Appunti egiziani: tutti i volti della controrivoluzione

CAIRO – di Effedielle

Che fanno gli egiziani quando piove? Se la prendono col governo! Gira che ti rigira, veramente tutto il mondo è paese, e il mio impatto col Cairo al ritorno è tutto condizionato da qualche schizzo di una pioggerellina leggera che però ha praticamente bloccato il traffico per chilometri, almeno sulla strada dell’aeroporto, e si è rivelato uno degli argomenti di conversazione più comuni di questi giorni. Effettivamente, settimane fa le prime piogge forti hanno causato alluvioni serie ad Alessandria e nel Delta, ci sono stati morti, e le inefficienze dello stato si sono rivelate ancora una volta evidenti a tutti. E lo stato che fa quindi? Arresta dei Fratelli Musulmani, presunti colpevoli di aver sabotato le pompe delle fogne di Alessandria per causare danni. È sempre colpa loro. Tipo Marino in Italia.

Però ho l’impressione che siano sempre di meno le persone che credono a queste teorie del complotto, e sempre di più quelli che si stanno scoprendo un po’ alla volta delusi dalle grandi aspettative che aveva suscitato il presidente-generale al-Sisi. I benefici economici del ‘nuovo’ canale di Suez stentano a vedersi. Nessuna riforma ha tentato in modo deciso di combattere la corruzione, né tanto meno di redistribuire ricchezza. Una crisi valutaria serissima ha fatto in poche settimane alzare i prezzi, basta fare la spesa al mercato per accorgersene, e l’Egitto dipende tantissimo dall’importazione, anche e soprattutto di beni essenziali (tipo il grano, di cui è il primo importatore al mondo).

L’attentato all’aereo russo è stato il colpo di grazia. Da una parte ha evidenziato il fallimento del regime e dell’esercito anche nel ruolo che questi dovrebbero saper gestire meglio, quello della repressione e della garanzia di sicurezza. Il Sinai del nord è già da mesi in parte fuori controllo, ormai teatro di una vera e propria guerra a bassa intensità. Dall’altra il Sinai del sud, la parte turistica, è ora definitivamente svuotato di turisti stranieri, e non torneranno a breve. Altro colpo. Già dalla rivoluzione del 2011 di stranieri al Cairo se ne vedevano molti molti di meno, ma almeno il turismo di massa nei resort di Sharm resisteva. Ora è morto anche quello.

Qui in città l’aria è tranquilla. Alle entrate della metro sei costretto a passare in un metal detector e a far passare la tua borsa ai raggi X, ma nessuno guarda lo schermo, e il metal detector si accende a vuoto migliaia di volte al giorno davanti ai soliti poliziotti annoiati. Il clima è bello, è un autunno mite e dolce, ma c’è una percezione quasi fisica del disagio tra la gente. Ma più che rabbia è frustrazione. Sanno tutti troppo bene che: 1) un’altra rivoluzione sarebbe repressa nel sangue, visto che apparati di sicurezza ed esercito non sono mai stati così spietati e ciechi come oggi e 2) seppure il popolo riuscisse di nuovo con la forza della piazza a cacciare il regime semi-militare al potere, chi lo sostituirebbe? Difficile anche pensare ad una coalizione di forze sociali che potrebbero farsi portatori di un cambiamento reale. Mentre il palazzo del vecchio partito di regime (Hezb el-Watani, NDP) è ormai quasi completamente demolito (cominciarono a maggio-giugno i lavori), le strutture del potere economico-politico-militare forse vacillano un po’, ma restano salde al loro posto.

Ah sì, sono in corso le elezioni per il parlamento. Una parte del paese ha già votato, un’altra voterà a fine mese. Nessuno ne parla in realtà, se non per dire che non gliene frega niente, ma uno non può non ricordarselo ogni volta che scende in strada, visto che la città è tappezzata letteralmente di striscioni con i faccioni dei candidati, i loro slogan ritriti e vuoti, e ogni tanto dei furgoncini con musica a tutto volume e gente urlante ti ricordano che qualche avvocato, imprenditore, ingegnere, buon uomo, vuole il tuo voto. Ci si aspetta una bassa affluenza, e comunque poche sorprese, nel senso che non esiste opposizione che si sia candidata (o perché sono fuori legge, o perché hanno boicottato, o comunque perché non avrebbero avuto la minima possibilità in una campagna elettorale fatta di spese sostanziose, e senza un vero dibattito politico nel paese). In sostanza vinceranno quelli a favore di al-Sisi (ma va?!), comprese vecchie glorie del regime di Mubarak che spuntano soprattutto come candidati indipendenti (a cui è assegnata la maggior parte dei seggi, rispetto a chi si candida in liste). Ma è comunque una fase di ricomposizione dell’elite al potere, perché come notano osservatori più acuti di me, ad al-Sisi è mancata finora una forza di intermediazione tra regime e popolo, come poteva essere l’NDP per Mubarak, un ‘luogo’ politico dentro cui aggregare e mediare gli interessi economici e politici, rinsaldare le clientele, assicurarsi la fedeltà di pezzi di elettorato legati a personaggi che gestiscono i loro propri potentati locali.

