Ucraina – La sindrome di Monaco

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Forse mai come nel caso di specie un accordo di pace, o di tregua, ha ricevuto un’accoglienza tanto fredda da parte di quasi tutti gli osservatori di politica internazionale. Se c’è stato un barlume di ottimismo, esso è durato davvero poco. Già venerdì i maggiori quotidiani europei e statunitensi mostravano di non avere dubbi nell’additare Putin come il vero vincitore del summit di Minsk. «Alla fine, è lui che vince», titolava Libération venerdì scorso. E non a torto. Sulla performance bielorussa di Angela Merkel i pareri dei commentatori sono invece discordi: alcuni la coinvolgono nel generale disastro della (inesistente) politica estera europea, altri all’opposto ne rimarcano l’accresciuta forza, anche a scapito dell’alleato statunitense. Ad esempio, Gian Enrico Rusconi, uno dei più quotati germanisti del nostro Paese, è disposto a concedere altro credito alla Cancelliera di Ferro: «L’Europa si trova esposta e in serie difficoltà lungo tutto il suo confine geopolitico orientale e sudorientale. Dall’Ucraina, alla Libia, passando per la Grecia. Tre crisi di natura e gravità molto diverse ma micidiali nel loro convergere. Mostrano impietosamente la fragilità politica dell’Unione europea nel farvi fronte. Forse che la Germania della Merkel può porvi qualche rimedio? Per fortuna dunque c’è la Germania della cancelliera Merkel?» (La Stampa, 15 febbraio 2015). La risposta di Rusconi è problematicamente positiva.

Detto en passant, l’opinionista della Stampa fa molto bene a mettere insieme quelle tre crisi, non solo perché esse in qualche modo convergono su un identico punto di caduta, mettendo alla prova l’hegeliana legge dialettica della quantità che, superato il punto critico, determina nella cosa un salto qualitativo; ma soprattutto perché quelle crisi sorgono sulla base di un sistema sociale che ormai abbraccia l’intero pianeta e che è attraversato da contraddizioni e conflitti sempre più intensi e profondi. Basti pensare alla genesi recente della crisi libica: i raid aerei francesi contro il regime di Gheddafi nel marzo 2011. Oggi Romano Prodi inveisce contro la «sconsiderata» iniziativa di Sarkozy, appoggiata obtorto collo anche dal riluttante Berlusconi, ma allora dal fronte antiberlusconiano fu tutto un fiorire di commenti sarcastici su un Cavaliere Nero azzoppato anche sul fronte geopolitico. Adesso, la minaccia dello Stato Islamico portata al cuore dell’«Occidente Crociato» offre al Belpaese l’occasione per riprendersi dallo scacco subito dai cugini d’Oltralpe e difendere in modo più attivo (militare) i suoi vitali interessi economici e geopolitici.

Anche il civettare di Tsipras con la Russia e con la Cina in funzione antitedesca legittima, a mio avviso, la trinità critica (Ucraina, Libia e Grecia) proposta da Rusconi. Si tratta, infatti, di un civettare che trasuda mistificazione e violenza da tutti i pori. Checché ne dicano i tifosi italioti del nuovo governo greco.

In generale, il processo sociale capitalistico scuote tutto il pianeta, mettendo in crisi i vecchi equilibri sistemici sia nelle aree più sviluppate, sia in quelle meno sviluppate: vedi le cosiddette “Primavere Arabe”. Si entra in crisi sia per “troppo capitalismo”, sia per “troppo poco capitalismo”, secondo la legge dell’ineguale sviluppo del Capitalismo che qui è sufficiente evocare. Ma ritorniamo al summit di Minsk.

