Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo – parte 5

Continua da Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo (parte 4)

31. La chimera del panarabismo

Pezzo su pezzo, le potenze occidentali venivano completando un poderoso sbarramento sulle vie di accesso russo al Medio Oriente. La cessione delle armi all’Egitto era il tentativo della Russia di rompere l’accerchiamento e di attestarsi alle spalle del nemico. Di qui il contrattacco anglo-americano in Persia, l’unica potenza confinante con la Russia che ancora si teneva fuori dal patto anglo-turco-iracheno-pakistano.

Mentre in Europa la linea di demarcazione fra i due blocchi era chiaramente tracciata e stabilita non si può dire lo stesso per l’area mediorientale dove gli Stati arabi per la loro posizione strategica e le immense riserve di petrolio costituivano la posta delle rivalità tra i blocchi. Gli Stati Uniti tenteranno, almeno all’inizio, di prevalere con l’aiuto economico e con le alleanze militari indirette, mentre la Russia appoggerà la Siria e l’Egitto soprattutto con la fornitura di armi.

Nel mondo arabo, ad onta dell’unità etnica e linguistica, la centralizzazione del potere politico era tutt’altro che una realtà. Gli arabi erano racchiusi entro Stati prefabbricati, cioè fabbricati dall’imperialismo e dai suoi agenti, divisi da ignobili questioni dinastiche, pidocchiosamente attaccati ai loro interessi particolari, divorati vivi dai manigoldi dei monopoli capitalistici stranieri, invischiati nelle mortifere alleanze militari dell’imperialismo. Gli Stati arabi non solo non incuteranno timore agli imperialisti, ma si faranno pedine dei loro giochi.

L’elevazione della “nazione araba” in uno Stato unitario steso dall’Iraq al Marocco sarebbe stato certamente – nel quadro borghese – una aspirazione rivoluzionaria. Ma l’ideologia e la politica del panarabismo di tipo nasseriano era lungi dal rappresentare un movimento rivoluzionario di massa: non si accompagnò ad alcun rivolgimento sociale, limitandosi ad innestare nella stessa struttura sociale su cui poggiava la monarchia, un regime politico che differiva da quello antico solo negli orientamenti di politica estera, a loro volta resi possibili unicamente dall’urgere di nuovi rapporti di forza tra le grandi potenze mondiali. La pretesa rivoluzione del 1952 neppure sfiorò gli strati profondi della società egiziana, che continuarono a vivere nella gabbia di rapporti produttivi arretratissimi, e non espresse nemmeno la prepotente volontà di ascesa di una borghesia degna di questo nome.

È incontrovertibile che contro la dominazione dell’aristocrazia latifondista, i cui rappresentanti vivevano nel lusso al Cairo e ad Alessandria, il regime non alzò un dito. La redenzione dei fellah nei miserrimi villaggi nilotici, dove trascinavano un’esistenza atroce insidiata dalla fame e dalle malattie, fu affidata ad un problematico piano di colossali opere di irrigazione che avrebbe dovuto aumentare in un incerto avvenire la terra coltivabile. Una rivoluzione borghese “fino in fondo” all’epoca dell’imperialismo è ancora più irrealizzabile che in passato se i nuovi poteri subentrati ai vecchi non nascono sull’onda di grandiosi movimenti di masse sfruttate e non poggiano sulla loro forza armata. In realtà, nei paesi mediorientali molte monarchie feudali si trasformeranno senza grandi scosse in monarchie borghesi continuando a governare sotto nuove spoglie. E anche dove la monarchia è stata sostituita dalla repubblica l’avvenimento è da considerare il frutto di rivolte militari ristrette piuttosto che di movimenti politici di massa.

Seguendo il filo degli avvenimenti degli anni Cinquanta, che videro numerosi scioperi operai in Libano, Iraq, Giordania, il fatto più importante è del luglio 1952, quando in Egitto, dopo diversi mesi di grandi dimostrazioni popolari e importanti scioperi operai culminati nello sciopero generale del gennaio, re Faruk è costretto ad abdicare dalla sollevazione dell’esercito guidato dal gruppo dei “Liberi Ufficiali”. Sempre nel 1952 in Libano va al potere Camille Chamoun, personaggio legato a doppio filo all’occidente e amicissimo del re Abdullah di Giordania, assassinato un anno prima da un arabo palestinese.