In realtà l’inchiesta di un famoso giovane e bravo giornalista, arrestato per quattro giorni, interrogato dai servizi segreti militari e poi rilasciato, rivelerebbe crepe anche dentro l’esercito. Ha svelato un processo segreto a oltre una ventina di ufficiali di medio e alto rango, accusati di pianificare un colpo di stato in combutta con i Fratelli Musulmani. La storia di per sé non mi sembra molto credibile, ma è un fatto che i malumori ci sono anche tra le fila dell’esercito, probabilmente sempre meno compatto intorno alla cricca di alti ufficiali che sono mani in pasta nell’economia del paese. Ma l’ipotesi di un coup interno mi sembra lontana, e pericolosa, immaginando quello che potrebbe succedere se l’esercito si dividesse e iniziasse a combattersi. Non credo che ci sia qualcuno disposto a accollarsi la responsabilità di uno scenario siriano. Ma forse liberarsi di al-Sisi prima della fine del mandato e sostituirlo con un’altra faccia, inizia a sembrare un’ipotesi non assurda anche tra i capoccia con le stellette.

Il punto è che il paese è a un vicolo cieco. Finora, dal 2013 ha campato con il flusso di soldi dei paesi del Golfo che hanno sostenuto la cacciata dei Fratelli. Ma quanto a lungo potrà andare avanti? (Tanto più che le relazioni con le monarchie petrolifere scricchiolano, visto il cambio di guardia nella casa reale saudita, e l’avvicinamento dell’Egitto alla Russia di Putin, che in Siria sta con Assad, che sta con l’Iran, che è come il fumo negli occhi per Arabia Saudita & company).

Che opzioni ci sono sul campo?

Una possibilità di ri-apertura lenta ai Fratelli, basata su un accordo politico sottobanco per alleggerire la pressione sociale dando l’impressione di un avanzamento democratico? Forse. Ma la leadership della Fratellanza già non è più quella di due anni fa, e soprattutto la sua base è frammentata e molto più indisciplinata e indisponibile ad obbedire a chi in alto sembra ormai troppo moderato e rammollito nei confronti del regime.

Sicuramente, lo scoppio disordinato e violento di rivolte sociali poco organizzate sarà uno scenario dei prossimi mesi, se i prezzi continuassero ad aumentare, l’economia non dovesse migliorare, e se non ci sarà uno sbocco politico alla frustrazione generalizzata (cose probabili insomma). Gli unici che ancora possono contare su capacità di mobilitazione e una qualche forma di organizzazione sono gli operai: a Mahalla, nella più grande fabbrica del paese, a fine ottobre 14mila di loro hanno scioperato per dieci giorni di seguito per ottenere dei bonus sullo stipendio. In solidarietà, altre migliaia di operai hanno scioperato in un vicino distretto industriale. Nonostante intimidazioni, sono andati avanti, e hanno ottenuto quello che chiedevano. Gli operai di Mahalla sono un po’ il termometro del malessere e delle lotte sociali del paese, quando si muovono loro c’è da ben sperare. Ma manca decisamente una organizzazione forte che gli permetta di avere un ruolo di guida dei diseredati del paese. Si limitano a battaglie singole, e non sono tentati dal fare un salto più ‘politico’ in questo momento storico. E c’è da capirli pure.

Insomma, speranze ce ne sono poche davvero, soprattutto a parlare con i ragazzi e le ragazze egiziane. Soprattutto perché dal colpo di stato in poi sono decine di migliaia gli attivisti e le attiviste rivoluzionarie finite in carcere, e chi non sta scontando condanne in una cella ha spesso la vita scandita da processi e persecuzioni. Tra di loro, molti/e esponenti importanti di movimenti e partiti, che sono spesso le persone più carismatiche, rispettate, nodi importanti di reti e connessioni, trasversali o comunque capaci di mobilitare intono a sé aree diverse di movimento. Un grande senso di frustrazione prevale al momento, nell’impossibilità totale di agire politicamente, riprendere la militanza attiva. Sono quelli/e che hanno sognato, osato, e rischiato, più di tutti, e adesso vedono solo il muro dell’oppressione davanti a loro, pochi/e compagni/e rimasti/e accanto.

Anche per loro, vi prego, in questi giorni, mesi e anni di stato di emergenza e di polizia che verranno dopo i fatti di Parigi, prendete a testate quelli che vi dicono che i “bastardi islamici” vogliono distruggere la nostra civiltà, che bisogna cacciare gli arabi, e bombardare l’ISIS.

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