Argentina – Sfiniti dalla crisi: tra impoverimento, lotte e limiti dell’autogestione

Buenos AiresJean-Baptiste Mouttet, Mediapart, Francia, traduzione a cura di Internazionale

Dopo anni di crescita, l’Argentina rischia una nuova bancarotta. Gli abitanti dei quartieri poveri di Buenos Aires sentono di rivivere sempre la stessa storia, senza possibilità di riscattarsi

Patria o avvoltoi”: è la frase scritta in bianco e celeste, i colori dell’Argentina, su un muro scrostato di Buenos Aires. Forse si riferisce ai cosiddetti fondi avvoltoio: fondi che comprano quote di debito dei paesi economicamente depressi, per incassare gli interessi altissimi. Juana Canteros, 59 anni, alza le spalle e risponde: “Si parla molto dei fondi avvoltoio, ma la realtà è quella che viviamo qui”. Con la mano indica il grande ingresso dell’assessorato per il rafforzamento familiare della città autonoma di Buenos Aires.

L’ufficio è pieno di gente e Canteros è infastidita dal fatto che gli impiegati trattano male la gente in difficoltà. “Io non ho una casa e senza casa non posso trovare lavoro. Vengo qui tutti i giorni”, spiega. L’ufficio è aperto dalle nove di mattina alle tre del pomeriggio, ma la fila comincia a formarsi già all’alba. Juana Canteros ha lavorato in Europa, ma da quattro anni è disoccupata. “Non vediamo nessuna via d’uscita e siamo di nuovo poveri. Se potessi tornare in Francia o in Spagna, partirei senza pensarci un attimo”, afferma, mentre allo sportello un uomo brontola. “Non avevo mai visto tanta violenza e tanta gente, anche i bambini, dormire per strada”. Secondo i dati resi pubblici dall’ong Médecins du monde, nel 2012 a Buenos Aires più di sedicimila persone vivevano per la strada.

Nell’agosto del 2013 la corte d’appello di New York ha condannato l’Argentina a rimborsare titoli di stato per 1,3 miliardi di dollari ai fondi statunitensi Nml Capital e Aurelius Management. Il 16 giugno di quest’anno la corte suprema statunitense ha respinto il ricorso del governo argentino, che si opponeva al rimborso totale del debito. Da mesi nel paese si parla solo del rischio di un nuovo default. In totale il debito che Buenos Aires deve rimborsare potrebbe ammontare a 120 miliardi di dollari (95,6 miliardi di euro): una cifra che significherebbe la bancarotta del paese.

Sotto gli occhi di tutti

La presidente Cristina Fernández, del Partido justicialista, ha rinviato il pagamento del debito e ha cominciato un braccio di ferro contro i fondi d’investimento trasfor- mandolo in una lotta contro l’imperialismo statunitense. L’ultimo episodio risale al 31 ottobre, quando la presidente ha denunciato il conflitto d’interessi di un’alta funzionaria degli Stati Uniti, accusata di far parte di una lobby che difende i fondi avvoltoio.

Questa politica aggressiva di Buenos Aires sembra dare buoni risultati. Infatti, nonostante le difficoltà economiche del paese, il 40 per cento della popolazione approva l’amministrazione di Cristina Fernández. Nell’ottobre del 2015 ci saranno le elezioni presidenziali e la relativa popolarità della presidente dovrebbe aiutarla a passare il testimone più serenamente, visto che non può candidarsi per un terzo mandato.

“Il discorso del governo contro i fondi avvoltoio è solo propaganda politica, un nuovo mezzo per criticare il cosiddetto imperialismo”, afferma arrabbiato Santiago López Medrano, assessore per il rafforzamento familiare. La città di Buenos Aires, autonoma rispetto al governo centrale, è amministrata dal 2007 da Mauricio Macri, un politico e imprenditore critico verso il governo di Fernández.

Al piano terra dell’assessorato la calma dell’ufficio di López Medrano sembra lontana: un centinaio di persone aspetta il proprio turno, i più fortunati sono seduti, mentre gli altri si appoggiano al muro pronti a correre allo sportello. Vengono qui sperando di ottenere un sussidio per la casa, dei prestiti per la piccola imprenditoria o i benefici previsti dai programmi sociali.

