La disinformazione corre sui social media

La miseria culturale e il qualunquismo dilaganti nella società si riflettono nei social network. I post complottisti e i meme con foto allucinanti (vedi la vicenda Jim Morrison-Gasparri) ricevono sempre più like su facebook e . Lo studio dell’IMT (descritto in questo articolo tratto da Le Scienze) analizza la diffusione delle notizie sui social in funzione della loro essenza complottista o scientifica. Che questi tipi di indagine siano utilizzabili a fini repressivi lo abbiamo ben presente, e perciò ci teniamo a sottolineare che non auspichiamo la realizzazione di software (come brevemente descritti nello studio dell’IMT) che permettano un discrimine a priori su ciò che è complottista e ciò che invece è scientifico: finché i padroni hanno il coltello dalla parte del manico, lo useranno per mettere a tacere ciò che nuoce loro, più che per non far diffondere una bufala che li fa sorridere.

A dispetto dell’enorme massa di notizie a cui si può accedere online, la nostra epoca rischia di caratterizzarsi come “l’era della disinformazione”. E’ la conclusione a cui è giunto il gruppo di ricercatori diretto da Walter Quattrociocchi dell’IMT Alti Studi di Lucca, che in un articolo pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” analizzano la diffusione delle notizie nei social media, scoprendo che il bassissimo livello di intermediazione nell’accesso alle informazioni facilita lo sviluppo di fenomeni virali in cui trovano ampio spazio numerose voci non confermate. Lo studio e le sue implicazioni sono ampiamente illustrate in un articolo dello stesso Quattrociocchi che apparirà sul numero di febbraio di “Le Scienze”.

Quattrociocchi e colleghi hanno sviluppato un’ampia e approfondita analisi quantitativa delle pagine di Facebook, concentrandosi sui meccanismi di diffusione di due tipi di notizie: quelle scientifiche; e quelle che fanno capo a teorie complittiste di vario tipo oppure notizie che non hanno fondamento scientifico, ma invece sono presentate come tali, per esempio la teoria delle scie chimiche, le false notizie sul legame fra vaccini e autismo, o la notizia secondo cui  un’esercitazione militare sul suolo americano denominata “Jade Helm 15” sarebbe stata in realtà un tentativo di colpo di Stato ordito dall’amministrazione Obama. La notizia ha avuto un’eco tale da indurre il governatore del Texas ad allertare la guardia nazionale.Il primo risultato dell’analisi è la constatazione che gli utenti tendono a selezionare e condividere i contenuti relativi a uno specifico genere di notizia, secondo uno schema che ricalca il cosiddetto pregiudizio della conferma (confirmation bias): la ricerca esclusiva di ciò che conferma un’idea di cui si è già convinti. Si creano così gruppi solidali su specifici temi e narrazioni che tendono a rafforzarsi e a ignorare tutto il resto: le discussioni spesso degenerano in litigi tra estremisti dell’una o dell’altra visione, con un’ulteriore rafforzamento della polarizzazione.

“Questo contesto – scrive Quattrociocchi – di fatto rende molto difficile informare correttamente, e fermare una notizia infondata diventa praticamente impossibile.”

I ricercatori hanno inoltre scoperto che i vari gruppi, pur mostrando omogeneità rispetto ai contenuti di interesse, sono caratterizzati da dinamiche differenti di diffusione delle notizie. Per esempio, le teorie complottiste si diffondono più lentamente delle voci di interesse scientifico, ma – a differenza di queste ultime – maggiore è la loro vita più ampia è la loro diffusione e l’interesse che suscitano.Quattrociocchi e colleghi nel loro studio forniscono una modellazione matematica della diffusione delle informazioni basato sui dati molto accurato tenendo conto solamente del grado di omifilia e della struttura della rete.

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