Cina – La bolla di primavera e le lotte intestine

di Andrea Ferrario, da https://crisiglobale.wordpress.com/

In Cina la primavera che sta per chiudersi è stata contrassegnata dall’emergere dell’ennesima bolla finanziaria. Presi nella morsa di una situazione evidentemente senza via di uscita, i vertici politici del paese appaiono sempre più divisi. Tra le cause delle attuali difficoltà c’è la degenerazione di un sistema politico ed economico “neofeudale” incentrato sulle province.

Acciaio, rebar, minerali di ferro, materie prime industriali di ogni sorta, uova e perfino aglio. E’ questo il mix esplosivo dell’ennesima nuova bolla finanziaria emersa in Cina nel mese di aprile. I prezzi delle commodities trattate nelle borse merci di Shanghai e Dalian sono schizzati verso l’alto in tempi brevissimi e in modo vertiginoso. L’acciaio ha guadagnato il 77% in un solo trimestre e le acciaierie, che il governo di Pechino si riproponeva di ridimensionare o chiudere perché ormai da lungo in tempo in perdita e in forte sovracapacità, hanno riacceso gli altiforni pompando migliaia di tonnellate di un prodotto di cui in realtà nessuno ha bisogno attualmente. I minerali di ferro hanno aumentato il loro valore di un terzo in sole due settimane, e aumenti analoghi sono stati registrati perfino da alcuni generi alimentari. In un solo giorno di aprile i volumi di rebar (un materiale da costruzione) scambiati nelle borse cinesi hanno superato l’intera capacità produttiva nazionale di un anno. Le misure di carattere tecnico approvate in fretta e furia dalle autorità a fine aprile hanno fermato la bolla, ma si è trattato di un intervento che non risolve il problema alle radici, ma si limita solo ad arginarlo in qualche modo. La nuova bolla è una diretta conseguenza dell’enorme massa di liquidità immessa dalle autorità di Pechino in un’economia sempre più in forti difficoltà e già pesantemente drogata di debito, come avevamo analizzato nei dettagli in una nostra recente analisi. Nel primo trimestre il volume totale del credito in Cina è aumentato di oltre il 42%, cioè della somma esorbitante di 1 trilione di dollari. Per un paragone, nel 2009, l’anno in cui la crisi mondiale ha raggiunto il suo culmine, Pechino lo aveva aumentato del 34%, non in un solo trimestre, bensì negli undici mesi che vanno da gennaio a novembre. Allora le autorità erano almeno riuscite a ottenere in tale modo una forte accelerazione del Pil, mentre oggi, anche secondo i dati ufficiali con ogni probabilità ritoccati al rialzo, la crescita del Pil ha registrato un’ennesima frenata.

 

Alcuni dati pubblicati a marzo, come la crescita degli investimenti e delle esportazioni, avevano portato molti media a parlare di un’uscita della Cina dai problemi che la hanno portata sulle prime pagine dei giornali economici fin dalla crisi borsistica dell’estate scorsa. In realtà gli osservatori più attenti avevano subito sottolineato che alla base dell’apparente “ripresina” c’erano soprattutto la speculazione immobiliare (a fine marzo nelle megalopoli di Shenzhen e Shanghai i prezzi delle nuove abitazioni risultavano aumentati rispettivamente del 62,5% e del 30,5% anno su anno,secondo l’Economist) e l’aumento degli investimenti infrastrutturali a livello locale, il più delle volte privi di utilità e che sono uno dei problemi più gravi contro il quale il governo si era ripromesso di combattere. La crescita delle esportazioni registrata a marzo si è poi rivelata solo un breve intervallo di un ottovolante altrimenti in picchiata: -25% a febbraio, +11% a marzo, -8% ad aprile. Gli ultimi dati usciti a maggio sono poi tutti in deciso rallentamento, a partire dagli indici PMI sulla produzione, i nuovi ordini, le esportazioni, i servizi e l’occupazione. Risultano invece ancora in netta ascesa le costruzioni, segno che la bolla immobiliare e infrastrutturale si sta ulteriormente aggravando.