Alla fine, l’«irresponsabile» politica del fatto compiuto praticata dal Presidente russo avrebbe prevalso sulle indecisioni e sulle divisioni che minano il fronte occidentale, il quale dopo una debole resistenza diplomatica si sarebbe acconciato a un compromesso al ribasso a spese di Kiev – e, in prospettiva, di Varsavia e delle capitali baltiche. E questo, per pavidità, per opportunismo e per mancanza di una vera strategia unitaria. Anziché tenere duro e mostrare i muscoli, il solo linguaggio che lo Zar di Mosca sarebbe in grado di comprendere, l’Occidente avrebbe ancora una volta tradito i suoi valori nella vana illusione che una politica di appeasement con il nemico possa indurre questo a più miti consigli. Ma l’arrendevolezza eccita l’orso, anziché placarlo, e la fame, com’è noto, «vien mangiando»: quanto è grande la fame di “spazio vitale” di Vladimir?

conferenza-monaco1938Ecco insomma riappare per l’ennesima volta nel dibattito politico internazionale lo «spirito di Monaco», con allusione fin troppo scoperta alla Conferenza che nel 1938 si tenne nella città tedesca con piena soddisfazione degli appetiti territoriali del Führer. A fare le spese dell’aggressività dei tedeschi e dell’arrendevolezza di francesi e inglesi fu allora la Cecoslovacchia, che dovette cedere al Terzo Reich una parte del suo territorio abitato da persone di etnia tedesca. La rivendicazione tedesca dei Sudeti apparve a Mussolini, Chamberlain e Daladier comprensibile e tutto sommato accettabile, soprattutto alla luce dell’imperativo categorico riconosciuto da tutte le parti in causa: il mantenimento della pace in un’Europa ancora segnata dalle cicatrici della Grande guerra. La pace ha vinto, proclamò il pomposo Duce degli italiani, allora ai vertici della popolarità; la cessione dei Sudeti soddisfa completamente le rivendicazioni della Germania, proclamò Hitler. Chamberlain e Daladier pensarono di aver acquistato quantomeno tempo, utile a preparare le rispettive nazioni all’urto bellico che appariva comunque incombente. Un mese dopo il Führer dava l’ordine di «inglobare tutta la Cecoslovacchia», e siccome la fame vien mangiando, nel marzo del ‘39 la Wermacht occupa il territorio di Memel in Lituania mentre Hitler rivolge alla Polonia rivendicazioni territoriali che Varsavia respinge prontamente al mittente. Il 27 agosto dello stesso anno Germania a Unione Sovietica firmano un accordo di non aggressione, con annesso protocollo segreto che definisce le reciproche sfere di interessi nell’Europa orientale. Il seguito della storia è noto.

Minsk 2015 come Monaco 1938? Donetsk e Lugansk come i Sudeti? Hitler come Putin? Merkel e Hollande come Chamberlain e Daladier? Molti la pensano così, e già un anno fa l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton dichiarava quanto segue: «L’operato di Vladimir Putin in Crimea ricorda quello di Hitler prima della Seconda Guerra Mondiale. Quello che sta accadendo in Ucraina ha qualcosa di familiare. È quello che Hitler fece negli Anni Trenta. A tutti i tedeschi “etnici”, i tedeschi di ascendenza che vivevano in Cecoslovacchia, in Romania e in altri luoghi, Hitler continuava a dire che non erano trattati bene. Diceva: “devo andare a proteggere il mio popolo”. La missione di Putin appare quella di voler ripristinare la grandezza russa, riaffermando in particolare il controllo sui Paesi dell’ex Unione Sovietica. Quando guarda l’Ucraina, Putin vede un luogo che crede essere, per sua natura, parte integrante della “Madre Russia”». L’ultima parte del ragionamento potrebbe essere sottoscritto dal Presidente russo, il quale non ha mai fatto mistero di voler in qualche modo ripristinare lo spazio vitale che la Russia ha perso in seguito al crollo dell’Unione Sovietica: le forme politico-ideologiche dell’Imperialismo passano, la sostanza di quell’Imperialismo rimane, e rivendica i suoi diritti. Contro altri diritti, egualmente legittimi sulla base della vigente struttura sociale del pianeta.

