Note sullo sciopero sociale: storia, organizzazione e prospettive

The Global SquareLa pratica dello “sciopero sociale” è una realtà affermata nel mondo. L’occupazione di un parco, di una piazza, di un ponte, di un incrocio stradale, di un porto, fino all’occupazione di una grande città, rivela un fenomeno in continua ascesa che passando da un paese all’altro, da un’esperienza all’altra, accumula forza ed estensione.

Un po’ di storia

Agli inizi del ’900 parole come sindacato e sciopero si trovano dall’altra parte della barricata rispetto a libertà e democrazia. Marx ed Engels nel Manifesto del 1848, trattando la fase embrionale del movimento operaio, avvertono che ogni movimento economico e sociale conduce a un movimento politico e assume importanza grandissima in quanto estende l’associazione e la coalizione proletaria; le conquiste puramente economiche, invece, sono precarie e non intaccano lo sfruttamento di classe.

I primi moti sindacali vengono repressi dalla borghesia e assumono perciò caratteri rivoluzionari. I capitalisti, accusando gli operai di voler ricostruire le corporazioni del Medioevo, stroncano con la forza gli scioperi, ma ben presto comprendono l’importanza dell’associazionismo economico. Come i partiti socialisti, che attraverso il maneggio delle leve sindacali cercano di orientare la classe operaia, così anche quelli borghesi, controllando queste strutture, riescono a influenzare una parte del proletariato. Ad una prima fase di repressione brutale di qualsiasi manifestazione, segue quindi una seconda di tolleranza in cui la borghesia intuisce che reprimere selvaggiamente gli scioperi non fa altro che esasperare i conflitti spingendoli verso uno sbocco rivoluzionario. A cavallo della Seconda Internazionale si formano forti partiti socialisti e nascono movimenti sindacali di massa. Essendo un periodo caratterizzato da uno sviluppo relativamente tranquillo del capitalismo e dall’assenza di guerre, prende piede il “riformismo”, quel fenomeno politico che porterà il proletariato al disastro della prima guerra mondiale.

Dal fascismo in poi il sindacato è integrato nello Stato ed entra in una nuova fase, la terza, basata su di un’abile azione di cooptazione delle organizzazioni operaie all’interno delle istituzioni. Il conflitto tra le classi viene incanalato in una trattativa perenne patrocinata dallo Stato e accettata con entusiasmo, anzi proposta con accanimento, da quelli che dovrebbero essere i rappresentanti della classe sfruttata. Se il punto di partenza è la trattativa, il punto di arrivo diventa lo sciopero. Tutto il contrario di come dovrebbe essere.

A differenza del proletariato di fine ’800 e inizio ’900, che essendo emarginato dalla vita “civile” si scagliava contro l’ambiente borghese tout court, quello odierno è immerso, quotidianamente, in un ambiente corrotto, e sottoposto ad automatismi ideologici potenti in grado di esercitare una micidiale pressione inibitoria. Senza contare che alcuni strumenti, un tempo efficaci, hanno perso il loro fascino evocativo e politico. Consideriamo, ad esempio, le famigerate “denunce politiche” di leniniana memoria: esse hanno cessato di essere strumento sovversivo nella misura in cui la stessa borghesia se n’è appropriata, facendone un uso diffuso a beneficio del proprio sistema. Sotto il segno di una sorta di “autodenuncia” di classe, ogni canale televisivo si è specializzato a dar voce a casi di corruzione, imbrogli, speculazioni finanziarie e bancarie con dovizia di particolari. Certo, la crisi economica ha messo a nudo un sistema di disuguaglianze economiche e sociali, di privilegi economici e politici impossibili da nascondere, ma quello spazio di “intervento politico”, un tempo neutro e libero, è diventato appannaggio esclusivo del piccolo borghese “tribuno del popolo”, in toga o in completo populista. Dopo essersi impadronita dell’organizzazione sindacale, istituzionalizzandone la contrattazione e regolamentandone il comportamento generale, la borghesia recupera alla sua influenza anche la “critica sociale”.