Con la salita al potere di Nasser la politica di nazionalizzazione della repubblica egiziana riprende la bandiera del panarabismo, della grande patria araba unita, cerca di ridare vigore alla Lega Araba costituitasi fin dal 1945, fra Egitto, Arabia Saudita, Yemen, Transgiordania, Iraq, Libano e Siria, che aveva mostrato tutta la sua impotenza, la sua inefficacia, i limiti del federalismo nella guerra del 1948 contro Israele.

Il primo colpo al rinato panarabismo lo darà, come abbiamo visto, l’Iraq quando nel 1954 si alleò alla Turchia, entrata due anni prima nella Nato, per poi aderire, nel 1955, al patto di Baghdad. Nel febbraio del ‘54 una rivolta rovescia in Siria la dittatura di Shishakli, aprendo un periodo di instabilità politica. In Giordania nel 1955 vi furono vasti movimenti popolari contro l’adesione al patto di Baghdad e le elezioni del ‘56 diedero origine ad un governo filo-nasseriano.

Non meno spinose controversie dinastiche e territoriali oppongono l’Arabia Saudita alla Giordania, la pupilla degli inglesi, che occupa i territori di Maan e Aqaba, dei quali la prima si considera defraudata. Un cenno a parte merita la questione dell’oasi di Buraimi rivendicata sia dall’Arabia Saudita sia dall’Emirato di Abu Dhabi. Mentre il petrolio dell’Arabia Saudita era nelle mani delle Compagnie americane, gli inglesi avevano sotto la loro protezione l’Emirato. Nel 1952, l’oasi, che si supponeva ricca di petrolio e che vi verrà effettivamente scoperto nel 1958, fu occupata dalle truppe saudite. La Gran Bretagna portò la questione davanti a una corte arbitrale e alla fine dell’anno formazioni militari di Abu Dhabi, guidate da ufficiali inglesi, cacciarono le truppe saudite da Buraimi. L’occupazione militare britannica ottenne il duplice scopo di dare una risposta intimidatoria all’Arabia Saudita, che in quei giorni stipulava il trattato di alleanza con l’Egitto, e di mettere le mani su una zona di interesse petrolifero.

Il 26 luglio 1956 Nasser nazionalizzò il canale di Suez gettando le premesse per la seconda guerra arabo-israeliana. L’Egitto era stretto nella morsa dei grandi imperialismi. L’antefatto fu il rifiuto, il 19 luglio 1956, da parte degli Usa del finanziamento per la costruzione di una grande diga ad Assuan. Il vero motivo era senza dubbio l’arrivo di moderne armi russe e cecoslovacche in Egitto e l’annuncio di una conferenza “neutralista” che riunì nell’isola jugoslava di Brioni (18-20 luglio) Nasser, Tito e Nehru. Il rifiuto americano era un colpo grave al prestigio di Nasser, e in ogni caso il fallimento di un’opera in grado di irrigare un milione di ettari ed accrescere il livello di vita di centinaia di migliaia di famiglie. Così Nasser il 26 luglio nazionalizzò la Compagnia del canale di Suez, proibendo il passaggio alle navi israeliane e a quelle che trasportavano merci verso Israele.

Lo schieramento delle potenze fu immediato. Pressioni per far ritirare la nazionalizzazione vennero subito dai governi francese, cosciente del ruolo di Nasser nella guerra d’Algeria e per il fatto che la Francia deteneva numerose azioni della Compagnia, e britannico, contrariato nel veder prendere questa decisione meno di due mesi dopo la partenza dell’ultimo soldato di Sua Maestà dall’Egitto e per l’importanza del canale per la Gran Bretagna. Gli Stati Uniti stettero un po’ alla finestra, essendo più interessati al mantenimento di buone relazioni con i paesi arabi produttori di petrolio che al transito per il canale. La Russia al contrario appoggiò subito la nazionalizzazione.