Qui mi permetto la solita (antipatica?) autocitazione: «Quando Putin dichiarò, all’inizio della crisi in Crimea, che Mosca avrebbe difeso con ogni mezzo la vita e gli interessi dei cittadini russi ovunque essi vivano, a molti osservatori di politica internazionale e a molti storici balenò subito alla mente la Germania di Hitler affamata di “spazio vitale”. Una sorta di riflesso condizionato che a mio avviso ha un suo fondamento, naturalmente cambiando quel che c’è da cambiare, come è sempre giusto fare quando si mettono a confronto differenti eventi storici. Ciò che tuttavia rende legittimo, almeno ai miei occhi, l’accostamento azzardato dalla Clinton è la natura imperialistica dei due fatti storici. Natura che ovviamente accomuna tutti i protagonisti di ieri e di oggi, compresi gli Stati Uniti d’America, i quali dalla Prima guerra mondiale in poi hanno indossato i panni dei paladini della democrazia e della civiltà occidentale» (Due parole sulla Crimea, 16 marzo 2014).

Scriveva Charles Urjewicz nel 1994: «Venticinque milioni di russi vivono fuori della Russia e, da un giorno all’altro, si sono trovati ad essere quasi degli stranieri; vivono nel cosiddetto “estero vicino” [11 milioni in Ucraina secondo il censimento del 1981], formando una sorta di diaspora nelle province della Russia […] La Russia non possiede i mezzi per accogliere, e ancora meno per integrare, questi immigrati sui generis» (Il gigante senza volto, Limes, 1/94). Nel frattempo la Russia è diventata più forte, grazie soprattutto agli alti prezzi delle materie prime, petrolio e gas in primo luogo, che abbondano nel suo sottosuolo, e questo ha notevolmente accresciuto la sua forza di attrazione verso l’Estero Vicino, a cominciare dall’Ucraina, sottoposta appena due anni dopo la proclamazione d’indipendenza (24 agosto 1991) a forti tensioni sociali (crisi dell’industria pesante e del complesso industriale militare di matrice sovietica) ed etniche (Galizia e altre regioni occidentali versus Crimea* e altre regioni orientali). Nonostante l’esito univoco, a favore di un’Ucraina «indipendente, pluralista e democratica», del referendum sull’indipendenza del dicembre 1991, la tenuta dell’unità nazionale del Paese è stata sempre appesa a un filo, che adesso si è spezzato nel peggiore dei modi. La rapida discesa dei prezzi delle materie prime degli ultimi mesi ha d’altra parte riproposto la debolezza strutturale dell’imperialismo russo, la cui capacità attrattiva deve necessariamente evolversi qualitativamente attraverso una profonda ristrutturazione di tutta l’economia russa. Più facile a dirsi che a farsi, come sa bene l’energico Vladimir.

* Carmela Giglio offre una interessante lettura della decisione presa da Khruščëv nel 1954 di “regalare” la Crimea all’Ucraina: «Tra le possibili spiegazioni della mossa del Cremlino, spicca quella che Mosca abbia usato la Crimea per aizzare i popoli musulmani contro Kiev, ennesima versione del comandamento divide et impera. Fino alla deportazione voluta da Stalin nel ’44, la penisola era stata la terra d’origine e d’elezione dei tartari di Crimea. Mosca ha così buon gioco a fomentare un “imperialismo” ucraino cedendo alla repubblica una regione che per diritto spetterebbe ai tartari. Inoltre, considerando la particolare animosità spesa contro la Turchia nella campagna propagandistica per la “riunione” di mosca e Kiev, la cessione della Crimea può rientrare nei piani russi di esercitare pressioni su Ankara servendosi dell’Ucraina. Gli ucraini, dal canto loro, pagano a caro prezzo questo regalo di Mosca, fornendo larga parte della manodopera necessaria per colonizzare le terre vergini della Siberia e del Kazakhstan. Sono gli anni in cui la russificazione e la slavizzazione delle estreme regioni sovietiche, già iniziata nel ’41, raggiunse la punta massima. […] La politica dei nuovi insediamenti favorì le popolazioni slave contro quelle non slave dell’Unione Sovietica. Di questo complesso gioco la Crimea è una delle pedine» (La fatal Crimea, Limes, 1/94). Il regime sovietico seppe muovere con estrema perizia la leva nazionale ed etnica per indebolire le spinte centrifughe sempre latenti e incombenti e rafforzare il potere centrale.  Inutile dire che tale perizia fu causa di oppressione, di sfruttamento e di milioni di morti, fatti passare sotto silenzio anche dai moltissimi stalinisti made in Italy.

da https://sebastianoisaia.files.wordpress.com

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