C’è spontaneità e spontaneità

Esaminando le origini del movimento operaio in Russia, Lenin osserva come gli scioperi del 1890, che si estesero rapidamente e in modo contagioso, furono del tutto diversi da quelli degli anni precedenti. Per quanto fossero tutti provocati da condizioni di vita diventate insopportabili, le modalità con cui si svolsero produssero risultati del tutto differenti.

La distruzione delle macchine, gli attacchi disorganizzati e il ribellismo che rivestivano l’azione operaia negli anni 1860-’70, erano il frutto della spontaneità di un proletariato ancora in formazione. I grandi scioperi degli anni ’90 furono invece mobilitazioni in cui l’elemento spontaneo rappresentava già la forma embrionale della lotta di classe. La sistematicità con cui quelle lotte erano intraprese, la loro fulminea estensione, la passione che suscitavano, esprimevano la crescita di un’esigenza organizzativa che andava oltre la riuscita dell’azione specifica. L’evoluzione che ne scaturì, con la stessa implacabilità di un processo fisico, condusse alla fioritura di vivaci circoli operai e alla loro diffusione in tutta la Russia.

Per definire un embrione di lotta di classe, Lenin riteneva fosse sufficiente la presenza di due elementi: 1) la sistematicità degli scioperi; 2) la loro estensione contagiosa. La Terza Internazionale deliberava i suoi indirizzi tattici sulla base del calcolo delle ore lavorative perse a causa degli scioperi; il criterio statistico consentiva, con buona approssimazione, di sondare lo stato d’animo della classe operaia e il grado di maturazione del conflitto in corso. Da indicazioni di questo tipo, oggi si ricava ben poco. La sistematicità e l’estensione degli scioperi, pur continuando ad essere degli indicatori, non sono più sufficienti, e il mero dato quantitativo, non essendo più espressione diretta dell’elemento istintivo o spontaneo, cessa di trovare un riscontro a livello qualitativo. Pensiamo, ad esempio, alle lotte sindacali degli anni 1969-’70 in Italia, a quelle polacche del 1980-’81 o al lungo ciclo che ha visto protagonisti gli operai sud coreani nel 1975-’81: esse hanno prodotto, in Polonia e in Corea, la caduta di agguerriti regimi polizieschi, ma senza corrispondere alle esigenze dello schieramento di classe.

In natura il passaggio dallo stato di larva all’età adulta non sempre ha successo e segue modalità abbastanza impegnative. Il bruco, ad esempio, deve trovare il metodo di isolarsi dal mondo esterno per proteggersi dagli attacchi dei suoi predatori: uccelli, ragni, libellule. Ci riesce producendo una sostanza gommosa, che seccandosi dà forma alla crisalide dove si imbozzola. E’ all’interno di questo scudo protettivo che l’organismo dell’insetto può completare la sua metamorfosi. Ciò che è mancato ai suddetti movimenti di massa è stato questo passaggio, la formazione di un ambiente radicalmente diverso da quello esistente. Quando gli operai si riuniscono per discutere di un loro problema, la riunione è il mezzo per raggiungere uno scopo, cioè la soluzione del problema; tuttavia, non appena si realizza l’ambiente adatto, ecco che il problema si tramuta in mezzo e la riunione, la comunità proletaria, diventa lo scopo. Le Camere del Lavoro rappresentavano questo tipo di ambiente, ma sono state espugnate e normalizzate dallo Stato diventando degli uffici che erogano servizi ai “cittadini”.