Mentre in campo internazionale fervevano incontri e conferenze per risolvere il problema, alla fine di settembre si verificarono degli incidenti alla frontiera giordano-israeliana. La Giordania, esitante fra Nasser e gli Stati hascemiti, era molto agitata e truppe irachene stazionavano nel Nord del paese, con grande disappunto di Israele. Il 24 ottobre, subito dopo le elezioni, che avevano visto il trionfo degli anti-occidentali, la Giordania firmò un accordo con la Siria e l’Egitto che prevedeva la creazione di un comando militare comune. Ancora più grave era per Israele la presenza sul territorio egiziano del Sinai di depositi di armi di provenienza sovietica. A questo punto, prese corpo la logica della guerra per il petrolio insieme all’estremo tentativo di Francia ed Inghilterra di rientrare dalla finestra nella loro vecchia area storica.

Il 24 ottobre diplomatici ed alti ufficiali britannici e francesi si incontrarono vicino Parigi con esponenti del governo israeliano, di cui facevano parte Ben Gurion, Moshe Dayan e Shimon Peres, per concordare una strategia comune. Nella notte tra il 29 e il 30 ottobre, forte della sua superiorità militare, il governo di Ben Gurion decise d’invadere il Sinai. La spedizione israeliana rivelò subito l’estrema debolezza militare dell’Egitto. Il 30 ottobre, la Francia e l’Inghilterra, prendendo a pretesto la paralisi del Consiglio di Sicurezza, lanciarono un ultimatum ai due belligeranti di cessare le ostilità e di ritirare le loro truppe a 16 chilometri dal canale. Israele accettò subito l’ultimatum che l’Egitto invece respinse. Francesi e inglesi speravano di forzare la mano a Nasser, contando sull’astensione degli Stati Uniti – che non erano stati consultati – e della Russia, in preda alle serie difficoltà causate dalla rivolta ungherese.

Sul piano militare Israele raggiunse tutti i suoi obiettivi nel Sinai il 5 novembre. Fin dal 1° novembre il Cairo aveva chiesto alla Siria di far saltare gli oleodotti, il che fu immediatamente realizzato. Gli egiziani affondarono numerose navi nel canale, ma dopo una settimana di bombardamenti degli aeroporti egiziani, che non opposero alcuna resistenza (una nave da guerra egiziana si arrese persino, senza combattere, agli israeliani), il 5 novembre i paracadutisti franco-britannici occuparono Porto Said, poi sbarcarono le truppe.

A questo punto il presidente Usa Eisenhower cominciò a suonare la grancassa: l’intervento franco-britannico significava la rottura del fronte atlantico, era “un colpo fatale inferto alle Nazioni Unite”, una slealtà nei confronti di Washington, una manifestazione di colonialismo per i paesi arabi ed asiatici. A sua volta la Russia, dopo aver invano proposto agli Stati Uniti un intervento militare congiunto, il 5 novembre alle ore 23,30 lanciò un ultimatum alla Francia, alla Gran Bretagna e ad Israele. Il maresciallo Bulganin denunciò l’aggressione e ventilò la possibilità di usare le più moderne armi offensive, soprattutto missili, contro i tre paesi. Il 7 novembre l’Assemblea generale dell’Onu votò con 64 voti e 12 astensioni la creazione di una forza internazionale incaricata di sostituire i franco-britannici. Questi ultimi avevano dunque fallito, dimostrando che l’autonomia di intervento delle potenze medie era ormai quasi nulla. L’intervento anglo-francese, invece di assicurare il controllo internazionale del canale, si concluse con la sua temporanea chiusura a causa dell’affondamento di parecchie navi e alla interruzione degli oleodotti. Per la prima volta l’Europa occidentale assaggiò le restrizioni e fu costretta ad importare carburante dal Texas. Il risultato principale della guerra per Suez fu l’eliminazione quasi totale dell’influenza francese e britannica in quella regione-chiave.

All’inizio del 1957 gli Stati Uniti si fanno nuovamente avanti per consolidare la loro influenza sull’area. Il 5 gennaio Eisenhower presenta al Congresso un piano per la politica americana in Medio Oriente che si articolava in 3 punti: intervenire con massicci aiuti in appoggio dei governi amici; fornire, ad arbitrio del presidente stesso, un sostegno militare a Stati o gruppi di Stati che lo richiedessero; approntare forze militari americane per intervenire direttamente al fianco degli Stati mediorientali minacciati dal “comunismo internazionale”.

