EGITTO E DINTORNI. Un contributo alla definizione del concetto di Rivoluzione.

resizerL’ipotesi illusoria non fa le veci della verità (Il Corano).
Che cos’è la verità? (Ponzio Pilato).

Colpo di Stato o non colpo di Stato? Ma è poi questo il problema?  Analisti politici e luminari della scienza politica si arrovellano e si accapigliano nel tentativo di trovare un adeguato titolo al dramma sociale andato in scena in Egitto nei giorni scorsi, e che ha avuto come epilogo la caduta dell’ex premier Morsi in diretta televisiva mondiale. Un dramma che peraltro è lungi dall’esaurirsi, come testimoniano i sanguinosi scontri di ieri. In linea generale condivido la tesi “realista ” sostenuta da Sergio Romano, il quale ci suggerisce di non applicare ovunque nel mondo gli schemi interpretativi forgiati in Occidente. «Fino a che punto è stato democratico, secondo i nostri standard, il regime inaugurato dai Fratelli Musulmani dopo la caduta di Mubarak? Basta, poi, una tornata elettorale a trasformare un Paese che ha conosciuto decenni di potere autoritario e di tutela militare in una democrazia di stampo occidentale?»

Anche Lucio Caracciolo critica il mainstream democratico occidentale da posizioni “realiste”: «Se nei paesi della “primavera araba” vuoi far votare il popolo, preparati a un probabile governo islamista. Se non vuoi gli islamisti, vai sul sicuro e non far votare il popolo. Se poi il popolo ha votato e rivotato gli islamisti e tu sei abbastanza certo di non poter mai vincere un’elezione, scatena la piazza, accendi la mischia e chiama i militari a scioglierla. Questa regola, sperimentata nel 1991-92 in Algeria, è confermata oggi in Egitto» (La Repubblica, 5 luglio 2013). La sindrome algerina, che evoca un lungo e sanguinoso periodo di marasma sociale caratterizzato da quotidiani attentati terroristici di “matrice islamica”, è uno spettro che inquieta tutti gli analisti occidentali di geopolitica, e per la verità non solo loro.

Tuttavia, qui siamo ancora alla superficie del problema, alla sua interpretazione politologica, che comunque ha una sua notevole pregnanza perché allude ad altro. Per tentare di afferrare almeno un bandolo “strutturale” dell’intricata matassa bisogna andare sotto il pelo dell’acqua, lasciarsi cioè alle spalle la schiuma politico-ideologica che, per così dire, la intorbidisce. Sia chiaro: anche in profondità l’acqua è alquanto fetida. Tuttavia, da lì è possibile capire qualcosa di essenziale, e così evitare a se stessi il non invidiabile destino di chi, ad esempio, inneggia alla “rivoluzione!” a ogni peto del processo sociale.

A scanso di antipatici equivoci chiarisco subito che con “peto” non sto alludendo alle attuali vicende egiziane, le quali in ogni caso non hanno nulla a che vedere con la rivoluzione, almeno per come la intendo io.

islamisti-egittoScrive Marco Hamam:«Se quello di ieri è stato un golpe militare, che cos’è allora una rivoluzione? Abbiamo assistito a manifestazioni pacifiche e ordinate di folle oceaniche stimate dai 13 ai 30 milioni. Se sommiamo i manifestanti nei quattro giorni di fila arriveremo a cifre che sfiorano il centinaio di milioni di persone, un numero molto superiore a quello totale degli aventi diritto al voto […] Se, etimologicamente, e spesso costituzionalmente, nelle democrazie il potere appartiene al popolo, il popolo ha il diritto di esercitarlo, a maggior ragione se pacificamente, anche se al di fuori del consueto percorso istituzionale» (Limes, 5 luglio 2013). Come ho scritto altrove, solo chi è impigliato nella rete dell’ideologia dominante (borghese) può usare col sorriso sulle labbra, come se si trattasse della cosa più bella del mondo, il concetto di «popolo», il quale, in Egitto e ovunque, cela una realtà sociale fatta di classi, semi-classi, ceti e di tante stratificazioni sociali comunque irriducibili a quel concetto. In Egitto come in ogni altra parte del mondo il «popolo» è una parolina magica evocata dai “sicofanti” per far scomparire la divisione classista della società e il rapporto sociale di dominio e sfruttamento che informa l’attività “umana” in tutto il pianeta. Soprattutto nel XXI secolo il «popolo» è una truffa tentata ai danni dei dominati.

