quale paesaggio sia quello che concentra il cemento sovrappopolato delle zone ad est con edifici interi mezzi disabitati e centri commerciali, l’ennesimo centro commerciale posto nel niente (come è sempre stato nelle intenzioni dei possessori dei terreni, edificare anche un altro grande ipermercato), in competizione con i piccoli esercizi dei quartieri, piuttosto vivaci nei dintorni, come nel quartiere coteto, colline o la scopaia-la leccia, non è difficile da immaginare. Senza contare che a pochi km si trova l’ipercoop, il più grande ipermercato della città. A noi questo scenario, composto di inutile cemento, di abitare morto, di economie localizzate e di quartiere sconvolte e di sacche di povertà legate a certa edilizia popolare, sembra irrimediabilmente desolante, alienante.

Arriviamo dunque a discutere dell’argomento partecipazione. L’intervento sopra citato di Sergio Nieri puntualizzava su quali forzature avessero compiuto gli “amministratori” della città e della cosa pubblica. E’ certo lo spostamento di popolazione in funzione di una speculazione immobiliare, in chiave valorizzazione dei terreni di Fremura. La popolazione non partecipa, ma viene generata, prodotta a monte quasi fosse una legge sulle recinzioni. Sono queste leggi che a fine ‘700 in Inghilterra espropriarono i contadini delle terre demaniali, lasciandoli senza niente e costringendoli a migrare nelle città, in funzione di manodopera per la nascente industria di una borghesia rampante, che necessitava di forza lavoro per le proprie imprese. In pratica queste leggi sancirono la nascita del proletariato in Inghilterra, costruirono una classe sociale, inventarono una categoria storica. Nel caso dell’abitare sociale non si capisce quale categoria si vada ad inventare, la fascia grigia non esiste e gli unici abitanti sicuri sono proletari e sottoproletari legati all’edilizia popolare classica. Tutti soggetti che non hanno partecipato al processo ideativo della variante. L’abitare sociale si configura perciò come giustificazione a posteriori, come elemento culturale offerto ad una popolazione ingenua per legittimare, sul piano  dell’opinione pubblica, una speculazione edilizia.  Come si sarebbe detto un tempo “ideologia”.

Concludiamo l’intervento sull’Abitare Sociale a Livorno analizzando le collaborazione tra pubblico e privato nell’edificazione di nuova edilizia popolare. Dato che l’edilizia popolare dovrebbe funzionare da stato sociale, le risposte date sul versante dell’edilizia pubblica rappresentano un dato inconfutabile di impostazione politica data allo stesso stato sociale, un atto di volontà. Dato che le operazioni attuali garantiscono un vantaggio per i privati e garantiscono scarsi risultati, che tradotto in termini economici significa che producono una rendita e riducono l’offerta abitativa. Il processo sembra essere inversamente proporzionale, la rendita cresce anche grazie ai progetti varati dall’amministrazione e da Casalp sull’edilizia pubblica, è la stessa politica che disegna i contorni del guadagno privato. Per alimentare la rendita con i soldi pubblici, vengono costruiti pochi alloggi popolari mentre decine di persone inesorabilmente subiscono gli sfratti. Il messaggio deve essere chiaro, l’esigenza di invertire la tendenza continua ad essere urgente, così come resta prioritaria la necessità di trovare fonti di redistribuzione della ricchezza sociale. La rendita in questa deve essere aggredita e non favorita. Quali siano gli strumenti impiegabili per impostare un’aggressione diretta o meno ad essa è questione da discutere, approfondire ed analizzare. Questo fronte si configura però sempre più come specifico terreno di lotta e di scontro sul nostro territorio per il diritto all’abitare. Ci sono tutti una serie di diritti imprescindibili di cui nessuna forza politica deve permettersi violazione, uno di questi è quello all’abitare. Su  questo terreno  si individua però con maggiore chiarezza quell’aggressione che i nostri diritti attualmente subiscono, laddove per alimentare la rendita si neghino stato sociale ed abitazioni. La rendita deve essere aggredita, non i nostri diritti.

EX CASERMA OCCUPATA

6 maggio 201

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