Questa politica si concretizzerà nei mesi successivi in Giordania e in Libano. In Giordania un colpo di Stato dell’esercito appoggiato dal re liquidò il governo filonasseriano di Nabulsi, mentre la Sesta flotta americana, di stanza nel Mediterraneo, si dichiarava pronta ad intervenire per salvare l’integrità e l’indipendenza della Giordania. Dieci milioni di dollari furono il premio concesso da Washington al sovrano hascemita in cambio della fedeltà all’occidente. In Libano nel maggio del ‘58, come reazione al governo dittatoriale di Chamoun scoppiava uno sciopero generale che si trasformò in una vera e propria insurrezione che incendiò l’intero paese.

In Iraq, all’alba del 14 luglio 1958, due brigate dell’esercito iracheno comandate dal colonnello Abdel el-Kassem, sorrette dall’appoggio popolare e dai partiti clandestini, si impadronirono dei punti strategici della capitale mentre la radio trasmetteva le note della Marsigliese. La famiglia reale fu fucilata e il ministro Nouri al-Said, catturato dalla folla, linciato. La proclamazione della Repubblica metteva fine, insieme alla monarchia, al progetto inglese di una federazione di monarchie arabe. Kassem ritirò l’Iraq dal Patto di Baghdad e denunciò i preesistenti accordi petroliferi, limitando le concessioni alle Compagnie straniere. Inoltre si accostò alla Russia e ai comunisti iracheni.

Per circoscrivere il contagio, le potenze occidentali decisero di procedere ad una operazione militare di vaste proporzioni. Il 15 luglio una flotta di una cinquantina di navi americane, tra cui due portaerei, sbarcano in Libano 10 mila soldati, mentre forti contingenti di paracadutisti inglesi arrivano ad Amman, chiamati da re Hussein di Giordania alle prese con grandi sollevazioni popolari, soprattutto dei profughi palestinesi che costituivano la grande maggioranza della popolazione giordana. Tuttavia inglesi e americani non osarono attaccare direttamente la nuova repubblica irachena temendo una guerra lunga e logorante.

Kassem governerà per cinque anni prendendo qualche provvedimento populista a favore delle classi meno abbienti, ma senza alcun reale mutamento della situazione sociale. Era soprattutto un nazionalista iracheno e perciò la sua politica estera fu ostile all’Egitto, che proprio nel 1958 aveva costituito la Repubblica Araba Unita con la Siria. Anche per Kassem, come per Nasser, valeva il principio della “politique d’abord”, ossia utilizzare la politica estera solo come spettacolo contro l’opposizione interna e per nascondere i fallimenti delle riforme sociali. Ostile ad una unione con la RAU, Kassem combatté il Baath e i nazionalisti filo-egiziani che si organizzavano all’interno. Nel 1959 il presidente riaprì una controversia di frontiera con l’Iran per il controllo del golfo Persico e nel 1961 tentò invano sia di annettere il Kuwait sia di venire a capo dell’insurrezione curda, anticipando quella che sarà la politica di Saddam Hussein negli anni Ottanta. Il colonnello finanziò generosamente l’Fln algerino con i fondi provenienti dall’Iraq Petroleum, di cui nazionalizzò il 90% dei giacimenti che la Compagnia aveva in concessione. Kassem ricevette l’assistenza dei tecnici russi, ma il boicottaggio del petrolio iracheno da parte del fronte unito delle Sette Sorelle fece piombare il paese in una crisi spaventosa. Nel 1963 presero il potere i militari del Baath e fu posto a capo dello Stato Abd al-Salam Arif, un altro protagonista della rivoluzione del 14 luglio, che subentrava a Kassem, ucciso nel corso del putsch.

32. Lo scontro per il petrolio algerino

http://www.beppegrillo.it/immagini/petrolio_di_guerra.jpgIl nuovo ordine petrolifero post-bellico era incentrato sul Medio Oriente e al suo interno le Compagnie anglo-americane si erano autoinvestiste del compito di soddisfare la crescente richiesta mondiale di petrolio. Già nel 1949 le Sette Sorelle controllavano l’82% della produzione e il 76% della raffinazione di tutto l’emisfero occidentale esclusi gli Stati Uniti. Chi non aveva sangue puritano nelle vene trovava enormi difficoltà a sviluppare un’industria petrolifera minimamente indipendente.