Di fronte agli enormi problemi della sua economia, e in particolare a quello di un rallentamento che se dovesse proseguire o farsi più marcato metterebbe a rischio la stabilità sociale e politica del modello capitalista cinese, le autorità continuano a reagire dando un colpo ora al cerchio, ora alla botte, ma in ultimo continuando a gonfiare la bolla del debito. Un esempio di questo cerchiobottismo è quello del progetto, ancora non del tutto definito, di varare un grande piano di “loan-equity swap”, termine tecnico che indica la trasformazione in partecipazioni azionarie dei debiti che le aziende statali non riescono a rimborsare alle banche. In pratica, le banche ripulirebbero i loro bilanci dai prestiti deteriorati (che secondo le stime di alcune organizzazioni indipendenti e del FMI sono oltre il 15% degli attivi delle banche stesse), diventando azioniste delle aziende in difficoltà per un importo pari al loro debito non rimborsato. Si tratta di un’operazione di alchimia contabile che può avere qualche senso quando vi sono elementi per ritenere che l’economia aumenterà notevolmente i propri ritmi di crescita in breve tempo, consentendo così di risanare le aziende facendole tornare redditizie. Il problema è che tutti gli elementi concreti fanno ritenere che l’economia andrà ulteriormente rallentando. Inoltre, c’è già l’esperienza passata: un piano decennale analogo era stato varato in occasione della crisi bancaria cinese del 1999 e nel 2009 era stato prolungato a causa della crisi mondiale che aveva colpito anche la Cina. Adesso in pratica si tratterebbe di prolungarlo ulteriormente, nel tentativo di nascondere così il problema sotto il tappeto per altri anni. Ma già ora le imprese cinesi stanno sprofondando sempre più in una spirale del debito che appare senza via d’uscita. Secondo stime citate dal Financial Times, a fine 2016 il loro debito totale sarà superiore di otto volte ai ricavi, cioè circa il doppio del livello del 2008. L’Economist poi sottolinea come circa i due quinti dei nuovi debiti contratti dalle aziende vadano a coprire esclusivamente gli interessi sui precedenti debiti contratti.

Il vicolo cieco e le lotte intestine

E’ ormai dal 2010 che le autorità cinesi non riescono a risolvere il puzzle del debito e dell’eccesso di capacità produttive. Adottare misure efficaci per tagliarli comporterebbe un crollo della crescita, fino a un’eventuale recessione con tutte le conseguenze di instabilità politica e sociale, nonché di ridimensionamento della Cina come potenza mondiale. Non adottarle significa gonfiare ulteriormente l’economia e mantenerla in qualche modo in crescita (sebbene in visibile decelerazione), aggravando però il problema del debito e rendendo ancora più devastanti le possibili conseguenze dello scoppio della bolla. Come ha scritto l’economista Mylene Gaulard, ” le politiche più recenti, la cui logica e la cui coerenza sfuggono a molti osservatori, non si spiegano tanto con il fatto che le autorità cinesi agiscono in maniera confusa nel tentativo di fare ripartire la crescita, quanto piuttosto con l’assenza di una reale soluzione “.

Non sorprende quindi che in questo contesto alcuni recenti sviluppi politici indichino come ai vertici del Partito Comunista Cinese (PCC) vi siano profonde spaccature. Il 9 maggio il “Quotidiano del Popolo”, organo del PCC, pubblicava in prima pagina con grande evidenza un’intervista a un anonimo “personaggio autorevole” nella quale si affermava che i problemi dell’economia cinese sono seri, contrariamente a quanto aveva affermato qualche giorno prima Zhang Gaoli, uno dei massimi dirigenti del PCC e suo responsabile per l’economia. L’andamento della crisi, proseguiva l’intervistato, non sarà con andamento a “U” o a “V” (cioè con una ripresa in tempi più o meno brevi), bensì con andamento a “L” (cioè con una prolungata stagnazione). L’articolo ha provocato grande scalpore ed è stato interpretato come una critica nei confronti di chi, ai vertici politici, ha adottato politiche mirate ad alimentare la bolla del credito. L’opinione unanime dei commentatori è che il “personaggio autorevole” sia qualcuno molto vicino a Xi Jinping, se non addirittura lo stesso presidente. Negli stessi giorni veniva pubblicato con strano tempismo il testo di un minaccioso discorso pronunciato da Xi Jinping nel gennaio scorso in cui il presidente affermava che “non bisogna criticare la dirigenza centrale riguardo a temi politici importanti. Ci sono carrieristi e cospiratori nel nostro Partito che ne indeboliscono la direzione. Dobbiamo reagire con decisione per eliminare il problema”. Come ha commentato il “South China Morning Post”, “la lotta per il potere si è fatta così aspra che il presidente ha dovuto ricorrere ai media per cercare di imporre la propria linea”. Il giorno dopo l’intervista con il “personaggio autorevole” il premier Li Keqiang, evidentemente sentitosi chiamato in causa, dichiarava in un comunicato ufficiale che il suo governo si è sempre astenuto da una politica di “forte stimolo”, negando così l’evidenza. Il giorno stesso il “Quotidiano del Popolo” pubblicava un intervento di Xi Jinping nel quale il presidente spiegava la sua politica di riforme strutturali di tipo “supply side” (così vengono definite tecnicamente le politiche neoliberali incentrate sulla flessibilità del lavoro e le privatizzazioni), affermando però che le stesse “non promuovono un neoliberismo”  come quello di Ronald Reagan o di Margaret Thatcher. Xi ha affermato inoltre che oggi la priorità non è quella “di stimolare la domanda interna”, che è sufficiente, quanto piuttosto di tagliare le sovraccapacità, la leva finanziaria e i costi. Il testo è evidentemente un intervento difensivo e tra l’altro è in piena contraddizione con la politica, finora solo dichiarata e mai concretizzatasi, di una conversione della Cina a un’economia guidata dai consumi.