Modello sindacale e nuovi paradigmi

Quello che un tempo era il reparto di una fabbrica, oggi è diventato un nodo produttivo autonomo che produce contemporaneamente, in tempo reale, per più imprese, nazionali e multinazionali. Da verticale e monolitica la fabbrica è diventata orizzontale e diffusa, e la logistica, spostando semilavorati da un nodo produttivo all’altro fino al negozio in cui il prodotto è venduto, ha sostituito la vecchia catena di montaggio. La divisione tecnica del lavoro, in questa unità integrata di fabbrica e territorio, viene spinta a livelli estremi. L’operaio che prima svolgeva mansioni particolari e rodate in un ingranaggio generale, diventa intercambiabile e flessibile a disposizione delle mutevoli esigenze produttive. Anche il “mestiere” diventa un rigido anacronismo in questo contesto di intercambiabilità, flessibilità e precarizzazione crescenti: nella misura in cui l’operaio passa da una mansione all’altra, da una funzione lavorativa all’altra all’interno della filiera produttiva, egli è spinto a sviluppare nuovi modi di agire e pensare. Mentre le strutture sindacali, grandi e piccole, si dibattono in una micidiale crisi di strategie e programmi, si va affermando un’esigenza organizzativa di carattere universale.

L’organizzazione fordista della produzione, determinando una dequalificazione dell’operaio, ha reso necessario superare il sindacato di mestiere (che organizzava quelli che svolgevano le stesse mansioni: falegnami, muratori, ecc.) per arrivare a quello su base professionale (per categoria o ramo industriale: lavoratori del legno, dell’edilizia, ecc.). Allo stesso modo, la globalizzazione ha spinto ulteriormente in avanti il processo di socializzazione del lavoro, riducendo il numero delle specializzazioni e delle categorie. L’operaio salariato, che entra nel processo produttivo capitalistico, perde la propria individualità, si trasforma da operaio parziale accanto a tanti altri operai parziali in operaio complessivo, diventando parte di un insieme integrato di funzioni. Al contempo i padroni scompaiono e vengono sostituiti quasi ovunque da funzionari stipendiati, mentre la fabbrica si diffonde e l’industria rompe i limiti aziendali per distribuirsi nella società. L’operaio, immerso in questo “tutto”, non può condurre le proprie lotte senza considerarle legate all’insieme degli altri fattori territoriali.

Tramontato il mestiere, la lotta sindacale si è attestata a rivendicare e difendere la professione. Superata anche questa, quale quadro rivendicativo resta? Indietro non si torna: non rimane che sfidare l’avversario sul suo terreno, quello preparato dallo sviluppo generale della produttività. I proletari non hanno nulla da perdere se non le proprie catene ed hanno un mondo da guadagnare. Chiunque non sia intossicato dall’ideologia capitalistica capisce bene che la liberazione di lavoro umano operata dalle macchine (che oggi è disoccupazione e miseria per i più) potrebbe essere un vantaggio per tutta l’umanità, la quale potrebbe dedicarsi ad attività piacevoli e divertenti invece di essere schiavizzata dalla necessità di accumulare sempre più Capitale.

Verso nuove prospettive

Già al tempo della lotta dei precari americani dell’UPS, nel 1997, si notava come i lavoratori fossero obbligati ad agire contro barriere universali e globali per la soluzione di problemi di carattere contingente e locale. Per questa ragione, sempre più spesso, i conflitti parziali disturbano il contesto politico/sociale generale e, là dove si manifestano, non possono fare a meno di esprimere in embrione tutte le contraddizioni esplosive della nostra epoca.

Pensiamo alla lotta del settore degli idrocarburi in Argentina, nel 1991: quella battaglia, inizialmente parziale e circoscritta, nata come protesta contro i “tagli” nel settore, mise in moto una forma organizzativa originale, che, pur rispondendo ad esigenze economiche elementari, andò oltre la mera esigenza sindacale. Il suo raggio d’azione oltrepassò, ampiamente, quello della fabbrica e del campo petrolifero, e si proiettò immediatamente oltre la sfera dei rapporti locali, per volgersi direttamente sul piano della lotta sociale. La spinta dal basso, che in seguito verrà perfezionata e generalizzata da altre lotte, si basava sull’organizzazione dei “picchetti sociali”, riprendendo una grande tradizione operaia e inglobandola in qualcosa di più vasto e generale dove il campo d’azione non era più la fabbrica ma il territorio. I picchetti, mobili e flessibili, si spostavano da un incrocio all’altro, da una zona all’altra, nell’intento di bloccare non qualche unità produttiva o qualche distretto industriale ma l’intera produzione/circolazione del paese; i primi blocchi stradali, manifestazioni di un disagio economico diffuso, cominciavano a porre soluzioni non strettamente sindacali ma di più ampio respiro.