Subito dopo la guerra la Francia del generale De Gaulle aveva creato il “Bureau des recherches pétrolières” (Brp) con l’obiettivo di ricostruire l’industria del petrolio distrutta e soddisfare il fabbisogno nazionale attraverso le ricerche petrolifere all’interno dell’impero coloniale francese in Africa. Non potendo contare sulla storica Compagnie française des pétroles (dal 1985 Total) impegnata allora a difendere le sue posizioni nell’Iraq Petroleum Company e nel Medio Oriente, il governo affidò l’incarico ad altre Compagnie statali, fra cui la Société Nationale des Pétroles d’Aquitaine (Snpa), che dopo qualche anno fecero modesti ritrovamenti di petrolio nel Gabon.

Ma la notizia che infiammò la Francia fu la scoperta, nel 1956, in concomitanza con lo scoppio della ribellione algerina, di un consistente strato di rocce impregnate di petrolio nel Sahara orientale francese, nella zona di Hassi Messaoud. I francesi scorsero la possibilità concreta di emanciparsi dal petrolio mediorientale e dall’influenza anglo-americana. La Francia, nonostante le grandi difficoltà ambientali, aveva iniziato la costruzione di alcuni oleodotti per collegare i pozzi di Hassi Messaoud ai porti algerini e tunisini, da dove il petrolio caricato sulle petroliere potesse raggiungere Marsiglia. Lo sforzo francese per arrivare all’indipendenza energetica fu premiato: nel 1961 il petrolio prodotto in varie parti del mondo dalle Compagnie francesi private o sotto il controllo statale copriva oltre il 90% del fabbisogno nazionale. Nell’idea di De Gaulle il raggiungimento di questo obiettivo era legato a un rilancio della grandeur francese, che si concretizzò in una storica apertura verso la Germania e nella firma di un’intesa fra i due Stati a Rambouillet.

Ma, contrariamente ai desideri francesi, gli algerini consideravano il Sahara parte integrante del loro territorio. La guerra di indipendenza dell’Algeria e gli schieramenti che la finanziavano furono fin dall’inizio intrecciati con gli interessi petroliferi. Le Compagnie americane avevano cominciato a finanziare il Fronte Nazionale di Liberazione subito dopo la scoperta dei nuovi giacimenti: l’allora senatore John Kennedy, importante azionista della Standard Oil, aveva chiesto pubblicamente che gli Stati Uniti andassero incontro “all’ansia di libertà e di indipendenza dei patrioti algerini soffocati dalla Francia colonialista”. De Gaulle dovette minacciare di uscire dalla Nato per far cessare i finanziamenti americani. Ma a rendere incerto il futuro del petrolio sahariano c’erano anche le manovre portate avanti dall’Eni per aprirsi un canale preferenziale verso il gas e il petrolio algerini.

In Italia nel dopoguerra i vincitori avevano incaricato Enrico Mattei, proveniente dalla resistenza cattolica, di smantellare l’Agip, la Compagnia petrolifera nazionale creatura del regime fascista. Nella nuova logica di potere postbellica, le Compagnie anglo-americane si opposero con ogni mezzo perché si sviluppasse in Europa una industria petrolifera autonoma. Un chiaro esempio di questa politica fu proprio l’esclusione dell’Agip dai finanziamenti previsti dal piano Marshall che, non ci dimentichiamo, verrà rimborsato dagli acquisti di petrolio fornito dalle Compagnie americane. In Italia c’era poco petrolio, ma in compenso in val Padana c’era abbondanza di gas e Mattei, sfruttando la rete di vendita messa a sua disposizione dalla BP, diede vita a quella industria estrattiva, moltiplicando le trivellazioni e costruendo gasdotti con l’ausilio delle più moderne tecnologie. In soli due anni l’Italia settentrionale si coprì di una rete di seimila chilometri di gasdotti. Nel 1953 l’Agip si trasformò in una holding, l’Eni (Ente Nazionale Idrocarburi), a cui fecero capo tutte le attività nazionali e internazionali legate al petrolio.

