India – A trent’anni dalla strage di Bhopal: il più grande disastro industriale della storia

Vijay Prashad, Counterpunch, Stati Uniti: traduzione a cura di Internazionale

Nel 1984 in India ci fu il più grave disastro industriale della storia. La Union Carbide, l’azienda statunitense responsabile dell’incidente, non ha mai pagato per le sue colpe

Il nome Warren Anderson forse dice poco al lettore occidentale, ma in India significa molto. Anderson, morto alla fine di settembre in Florida all’età di 92 anni, era il responsabile della Union Carbide quando, nella notte tra il 2 e il 3 di- cembre del 1984, avvenne il disastro. Un imprevisto aumento della temperatura nell’impianto per la produzione di pesticidi a Bhopal, nell’India centrale, provocò una fuga di almeno trenta tonnellate di isocianato di metile nel giro di un’ora. Una nube di gas tossico rimase sospesa sulla città, penetrando nei polmoni degli ignari abitanti. Nello slum di Jai Prakash Nagar, vicino all’impianto, vivevano diecimila persone. Chi abitava vicino all’impianto ricorda una sensazione di asfissia: molti vomitavano, erano senza fiato, annaspavano in cerca d’aria, che però portava nei polmoni altro veleno. Rashida Bee ricorda di essere fuggita: “Intorno a noi sentivamo dire ‘Dio, ti prego, facci morire’.

Quel giorno la morte sembrò qualcosa di desiderabile”.

Migliaia di persone morirono nel giro di un’ora e decine di migliaia scontano ancora le conseguenze del disastro, con tassi di mortalità altissimi dei feti e dei neonati. Secondo il bilancio definitivo quasi ventimila persone sono morte e più di mezzo milione sono state colpite in seguito dagli effetti del gas tossico.

Nel 1985 l’azienda mandò Warren Anderson in India, dove fu messo agli arresti domiciliari con l’accusa di “omicidio colposo non equivalente all’assassinio”. Le responsabilità della Union Carbide sembravano evidenti. Anderson pagò la cauzione (2.100 dollari) e lasciò paese. Non sarebbe mai più tornato in India né nei tribunali indiani.

Nel 1975 il governo del Madhya Pradesh aveva diffuso un documento in cui chiedeva che l’impianto di Bhopal, costruito nel 1968, fosse spostato in una zona più isolata. La Union Carbide e i suoi alleati nel governo locale respinsero le richieste. Era il primo di una lunga serie di rifiuti in contrasto con la necessità di garantire la sicurezza dei cittadini. Nel 1982 una squadra della Union Carbide mandata dagli Stati Uniti evidenziò “gravi” problemi di sicurezza nell’impianto, anche nell’unità dove due anni dopo avrebbe avuto origine il disastro. Nessuno fece nulla e la Union Carbide avviò invece una serie di tagli alle spese riducendo ulteriormente la sicurezza nell’impianto. Era il secondo segnale dell’eclatante indifferenza nei confronti dei lavoratori dell’impianto e degli abitanti della città. Quando, poco prima della mezzanotte del 2 dicembre 1984, il gas cominciò a uscire, l’azienda non fece suonare la sirena che avvertiva della perdita di sostanze tossiche né informò la polizia e le autorità locali affinché facessero evacuare l’area. Per almeno un’ora i manager dell’impianto rimasero con le mani in mano. Alla fine un operaio suonò l’allarme per avvisare gli altri del pericolo. Il disastro di Bhopal non fu un “incidente”, ma il risultato di una deliberata indifferenza verso la sicurezza in un impianto chimico di una città densamente popolata.

Valori diversi

Nel 1989 la Union Carbide accettò di pagare risarcimenti per 470 milioni di dollari, una miseria. L’azienda dichiarò che, poiché l’impianto era gestito dalla sua affiliata indiana, non aveva responsabilità giurdiche per il disastro. John Musser, un portavoce dell’azienda, disse che la Union Carbide si assumeva solo la “responsabilità morale”, niente di più. Ma l’azienda possedeva più della metà delle azioni dell’impianto di Bhopal e si era occupata della sicurezza dell’impianto, mandando le sue squadre di ispettori e vigilanti. Nel 1994 la Union Carbide tagliò i ponti con la sua affiliata indiana e nel 2001 è diventata interamente di proprietà della Dow Chemicals.

La Dow sogna da sempre più libertà per le grandi aziende. Nel 1972 il presidente statunitense Richard Nixon incontrò i dirigenti delle aziende più importanti del paese per discutere del futuro dell’economia mondiale. Carl Gerstacker, a capo della Dow Chemicals, commentò: “Ho sognato a lungo di comprare un’isola che non ap- partenesse a nessuna nazione, un terreno senza obblighi nei confronti di alcuna società dove mettere il quartier generale della Dow Company ”. Secondo Gerstacker le grandi aziende non dovevano essere soggette ad alcun controllo, né sulla gestione dei lavoratori né sul rispetto dell’ambiente. Dovevano avere il permesso di essere antisociali.