La loro efficacia fu tale che vennero replicati negli anni successivi dai minatori boliviani. In un paese pieno di montagne ebbero effetti economici devastanti e condussero a uno scontro politico violentissimo con il governo. Una forma di lotta nata da esigenze particolari e locali si stava affermando su scala globale. Riapparve, nel 2002, ancora in Argentina con i piqueteros curtador de rutas: di fronte a fabbriche che chiudevano o delocalizzavano, con un tasso di disoccupazione in continua crescita, occorreva uno strumento di lotta in grado di ricomporre un tessuto di classe lacerato da una precarizzazione diffusa e privo di strumenti sindacali adeguati. I piqueteros, dispersi e isolati all’inizio, hanno utilizzato la potenza dei moderni mezzi di comunicazione, trasformando la debolezza della dispersione in forza mobile.

#ScioperoSociale

La pratica dello “sciopero sociale”, tramite la diffusione dei picchetti metropolitani, è una realtà affermata nel mondo. L’occupazione di un parco, di una piazza, di un ponte, di un incrocio stradale, di un porto, fino all’occupazione di una grande città, rivela un fenomeno in continua ascesa che passando da un paese all’altro, da un’esperienza all’altra, accumula forza ed estensione nella prospettiva di sfociare in un unico grande network globale. E’ un fenomeno che, oltre ad interessare direttamente i lavoratori, come abbiamo visto con l’esperienza argentina, coinvolge anche le mezze classi e una massa crescente di figure sociali proletarizzate. In questo esercito eterogeneo si fa strada un senso di estraneità nei confronti dell’attuale sistema economico-politico e il bisogno di contrastarlo. Dietro la maschera anonima di “V per Vendetta”, nelle fila delle oceaniche manifestazioni di massa, sta prendendo corpo una forma di spontaneità che richiama, molto da vicino, quella che animava gli scioperi russi di fine ’800, ma con una marcia in più dovuta alla maturazione dei contrasti sociali.

Lo “sciopero sociale” è per sua natura “sistematico” e “contagioso”. Richiede un tipo di organizzazione incentrato su un coordinamento snello ed efficace, e favorisce linee di aggregazione vaste e sfumate in cui il proletariato tende, necessariamente, a svolgere un ruolo primario.

Un’evoluzione significativa del processo in corso si è compiuta con il movimento Occupy Wall Street negli Stati Uniti. All’inizio sembrava fosse una forma di generica appropriazione di spazi di convivialità e di condivisione musicale, culturale e altro, in quanto non arrecava danni alla “libera circolazione del capitale”. E’ invece rapidamente cresciuto, assumendo nel giro di qualche mese una fisionomia globale. Non ripercorriamo, in questo scritto, il cammino che dall’occupazione di Zuccotti Park, passando per lo sciopero generale di Oakland, ha condotto fino al blocco coordinato dei porti della West Coast. Ci limitiamo a osservare che i sindacati americani hanno compreso fin dall’inizio la carica di novità che il movimento esprimeva, accodandosi alle iniziative di lotta. La potentissima UAW (United Automobile, Aerospace and Agricultural Workers), dichiarò: “Riconosciamo la necessità di lavorare insieme e di imparare gli uni dagli altri. La vitalità, l’energia e il dialogo che emergono dal movimento OWS mostra il potenziale per organizzare, rafforzare, vincere, la lotta per i diritti della classe media”.

