Gli effetti del Jobs Act: è la lotta di classe, bellezza!

Gli effetti del Jobs Act: è la lotta di classe, bellezza!
Sono circa trent’anni che il mantra della rigidità del mercato del lavoro ci viene cantilenato dai monaci del capitalismo, a giustificazione delle ineludibili riforme strutturali. Il costo del lavoro è troppo alto, in Italia è impossibile licenziare, i sindacati hanno troppo potere, c’è bisogno di flessibilità! Già, la flessibilità, maledetta parola che ha cominciato a turbarci il sonno negli anni novanta e che il Signor Treu ha tramutato in triste realtà. Altro che pacchetto… con la sua legge 196/97 il ministro ci tirò un bel pacco: istituzionalizzando il lavoro interinale e le relative agenzie, diede il via alla precarizzazione delle vite di migliaia di lavoratori e lavoratrici italiane. Precarietà che nel corso degli anni è stata ulteriormente appesantita dalla Legge Biagi (legge 30/2007) che ha disciplinato circa 40 forme contrattuali differenti, tra cui il co.co.pro, ed ha abolito il lavoro interinale introducendo la “somministrazione di lavoro”.

La crisi del 2008 ha fornito poi il pretesto al padronato italiano per tentare l’ennesimo l’assalto all’art.18 dello Statuto dei lavoratori. È arrivata così la Legge Fornero (legge 92/2012) che ha reso di fatto possibile licenziare illegittimamente un lavoratore per motivi disciplinari o per motivi economici, abolendo l’obbligo della reintegra.

Il Jobs Act  non è quindi che l’ ennesimo colpo ferale assestato ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici italiani; ultimo atto di un processo di liberalizzazione del mercato del lavoro, che ha avuto come unico scopo quello di ridurre i salari e di affermare la piena possibilità del padrone di sbarazzarsi della merce-lavoro qualora lo reputi più opportuno per i suoi interessi.

Il nuovo contratto a tempo indeterminato: le tutele crescenti

Il primo decreto attuativo del Jobs Act ha introdotto questo nuovo contratto che elimina  la tutela reale del lavoratore; infatti il reintegro sul posto di lavoro e il risarcimento delle mensilità arretrate rimane solo per i licenziamenti discriminatori e per i licenziamenti disciplinari, nel caso in cui venga provato in giudizio che il fatto non sussista. In tutti gli altri casi è prevista “la tutela crescente” che si sostanzia in risarcimenti pari a due mensilità, per ogni anno di anzianità aziendale, da un minimo di 4 a un massimo di 24 mensilità, senza alcun obbligo di reintegra. Dietro la maschera ipocrita delle tutele crescenti viene sancito nel diritto del lavoro italiano la piena e totale libertà di  licenziare semplicemente pagando. Di fatto il contratto a tempo indeterminato non esiste più. Per incentivare le assunzioni con questo contratto ( incluse le trasformazioni dei contratti a termine), il Governo ha previsto sgravi contributivi fino a 8.060 Euro all’anno per tre anni.

Niente più limiti ai contratti a termine

Il quarto decreto attuativo del Jobs Act è intervenuto su una serie di tipologie contrattuali tra cui il contratto a tempo determinato. In caso di superamento del tetto del 20% di utilizzo dei contratti a termine i lavoratori non hanno più diritto alla trasformazione del rapporto “a tempo indeterminato”. L’impresa dovrà pagare una sanzione amministrativa pari al 50% della retribuzione mensile percepita dal lavoratore.

L’altra importante novità, è la possibilità di derogare al limite del 20% attraverso i contratti collettivi ed attraverso la contrattazione aziendale e con intese con Rsa e Rsu; inoltre, vengono esclusi dal conteggio le assunzioni dei lavoratori over 50.

Si conferma quindi quanto previsto dal Decreto Poletti del 2014, che aveva liberalizzato l’utilizzo dei contratti a tempo determinato, cancellando l’obbligo di indicare le ragioni di tecnico-organizzativo e produttive che giustificano il ricorso a tale tipo di contatto (a-causalità).

Voucher, la nuova frontiera del precariato e del lavoro nero

Implementati in Italia a partire dal 2008 per retribuire prestazioni di lavoro occasionale, si tratta di buoni del valore di 10 Euro così composti: il 75% costituisce la paga oraria netta del lavoratore (7,50 Euro), il 13% corrisponde ai contributi Inps, il 7% va all’Inail e il restante 5% serve per pagare l’istituto di previdenza per la gestione del servizio. Il Jobs Act ha aumentato il limite massimo di reddito annuo percepibile tramite buoni da 5.000 a 7.000 Euro per la totalità dei committenti; per singolo committente, impresa o libero professionista il limite è di 2.000 Euro. Quest’ultimo limite opera nei confronti del singolo lavoratore e non impedisce al datore di lavoro di affidare l’attività da svolgere ad una pluralità di persone ciascuna delle quali non potrà percepire più di 2.000 Euro in voucher che, ricordiamolo, non dà diritto alle prestazioni di malattia, maternità, disoccupazione e assegni familiari.