Per alimentare l’enorme complesso petrolifero di cui l’Italia si era dotata Mattei finì per pestare i calli al cartello delle grandi Compagnie. Le prime avvisaglie si ebbero in Iran nel 1954, quando la Exxon rifiutò categoricamente l’entrata dell’Eni nel Consorzio internazionale per lo sfruttamento del petrolio iraniano, nonostante Mattei non avesse fatto nulla che si discostasse dalla linea anglo-americana nei giorni dell’embargo petrolifero nei confronti dell’Iran, non aveva cercato contatti con gli agenti di Mossadeq né preso in considerazione le offerte di petrolio a bassissimo prezzo.

Il veto delle grandi Compagnie all’entrata dello Stato italiano nel Consorzio venne considerato da Mattei un “insultante rifiuto”, che spingerà l’Eni a una politica di punture di spillo contro le multinazionali che governavano il mondo del petrolio. Di questi atteggiamenti si inebriarono i nazional-stalinisti nostrani dell’epoca i quali, poco curandosi che a beneficiare delle attività dell’Eni erano principalmente branche industriali gestite da imprenditori privati, si schierarono contro le Compagnie italo-americane che godevano di concessioni in Italia, tirando fuori le non nuove formule della nazionalizzazione e della lotta “nazionale” contro l’imperialismo! Fumo negli occhi a fini elettoraleschi. Che lo Stato incameri una parte o anche tutti gli utili non autorizza a considerare l’ente di Stato su un piano sociale diverso da quello in cui si muovono le imprese private. I rapporti di produzione entro i quali l’Eni svolgeva la sua attività si concretizzavano nel fatto di gestire le forze produttive secondo leggi economiche prettamente capitalistiche, pagando la manodopera con salario, producendo per il mercato e perseguendo il profitto. Considerati su questo terreno comune la Gulf Oil valeva l’Eni.

Per farsi spazio tra i giganti anglo-americani, il tentativo di concorrenza messo in atto dal capitalismo monopolistico di Stato dell’Eni dovette inventarsi una politica innovativa nei confronti dei paesi esportatori. Nel 1957, approfittando del vuoto di iniziative seguito alla crisi di Suez, Mattei perfezionò con il governo iraniano un accordo basato non più sul fifty-fifty, ma su una formula che prevedeva l’anticipo di tutte le spese per la ricerca a carico dell’Eni e, una volta trovato il giacimento, la possibilità per lo Stato produttore di diventare socio paritario versando metà delle spese. Inoltre, sui profitti divisi a metà, l’Eni avrebbe aggiunto un altro 50% in tasse, arrivando così ad una percentuale complessiva 75-25 a favore dell’Iran. L’accordo fece infuriare americani e inglesi i quali protestarono presso il governo italiano denunciando che la destabilizzazione della formula del fifty-fifty rischiava di mettere in pericolo la stabilità del Medio Oriente e gli stessi rifornimenti all’Europa.

Mattei, o perlomeno certi ambienti a lui vicini, era consapevole che non può esserci indipendenza politica senza indipendenza economica, ma questo significava rompere gli equilibri del mercato petrolifero e svincolarsi dalla divisione internazionale del lavoro stabilita dall’imperialismo americano, che aveva lasciato l’Italia fuori dal gioco. Lo scontro tra l’Eni e le Sette Sorelle proseguì a tutto campo, dal Nord Africa alla Russia. Nel 1960, in piena guerra fredda, Mattei ruppe l’embargo commerciale ed economico nei confronti dei russi, firmando un accordo in base al quale l’Urss offriva all’Eni 12 milioni di tonnellate di greggio in quattro anni ad un prezzo di poco superiore al dollaro per barile. In cambio l’Italia avrebbe esportato in Russia 50 mila tonnellate di gomma sintetica, 240 mila tonnellate di tubi della Finsider e apparecchiature della Nuovo Pignone. Il tipo di contratto, basato sullo scambio di merci, costituiva una novità introdotta da Mattei nel mondo del petrolio. I tubi Finsider e le pompe Pignone dovevano servire alla Russia per la costruzione di un oleodotto verso l’Europa centrale.