La rivoluzione non è innanzitutto un fatto di quantità (la quantità di gente che scende in strada, la quantità di violenza, o di non-violenza, che essa dispiega, e via di seguito), ma di qualità. Rivoluzionario è il processo sociale che mette in discussione non un regime politico, ossia la mera forma politico-istituzionale di un dominio sociale, bensì questo stesso dominio, i peculiari rapporti sociali che lo rendono possibile. Come dimostra, ad esempio, la transizione italiana dal fascismo alla democrazia dopo la Seconda carneficina mondiale, i regimi passano, il dominio capitalistico continua. Salvo, appunto, l’irruzione sulla scena storica del processo sociale chiamato Rivoluzione, un evento che, marxianamente, presuppone il farsi «classe per sé» delle cosiddette masse, ossia la metamorfosi dell’oggetto (materia prima vivente) del Capitale in soggetto politico-sociale autonomo, in cosciente produttore di nuova storia. Per questo, per fare altri due noti esempi, la cosiddetta rivoluzione komeinista del ’79 non fu una rivoluzione (sebbene probabilmente ce ne fossero i presupposti materiali), né fu rivoluzionario il crollo del cosiddetto «socialismo reale» dopo il fatidico ‘89.

In Egitto come ovunque nel mondo la sola rivoluzione sociale autentica, ossia fedele al suo proprio concetto e adeguata alla vigente epoca storica, è quella anticapitalistica. Posso vantare pochissime certezze, anche sul terreno politico, e una di queste certezze l’ho appena esternata.

So bene che il mio criterio di valutazione può sembrare fin troppo severo, tanto più nell’epoca in cui il marketing non si vergogna di attribuire proprietà “rivoluzionarie”, e a volte persino miracolose, anche a una nuova marca di dentifricio – per non parlare delle “rivoluzioni”, più o meno “civili”, di certi manettari. Ma tant’è!

Naturalmente ciò non significa, per me, squalificare tutte le espressioni di antagonismo sociale non rubricabili come “rivoluzionarie”, anche perché la rivoluzione ha molto a che fare, almeno potenzialmente, con tutte le forme di antagonismo e di disagio sociale. Si tratta piuttosto di acquisire la capacità di illuminare l’hegeliana notte buia che rende nere tutte le vacche. Un problema che solo gli ingenui e gli ottimisti ad oltranza, entrambi facili prede del ragno borghese, possono considerare alla stregua di un lusso dottrinario.

Al contrario, solo acquisendo la capacità di cui sopra è possibile valorizzare al meglio in chiave rivoluzionaria la più piccola delle contraddizioni sociali, ogni più piccolo spiraglio che si apre all’iniziativa antagonista dei dominati e degli oppressi, ogni più insignificante peto del processo sociale. La logica parolaia del massimalismo non mi è mai piaciuta. Bisogna portare la dialettica particolare-universale sul terreno della radicalità rivoluzionaria.

Se poi si vuole appiccicare l’etichetta Rivoluzione a ogni forma di cambiamento radicale, naturalmente si è liberi di farlo, e dopotutto lo stesso Marx definì rivoluzionario lo stesso Capitalismo perché esso non può sopravvivere senza mutare continuamente la «struttura» della società borghese, con ciò che ne segue sul piano della corrispondente «sovrastruttura» (dalla politica alle forme ideologiche, dalla cultura alla psicologia delle masse). Il periodico rivoluzionamento della base tecnologica e organizzativa dell’economia fondata sul profitto è peraltro la causa di ultima istanza di molti processi sociali che si offrono allo studio di politologi, sociologi, psicoanalisti, eccetera.