99 Pickets è un’altra struttura da portare ad esempio. Oltre a supportare i precari nella città di New York, solidarizza attivamente con le lotte per il salario minimo che si sviluppano in Bangladesh e in Cambogia. Da ricordare il blocco del 18 dicembre 2012 attuato da alcuni attivisti di Occupy Wall Street del porto di Newark (New Jersey), per ostacolare la consegna delle merci provenienti da una fabbrica del Bangladesh dove 112 operai sono arsi vivi. L’azienda in questione lavorava per Walmart, il più grande datore di lavoro non solo americano ma del mondo.

Interessanti le caratteristiche di organizzazione, sostegno e solidarietà all’opera negli scioperi dei lavoratori dei Fast Food. Il riconoscimento istintivo di far parte di un movimento globale ha spinto i precari americani a lanciare il “Fast Food Global Strike”, il primo sciopero mondiale del settore. Anche nella storia degli Indignados spagnoli è avvenuto il passaggio dalla semplice protesta a livelli di scontro più radicale. Si pensi al collegamento con le lotte dei minatori delle Asturie oppure alla “Marchas de la Dignidad” che ha portato un paio di milioni di persone nel centro di Madrid per lottare contro il peggioramento delle condizioni di vita.

Anche in Italia troviamo significativi embrioni di lotta di classe, soprattutto nel settore della logistica: da qualche anno a questa parte ogni battaglia, in qualunque magazzino, richiama il sostegno di una rete di solidarietà territoriale. Gli scioperi improvvisi e senza limiti di tempo vengono sostenuti dai “picchetti sociali”, per cui a fianco dei facchini in lotta accorrono, in rinforzo, decine di solidali. Solo in questo modo, e grazie alla pratica dei blocchi, è stato possibile, fino ad ora, mantenere uno stato di agitazione (quasi) permanente. Le lotte nella logistica indicano la tendenza a superare la logica della difesa del posto di lavoro per sperimentare nuove pratiche di mobilitazione unitaria tra occupati, disoccupati e precari.

Prime conclusioni

E’ difficile dare uno svolgimento semplice e lineare dei fatti sociali, caratterizzati da una lunga tradizione di concertazione e collaborazione di classe. Per questa ragione il “movimento” procede tra alti e bassi, oscilla tra speranzosi entusiasmi e silenziosi interrogativi. Vi è stato un ripiegamento di Occupy Wall Street negli Usa, ma qualcosa di simile è riapparso in Brasile durante i Mondiali di calcio, accendendo nuove energie e sperimentando nuove forme di aggregazione. Lo slancio della rivolta di Piazza Tahrir si è momentaneamente fermato (anche se in Egitto gli scioperi continuano) ma si è riacceso in Turchia, dando vita alle più grandi manifestazione di massa della storia del paese. Siamo di fronte ad un andamento che, per quanto possa apparire caotico, esprime una sua logica e coerenza anche dal punto di vista formale, che non vanno cercate sul terreno della contiguità, della continuità limitrofa delle lotte, ma su quello universale della continuità temporale e spaziale, come è giusto che sia per un movimento che si colloca in una dimensione globale. Questo andamento ondivago e altalenante si spiega con il bisogno di affinare i mezzi di offesa e prepararne di nuovi e più efficaci. E’ prendere tempo per rafforzare una preparazione ancora insufficiente, affinché venga precluso ogni ripensamento, chiuso ogni possibile ritorno all’indietro politico e sindacale.

Negli scioperi sociali metropolitani e nelle forme organizzative che da essi evolveranno, si esprime un’innegabile aspirazione alla trasformazione dei rapporti sociali. Ma questa non è sufficiente se non prepara anche la possibilità di una sintesi a livello programmatico. Soprattutto in tempi in cui cominciano a suonare i tamburi di guerra, e i proletari sono chiamati a parteggiare per i rispettivi fronti nazionali.

22 settembre 2014
@chicago86

da http://www.chicago86.org/index.php

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