I cosiddetti fondi avvoltoio sono solo la ciliegina sulla torta della crisi argentina: gli anni della crescita economica sono finiti e la recessione è sotto gli occhi di tutti. Tra il 2003 e il 2011 il paese poteva vantare una crescita media del 7,5 per cento. Ma nel 2012 c’è stato un brusco rallentamento, con un tasso di crescita dello 0,9 per cento. Nel 2013 la ripresa è stata del 3 per cento, ma per il 2014 la Banca mondiale non ha previsto miglioramenti.

Quando raccontano le loro difficoltà i porteños, gli abitanti di Buenos Aires, parlano sempre dell’inflazione. I dati sono discordanti: secondo l’Istituto nazionale di statistica e censo (Indec), il governo ha già annunciato un’inflazione del 20 per cento per il periodo da gennaio a settembre del 2015. Invece l’indice Congreso, citato dai parlamentari dell’opposizione, ha previsto un’inflazione del 27 per cento.

Nessuna possibilità

“L’altro giorno sono andata a fare la spesa e ho pagato 8 pesos un litro di latte. Quando sono tornata nel negozio di alimentari, pochi giorni dopo, il latte costava 10 pesos”, spiega Blanca Bajo, 44 anni. “Appena i prezzi mi sembrano bassi, corro al super- mercato e faccio scorte”. Come ogni giorno, Blanca e la sua famiglia mangiano in questo centro di quartiere, gestito da un’associazione che offre pasti gratuiti. Due grandi tavoli, con tovaglie di plastica a fiori e un centinaio di coperti, accolgono gli abitanti della villa miseria (il quartiere povero) della parte meridionale di Buenos Aires. L’associazione fornisce più di trecento pasti al giorno.

Nel quartiere ci sono poche strade asfaltate e ogni auto che passa solleva nuvole di polvere. A cinquanta metri dalla mensa, le case in pietra rossa lasciano il posto a un viale infinito di baracche in lamiera e cartone. Blanca, che ha otto figli, racconta: “Nel 2001 mi alzavo ogni mattina senza sapere cos’avrei preparato da mangiare ai miei bambini. Oggi la situazione è diversa, ma non ho una vita più facile. Ho studiato ragioneria perché sognavo di lasciare il quartiere, eppure mi ritrovo nella stessa condizione di mia madre: sono disoccupata e devo cavarmela da sola”.

Per il governo la povertà riguarda meno del 5 per cento della popolazione. Alcune organizzazioni sostengono che un quarto degli argentini è povero, mentre l’università cattolica argentina parla addirittura del 27,5 per cento. In ogni caso, la percentuale di persone povere è più bassa rispetto a quella della crisi del 2001, quando più della metà degli argentini si ritrovò senza nessun risparmio.

Secondo Blanca la società argentina non le ha dato nessuna possibilità: “Quando vieni da una zona di periferia è difficile trovare lavoro. Le aziende preferiscono assumere persone che abitano nei quartieri più ricchi”. Blanca è preoccupata per il prezzo al chilo del cartone: da un peso rischia di scendere a 25 centesimi. È un problema, visto che nel suo quartiere molte famiglie dipendono dalla raccolta del cartone. Per le vie della capitale girano ancora migliaia di cartoneros, alla guida di carretti trainati da un cavallo o spinti a mano. Frugano nella spazzatura dei palazzi, dei ne- gozi o delle grandi aziende per recuperare gli imballaggi da rivendere per il riciclo.

Autogestione

Non tutti gli abitanti delle zone più povere sono pessimisti come Blanca. Nel quartiere Villa 20, sempre nella parte meridionale della città, Manuel Grites, 29 anni, beve il mate all’ombra della tenda di un negozio di alimentari: “Prima non c’era nessuna possibilità, oggi se vuoi lavorare riesci a trovare un posto”, dice prima di lodare i programmi sociali di Cristina Fernández e di suo marito Néstor Kirchner (presidente dal 2003 al 2007 e morto nel 2010). Ma come Blanca, anche Manuel è spaventato dall’aumento dei prezzi. Un’altra cosa che lo preoccupa, e che è sulla bocca di tutti, è il paco: “Lo prendono sempre più ragazzi, anche nei quartieri ricchi”.

Questa droga dei poveri (una dose co- sta meno di un peso) è apparsa durante la crisi del 2001. Viene preparata con residui di cocaina. Il paco si fuma come il crack e provoca una dipendenza quasi immediata. Sta distruggendo la gioventù del paese. In uno dei vicoli deserti di Villa 20 un ragazzo con una felpa con il cappuccio bianco nasconde la sua pipa quando sente che arrivano degli estranei.