Per il resto, non sono un feticista delle parole, e posso dunque tranquillamente chiamare Pippo il concetto di Rivoluzione sociale che ho nella testa, e così d’altra parte mi regolo a proposito di altri fondamentali concetti che hanno subito il vile trattamento inflazionistico da parte di molti “marxisti”: vedi, ad esempio, alla voce comunismo.

Scrive sempre Hamam: «Il fatto ironico è che nel 2011 le dinamiche furono simili: i militari presero in mano le redini del paese dopo estenuanti, gigantesche manifestazioni che forzarono l’ex presidente Mubarak a rassegnare le dimissioni. Eppure molti di quelli che oggi gridano al colpo di Stato, tra cui la stessa amministrazione americana, chiamarono quel fatto “la più grande rivoluzione degli ultimi tempi” […] Siamo sul terreno, nudo e crudo, della geopolitica: se il tuo leader mi sta antipatico e tu lo cacci (facendomi anche un piacere), è rivoluzione; se il tuo leader mi sta simpatico (e magari l’ho aiutato a vincere) e tu lo mandi via, allora è un golpe». Qui la freccia critica di Hamam coglie il bersaglio. «Ma alla fine – conclude – è veramente una semplice questione di punti di vista?» In un certo senso sì. Per quanto mi riguarda si tratta naturalmente di un punto di vista di classe, non geopolitico, e difatti a me stanno “antipatici” tutti i protagonisti politici della vicenda (con annesse relazioni internazionali), i quali sono a diverso titolo rappresentanti e amministratori di un potere sociale ostile a tutto ciò che odora, anche alla lontana, di umano. Applico lo stesso criterio classista alla vicenda siriana, la cui dinamica per molti aspetti è analoga a quella che stiamo osservando in Egitto.

Ecco adesso, per concludere, un saggio di tardo-terzomondismo, che riporto non per spirito polemico, ma unicamente per chiarire il ragionamento fin qui svolto: «È troppo presto per dirlo, ma è incomprensibile ostinarsi a ignorare che sarà la cristallizzazione rapida della sinistra radicale, ansiosa di andare ben oltre la semplice rivendicazione di elezioni corrette, che permetterà una ripresa delle lotte per un cambiamento degno di questo nome. È compito di questa sinistra radicale elaborare una strategia di democratizzazione della società di portata ben più ampia di quella elettorale, ossia quello di associare la democratizzazione al progresso sociale. Un obiettivo che implica, ovviamente, l’abbandono del modello di sviluppo attuale e la messa in atto di una politica internazionale indipendente e decisamente antimperialista. Non saranno certo i monopoli imperialisti e i loro servi internazionali (Banca mondiale, FMI, OMC e l’Unione europea) che aiuteranno i paesi del sud a uscire dal loro miserabile degrado» (Samir Amin, Le rivoluzioni arabe due anni dopo, Marx XXI, 7 maggio 2013).

È anche contro questa logica di collaborazione “tattica” tra «masse diseredate» e borghesia «progressista e antimperialista», uno schema ideologico qualificabile come reazionario già negli anni Settanta del secolo scorso e che oggi puzza di rancido lontano un miglio, che bisogna lottare, a Sud come a Nord – si tratta della «triade Stati Uniti/Europa/Giappone» (Samir). Inutile dire che chi scrive non ha nulla a che fare con la «sinistra radicale» evocata da Samir, la quale si orienta ancora sulla base della vecchia bussola maoista centrata sulla “dialettica” «nemico principale/nemico secondario». A mio modesto avviso le classi dominate del pianeta devono fronteggiare un solo nemico di classe: il dominio capitalistico colto in tutte le sue molteplici “declinazioni” sociali – comprese le forme che cadono sotto l’occhio indagatore del geopolitico.

Chi parla di «progresso sociale» senza mettere in questione il rapporto sociale capitalistico, ossia il Capitalismo tout court, invita le classi dominate del “Sud” e del “Nord” a scegliere l’albero a cui impiccarsi.

Nel XXI secolo non si dà autentica lotta all’Imperialismo senza un’assoluta e tetragona autonomia di classe. Tutto il resto è contesa interimperialistica.

da http://sebastianoisaia.wordpress.com/

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