Gli ultimi numeri resi pubblici dall’Inps registrano un vero e proprio boom nell’impiego dei voucher: nei primi 10 mesi del 2015 ne sono stati venduti oltre 91 milioni, contro i poco meno di 70 milioni del 2014, segnale inequivocabile del fatto che vengano usati non per prestazioni occasionali ma come ulteriore strumento di precarizzazione. Né tantomeno fanno emergere il lavoro nero, come segnalato anche da un’inchiesta della trasmissione televisiva Report, nella quale si vede che in settori come il turismo e l’edilizia i buoni sono utilizzati per fare il nero a metà, ossia per retribuire lavoratori in parte con voucher ed in parte in contanti non denunciati al fisco, di fatto l’esatto contrario di quanto era nelle “buone intenzioni” del legislatore. Inoltre non essendoci obbligo di comunicare giorno ed ora di inizio della prestazione “occasionale” retribuita tramite voucher, questo diventa una fondamentale copertura per i datori di lavoro che utilizzano il lavoro nero in occasione di una “visita” dell’ispettorato del lavoro oppure in caso di incidente sul lavoro.

Un bilancio del Jobs Act 

Le considerazioni finali del working paper sugli effetti del Jobs Act redatto da tre ricercatori italiani nell’ambito del progetto Europeo ISI Growth recitano in maniera inequivocabile che:

“Si rileva che la combinazione delle politiche di supply-side analizzate – il Jobs Act e la previsione di incentivi indiscriminati per  le assunzioni con le nuove forme contrattuali – sono risultate inefficaci sia in termini di quantità che di qualità e durata dei posti di lavoro creati. Inoltre tali politiche rischiano di contribuire anche al peggioramento della struttura industriale italiana, che si è accelerato dopo la crisi del 2008″.

Il Jobs Act quindi sta fallendo rispetto ai suoi obiettivi dichiarati: non ha creato nuova occupazione stabile; i 400.000 nuovi contratti a tutele crescenti sono frutto di trasformazioni di contratti a termine e si tratta solo formalmente di contratti a tempo indeterminato. Da Marzo 2015 il 63% dei nuovi occupati è stato assunto con contratto a termine, percentuale che può essere attribuita alla liberalizzazione nell’uso di questi contratti prevista dal Jobs Act descritta prima.

Il fallimento del Jobs Act nella creazione di nuova occupazione è confermato anche da un altro preoccupante dato analizzato nel lavoro citato. I ricercatori Fana, Guarascio e Cirillo rilevano con preoccupazione che:

 ”secondo i dati forniti da Eurostat i flussi del mercato del lavoro italiano mostrano un enorme transizione dalla disoccupazione all’inattività (35,7%) mentre la transizione verso l’occupazione indipendentemente dal tipo di contratto è più bassa della media Europea (18,6% vs 16,1%)”.

Il Jobs Act sicuramente non fallisce rispetto ai suoi obiettivi di classe: in situazioni di crisi fornisce al padronato italiano strumenti fondamentali per aumentare la sua competitività solo a danno del costo del lavoro e quindi delle vite dei lavoratori e delle lavoratrici.

Esemplare è la vicenda della Inalca-Cremonini, colosso della lavorazione della carne, che nel suoi stabilimenti di Ospidaletto lodigiano, Castelvetro di Modena, Rieti e Avellino, ha appaltato parte delle lavorazioni al consorzio di cooperative Euro 2000. Inalca nel Maggio 2015 ha disdetto l’appalto che durava da 15 anni e da molti considerato un “modello”, ha stipulato un accordo separato con CISl e UIL che prevedeva il passaggio dei lavoratori del consorzio all’agenzia di lavoro interinale Trendwalker, per poi, nei piani dell’azienda, passati 6 mesi, assumere tutti con il contratto a tutele crescenti, godendo degli sgravi contributivi per i successivi 2 anni.

Cosa che è avvenuta il 17 dicembre 2015 quando la Ges.Car. srl, di proprietà al 100% di Cremonini, ha assunto i 900 ex soci lavoratori delle cooperative Consorzio Euro 2000 e King Service. La risposta del sindacato a tutto questo è stata inefficace; abbiamo già citato l’accordo separato di Cisl e Uil, la CGIL si è limitata a criticare tramite comunicati e a mezzo stampa l’operato dell’ Inalca. Nello stabilimento di Ospedaletto Lodigiano, dove era presente un piccolo nucleo di iscritti al Si-Cobas (circa 30 lavoratori), il sindacato di base ha fatto partire scioperi, picchetti e blocco delle merci; purtroppo l’esiguità del numero dei partecipanti non ha dato peso alla lotta e l’azienda ha avuto gioco facile nell’ isolare i militanti, procedendo anche a licenziamenti.

Il Jobs Act è diventato legge e ha prodotto questi risultati, grazie anche a una blanda opposizione sia nei posti di lavoro, sia a livello parlamentare. La principale responsabilità ricade sul sindacato, incapace di organizzare una mobilitazione seria, che andasse al di là di qualche manifestazione o sciopero sporadico. Ed è proprio dalle singole aziende che dovrà ripartire la lotta per riprenderci i diritti che sono stati cancellati in questi decenni, per mettere in discussione non solo il Jobs Act, ma tutte le forme di precarietà introdotte precedentemente.

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