Meglio una macchina che una laurea?
Ripreso da: http://www.senzasoste.it/
Secondo il ministro Giannini “studiare alla Sapienza costa meno di un’utilitaria”. Nel riportare l’efficace articolo di Antonio Scalari che, cifre alla mano, demolisce tali dichiarazioni, pensiamo sia necessario abbozzare qualche riflessione in più.
Intanto, come evidenzia Scalari, a fronte di un livello di tassazione non basso, in Italia esiste un sostegno diretto o indiretto allo studio fra i più bassi d’Europa mentre per comprare un’utilitaria, per esempio dalla Fiat, arrivano fior fiore di contributi statali. In più le casse pubbliche sono costrette a tappare i disastri sociali provocati dalle strategie aziendali di delocalizzazione con miliardi di cassa integrazione per migliaia di lavoratori, mentre ad oggi non ci risultano finanziamenti statali diretti e immediati per sostenere chi non riesce a sostenere gli studi e magari finisce fuoricorso. Anzi, per questi ultimi aumenti delle tasse d’ufficio (proprio quelli che esistono alla Sapienza) sono la norma.
Ma per uscire dall’infelice paragone della Ministra la riflessione da fare è un’altra: dal primo governo “tecnico” in poi assistiamo a una sfilza di sollecitazioni a non iscriversi all’università, appelli a non trascurare i lavori manuali, alla poca adattabilità dei giovani al lavoro, agli sprechi dell’università che “mantiene” i fuori corso e alle conseguenti necessità di alzare le tasse, di ridistribuire le risorse per singoli studenti o atenei misurando e premiando (con gli efficientissimi meccanismi ANVUR) il merito di entrambi.
L’obbiettivo è dichiarato: disincentivare l’iscrizione all’università, alzarne il costo sociale ed economico, rendere sempre più inservibili culturalmente e professionalmente interi settori accademici (quello umanistico in primis…ma d’altronde a che servono beni culturali, storia, lingue, archeologia ecc. in un paese come l’Italia?).
L’operazione non va ridotta al semplice tentativo di tagliare un ramo di spesa “improduttivo” ma è perfettamente coerente con la strategia generale di chi detiene le redini del nostro sistema produttivo ed economico.
Nella divisione internazionale del lavoro, ridisegnata a tempi accelerati dalla crisi, il sistema produttivo italiano si sta coscientemente ricollocando in posizione medio bassa. In questo scenario, la retorica per cui questo processo sia causato solo dall’emergere di altre economie e sia normale conseguenza della necessaria globalizzazione del sistema capitalistico è coscientemente costruita da governi e classe dirigente dell’economia, per giustificare vent’anni di leggi e di obbedienza incondizionata ai ricatti di FMI e BCE.
La ridefinizione al ribasso del capitalismo italiano non va neanche vista come un semplice ricatto da parte di altre economie più forti, ma è parte integrante del complessivo progetto neoliberista di gestione della società e dell’economia. Un sistema in cui l’estrazione di profitto immediata e più devastante in termini di costi sociali è l’unico obbiettivo da perseguire, in cui la difesa della rendita è vista (o spacciata) come economicamente efficiente (più o meno la stessa idea prevalente nell’alto medioevo), e che quindi ha totalmente abbandonato ogni tensione verso un orizzonte di sviluppo che sia più lungo del breve, immediato termine.
L’istruzione, ad ogni suo livello, è forse la prova più evidente della definitiva assunzione dello short-termism (veduta corta) da parte del capitalismo italiano.
Vogliamo essere chiari, siamo convinti che non ci sia compatibilità possibile fra gli obbiettivi della classe dirigente economica e politica e le prospettive di vita dignitosa di chi studia e lavora in questo paese. Di conseguenza, partiamo dal presupposto che non sarà certo una fantomatica ripresa d’orgoglio della nostra classe dirigente sui mercati internazionali la soluzione alla totale assenza di prospettive dei giovani precari in Italia. La favola per cui il bene dell’imprenditoria italiana sia strumento per un maggiore e diffuso benessere è definitivamente crollata. Tra l’altro facciamo nostra la convinzione, dimostrata dalla storia dei paesi occidentali dell’ultimo secolo, che più si amplia l’istruzione superiore nella società – più si rafforzano strumenti analitici e la padronanza critica di ogni branca del sapere da parte di una forza lavoro sempre più qualificata – e più forti saranno i livelli di conflittualità sociale e le istanze di cambiamento, specie se il tutto si accompagna (come successo negli anni 70 in Italia) a bruschi stop alla redistribuzione di ricchezze e sviluppi egualitari della società. Proprio per questo, nel mezzo di una crisi economica che si annuncia duratura e nella fase di maggior disuguaglianza nella distribuzione delle ricchezze che il mondo capitalista ricordi, investire nell’istruzione superiore italiana è del tutto fuori dall’agenda di questo come di qualsiasi governo liberista.
Ovviamente ci sono delle eccezioni, settori accademici che funzionano e in cui gli investimenti sono ancora consistenti (anche se sempre ridicolizzati da qualsiasi confronto internazionale) come alcune branche scientifiche o ingegneria, ma per queste esiste dalla riforma Gelmini in poi il meccanismo dei poli d’eccellenza, degli atenei meritevoli in cui convogliare finanziamenti, delle scuole d’eccellenza per poche decine di studenti in ciascun ateneo e cosi via…il resto è puro spreco!
I movimenti studenteschi degli ultimi anni hanno avuto il grande pregio di intuire la direzione che stava prendendo la trasmissione del sapere nelle nostre università dopo la riforma del 3+2: “supermarket delle conoscenze”, “fabbrica di precarietà”, “atenei prendi e fuggi”… è ormai impossibile anche per il più conformista e allineato degli addetti ai lavori definirli semplici slogan. Sì, perché a pagare le conseguenze di un sapere oggettivato nell’abominio del credito formativo, e quindi misurabile, informatizzabile, neutro, operativo è l’intero corpo vivo dell’università italiana.
Le politiche di riforma e gestione dell’istruzione (lauree triennali “professionalizzanti”, crediti formativi, stage, moltiplicazione degli esami, mancati investimenti in strutture e assistenza) sono state coscientemente pensate per dequalificare la formazione di una forza lavoro, quella italiana, che si vuole mantenere su un livello basso, molto basso, di formazione generale, sempre più incapace di padroneggiare scienze e saperi per un sistema produttivo che ha abbandonato ogni velleità di competere al rialzo nel grande mercato globale.
Per chi governa la crisi l’università pubblica ha un costo sociale troppo alto e non solo in termini economici: masse di precari che resteranno sottoccupati fino a quasi quarant’anni vanno formate il meno possibile, disilluse dalle speranze di una formazione critica scientifica, e devono introiettare la retorica della formazione continua, del lavoro non pagato come momento formativo.
Meglio allora indebitarsi per comprare una macchina che trovare il modo di investire nella propria istruzione, costa di meno e…nel secondo caso non si ricevono aiuti pubblici.
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