Più lontano una porta si accosta e nell’ombra s’intravedono tre persone che fumano. Diego Toledo fa l’autista e racconta che, dalla fine degli anni novanta, il quartiere è diventato molto più pericoloso. Da allora non ci sono stati miglioramenti: “Appena ho avuto la possibilità mi sono trasferito in un altro quartiere. Non volevo che i miei figli crescessero qui”. Ma Diego torna spesso a Villa 20, perché i genitori continuano a vivere lì. Secondo la polizia, nel 2013 a Buenos Aires più di 160 persone sono state uccise durante un furto.

Nei quartieri poveri la gente è fatalista, ma gli argentini sanno mobilitarsi. Quest’anno nel paese ci sono stati due scioperi generali, ad aprile e ad agosto. E di fronte alla chiusure delle fabbriche, i lavoratori stanno riscoprendo la tradizione dell’autogestione. La mattina dell’11 agosto i lavoratori dell’azienda tipografica Pr Donnelley hanno letto sbalorditi un cartello affisso all’entrata: “Con nostro grande rammarico dobbiamo informare che, a causa di una crisi senza precedenti e dopo aver esaminato tutte le possibili alternative, siamo costretti a interrompere le nostre attività in Argentina. Chiediamo la chiusura dell’impresa dopo 22 anni di attività nel paese”.

Di colpo quattrocento dipendenti si sono trovati senza lavoro. La Pr Donnelley, con sede a Chicago, dà occupazione a 58mila persone sparse in tutto il mondo. Il governo argentino, attraverso l’Amministrazione federale dei redditi pubblici (Afip), ha verificato che i conti dell’azienda erano buoni: a dicembre il passivo dell’impresa era di 140 milioni di pesos (13 milioni di euro), mentre l’attivo arrivava a 180 milioni. Poi ha citato in giudizio la multinazionale per chiusura ingiustificata dello stabilimento. “Eravamo andati a lavorare come tutti i giorni”, racconta Falundo Gómez. “Appena abbiamo visto il cartello ci siamo riuniti in assemblea davanti alla fabbrica e abbiamo deciso di continuare a lavorare”.

Così è nata la cooperativa MadyGraf. Oggi duecento lavoratori sono impegnati a far funzionare le macchine della tipografia: le rotative continuano a girare sotto l’occhio benevolo degli operai. E alcuni clienti, come Editorial Atlantida che pubblica diverse riviste, sono rimasti fedeli all’azienda.

“Non abbiamo ancora ottenuto il diritto di fatturare direttamente ai nostri clienti. Stiamo anche aspettando che il governo espropri la Pr Donnelley e che, dopo la nazionalizzazione, ci consegni le chiavi”, spiega il macchinista Leonardo Grosso, che sfoggia una serie di tatuaggi sulle braccia. Tra il personale dell’amministrazione solo un’impiegata si è unita agli operai. Melanie Mencia è impegnata a fare un preventivo su un computer portatile: “Ho esitato, ma poi ho deciso di rimanere. Mi sento vicina ai ragazzi. Gli altri impiegati dell’amministrazione hanno avuto paura. Ho cercato di convincerli a restare, ma preferiscono battersi per ottenere le loro indennità”. Qualche volta alcuni studenti vengono a dare una mano agli operai. “Ora c’è un altro tipo di tensione. Non abbiamo più i capi che ci stanno con il fiato sul collo, ma vogliamo avere successo solo per noi stessi. Ci battiamo per salvare i nostri posti di lavoro, ma anche per costruire una società più giusta”, ribadisce Leonardo. Lo scorso ottobre migliaia di quaderni realizzati dalla cooperativa sono stati distribuiti alle scuole più bisognose della città.

I lavoratori più anziani sono più pragmatici: “Ho 60 anni, non potrei trovare un altro lavoro e sono bravo nel mestiere che faccio”, dice Carlos Primitiva Balbontín sorvegliando la rotativa che stampa riviste per bambini.

Il 6 novembre i deputati della provincia di Buenos Aires hanno approvato l’espro- priazione dell’impresa e la sua gestione da parte di una commissione nominata dai dipendenti. La proposta adesso dovrà passare al senato.

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