Mattei fu accusato di aver gettato l’Italia nelle mani dei comunisti. Cominciarono campagne di stampa e dispute legali messe in piedi dal cartello delle Sette Sorelle in combutta con gli avversari italiani di Mattei, che di nemici se ne era fatti tanti, e che si trovavano sia nel campo della politica sia in quello degli interessi privati industriali e finanziari, impersonati principalmente dalle società Montecatini ed Edison, attive nei settori della chimica, gas ed elettricità.

Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu il “fronte” algerino. A partire dal 1959 Mattei aveva iniziato, nell’ambito della sua strategia di penetrazione in Africa settentrionale, a inviare aiuti, soprattutto in natura, al Fronte Nazionale di Liberazione (en passant, la sede per l’Europa del Fronte stava proprio a Roma in locali messi a disposizione dall’Eni), nonché a facilitare i passaggi diplomatici degli algerini verso l’Europa e formare i loro tecnici petroliferi. Il sostegno più importante fornito da Mattei fu quello di elaborare insieme all’Fln le strategie petrolifere societarie e normative da far valere nei confronti della Francia. La strategia dell’Eni non escludeva pregiudizialmente la presenza francese, ma prospettava una titolarità diretta algerina del sottosuolo e la costituzione di un’azienda di Stato in cui potessero collaborare francesi e italiani.

Questa politica disturbava le Compagnie americane e quella francese, allora alla ricerca di un accordo per lo sfruttamento dell’intero Sahara francese. Per De Gaulle il Sahara algerino era “una finzione giuridica e nazionalistica senza fondamento storico”. Niente di più facile che i servizi segreti americani e francesi sapessero che i dossier algerini erano stati preparati dall’Eni. Resta il fatto che nel giugno del 1961 americani e francesi offrirono all’Eni di entrare a far parte del pool, ma Mattei rifiutò, contando sulla sua posizione di forza presso il Fronte da far pesare alla fine della guerra. Risalgono a questo periodo le minacce di morte ricevute da Mattei da parte dell’OAS francese. Egli si affrettò a rilasciare un’intervista al settimanale Nouvel Observateur significativamente intitolata “Sono io un nemico della Francia?”, nella quale ribadiva di aver rifiutato le offerte delle Compagnie francesi e americane per non compromettere la posizione non colonialista dell’Italia verso i paesi produttori di petrolio.

Dopo che De Gaulle, nel marzo 1962, decise di porre termine al conflitto e ci fu la proclamazione della Repubblica algerina, Mattei aprì le trattative per un accordo petrolifero con il nuovo governo indipendente che comprendeva il solito “pacchetto” (75-25 a favore dell’Algeria) e prevedeva la creazione di una società mista e la costruzione di una raffineria in Algeria. Alle trattative partecipò anche un alto funzionario francese, Claude Cheysson, futuro ministro degli Esteri di Mitterrand. Oltre alla partecipazione a tre nei giacimenti petroliferi e di metano, l’accordo prevedeva di realizzare un gasdotto intercontinentale che dal Sahara, attraverso lo Stretto di Gibilterra e la Spagna, arrivasse fino alla Francia e all’Italia. Un progetto da estendere in seguito ad altri paesi del terzo mondo.

Ma l’accordo, che doveva essere ratificato nell’incontro con Ben Bella del 6 novembre 1962, non sarà mai firmato: Mattei morirà nel suo aereo, precipitato per un attentato nell’ottobre di quell’anno. Nel febbraio 1963 il vicepresidente dell’Eni Eugenio Cefis firmò con l’americana Esso un accordo per l’acquisto del gas dalla Libia e tutto il delicato lavoro di collaborazione intessuto con i francesi e gli algerini andò perduto. I giornali algerini e di tutto il terzo mondo accusarono Cefis di tradimento e di filo-americanismo. Enrico Mattei riporterà una vittoria postuma quindici anni dopo la sua morte quando l’Eni firmerà un accordo con la Compagnia di Stato algerina Sonatrach per l’importazione di gas in Italia.

da http://www.international-communist-party.org/

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