Dieci anni più tardi, dopo il disastro di Bhopal, l’atteggiamento di questi manager verso i popoli del sud del mondo fu chiarito da un rappresentante dell’azienda chimica American Cyanamid. L’uomo fece notare con noncuranza che il numero di morti a Bhopal non doveva essere preso troppo sul serio perché gli indiani non condividevano “con i nordamericani la stessa filosofia sull’importanza della vita umana”. Perché la Dow o la Union Carbide dovevano essere ritenute responsabili quando da un lato avrebbero dovuto essere libere da qualsiasi forma di responsabilità in generale, e dall’altro la gente in India non rispettava la vita allo stesso modo degli americani?

Il 1 febbraio del 1992 il pubblico ministero del tribunale di Bhopal dichiarò Warren Anderson latitante. Anderson si rifiutò di tornare in India per affrontare il processo e nel 2002 Greenpeace gli notificò il mandato d’arresto. Nel 2003 l’India contattò il governo statunitense per ottenere la sua estradizione ma Washington rifiutò, sostenendo che le prove non erano sufficienti a incriminare Anderson per il disastro. Il 31 luglio del 2009 Prakash Mohan Tiwari, pubblico ministero di Bhopal, ha spiccato un nuovo mandato d’arresto per Anderson, il quale però è rimasto sempre negli Stati Uniti, al riparo dai tribunali indiani. Non solo: il governo indiano ormai sembra aver deciso che i suoi nuovi “rapporti strategici” con gli Stati Uniti sono molto più importanti della giustizia per le decine di migliaia di abitanti di Bhopal. Secondo Ronen Sen, ambasciatore indiano negli Stati Uniti dal 2004 al 2009, i “legami probatori” tra Anderson e il disastro del 1984 dovevano essere chiariti dall’Indian central bureau of investigations (Cbi). Nel 2010 il funzionario del Cbi in pensione B. R. Lall ha rivelato che il ministro degli esteri indiano aveva chiesto al Cbi di “rallentare” sul caso Anderson.

La cospirazione è maturata durante i vertici del 2005 e del 2006 del Forum degli amministratori delegati indiani e statunitensi. Dopo il vertice del 2005, l’amministratore delegato della Dow, Andrew Liveris, ha scritto all’ambasciatore Sen dicendo che “per facilitare la partnership strategica tra India e Stati Uniti”, bisognava “risolvere una questione legale specifica: il problema Bhopal”. L’anno dopo il governo indiano si è spinto ancora oltre.

Nel 2006 Liveris ha scritto a Sen: “Tenuto conto delle dichiarazioni dei rappresentanti del governo indiano, secondo cui la Dow non è responsabile del disastro di Bhopal e non sarà perseguita dal governo di New Delhi, sarà importante proseguire su questa strada e garantire azioni concrete e coerenti con queste parole”. In particolare, l’India doveva ritirare le accuse contro la Dow e accantonare la richiesta di estradizione per Anderson. L’opinione di Liveris è stata appoggiata dal presidente del forum degli amministratori delegati, Ratan Tata, in una lettera al primo ministro indiano Manmohan Singh. Nella lettera Tata si è offerto di creare un fondo indiano per la bonifica di Bhopal, mettendo la Dow Chemicals al riparo perfino da questo obbligo.

La storia completa della complicità del governo indiano con la Dow Chemicals e il governo di Washington per negare giustizia agli abitanti di Bhopal deve ancora essere raccontata. Quello che si sa è scandaloso. Nel frattempo Anderson è morto. A Bhopal, Rampyari Bai, un attivista vittima del gas di Bhopal, ha detto: “Di certo otterremo i nostri diritti. Non mi arrenderò finché vivrò, finché il mio cuore non smetterà di battere. Non mi ritirerò dalla battaglia”.

Vijay Prashad è uno storico e giornalista indiano. In India sta per uscire il suo ultimo libro, No free left: the futures on Indian Communism (Leftword Books).

Da sapere

 Se accadesse oggi

Anche se è stato il peggior disastro industriale della storia – lo scrittore Suketu Mehta, autore di molti articoli sull’argomento, l’ha definito “l’11 settembre indiano” – in occidente la tragedia di Bhopal non ha avuto l’eco che avrebbe oggi. Negli anni ottanta, infatti, le informazioni non circolavano così facilmente e Twitter non esisteva. Oltre al fatto che la vicenda ha macchiato la reputazione delle multinazionali, fa riflettere il rifiuto della magistratura statunitense di affrontare le gravi conseguenze di un’industrializzazione senza regole. “Cos’è cambiato da allora? Reagiremmo diversamente oggi?”, si chiede Businessweek.

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