Ma gli interventi di segno contraddittorio riguardo alle politiche economiche non si fermano qui. Per esempio il 30 aprile una riunione del Politburo del PCC presieduta da Xi Jinping ha decretato che il governo continuerà a dare sostegno “a un sano sviluppo della borsa”, cioè, tradotto in parole povere, a spendere miliardi di dollari per tenerla a galla. Oltre all’ironia storica del fatto che il Politburo di un Partito Comunista si impegni a sostenere la borsa, si tratta di una linea imperniata su un aumento della bolla finanziaria che va esattamente nel senso opposto di quella ufficialmente propugnata da Xi. Il 26 maggio il “Quotidiano del Popolo” pubblicava l’intervento di un noto professore in cui si sostiene che le aziende statali sono fondamentali per l’economia cinese e il loro ruolo deve essere rafforzato, andando quindi contro la linea ufficiale di Xi secondo cui devono essere ridimensionate, pur rafforzando il controllo del PCC su di esse. Il giorno dopo la Banca Centrale cinese (PBOC) emetteva un comunicato nel quale in sostanza affermava che non ci sarà una stretta monetaria perché la Banca stessa non cambierà la propria politica e continuerà a immettere liquidità per evitare lo scoppio di nuove bolle. Anche in questo caso si tratta di un intervento che va contro quelli del “personaggio autorevole” e di Xi. A complicare ultimamente le cose è giunto lo scandalo suscitato da un grande spettacolo tenutosi il 2 maggio nella Sala del Popolo a Pechino, uno dei “luoghi sacri” del regime. Durante l’evento, oltre a canzoni in lode di Xi Jinping e a danze del tutto innocue, sono state eseguite anche alcune canzoni simbolo della Rivoluzione Culturale, accompagnate dalla proiezione di immagini dell’epoca. La Rivoluzione Culturale, di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario, è tra tutti gli eventi della storia cinese quello che più di ogni altro spaventa l’attuale dirigenza comunista. Non per la sua violenza o perché è un’imbarazzante testimonianza degli “errori” passati del PCC, ma perché ha portato a una totale destabilizzazione del paese, oltretutto all’insegna di slogan come “ribellarsi è giusto”. Inoltre, la riscoperta di queste canzoni è stata uno dei cavalli di battaglia di Bo Xilai, l’ex leader della fazione di sinistra (o conservatrice, nel contesto cinese i due termini in pratica si equivalgono) da alcuni anni in carcere. Le modalità con le quali anonimi manovratori sono riusciti a intrufolare queste canzoni nello spettacolo ufficiale indicano con chiarezza che si è trattato di un segnale trasversale alla dirigenza cinese. E’ quindi chiaro che di fronte alla situazione senza vie di uscita sono in atto dure lotte intestine, ma si tratta di lotte che appaiono mirate, più che a imporre la propria linea, a imporre la propria specifica incapacità di trovare soluzioni.

I feudi locali

Uno dei settori in cui si concentra la bolla cinese è quello delle amministrazioni locali. A partire dall’epoca delle riforme di Deng Xiaoping è a esse che è stato affidato il compito di dare l’impulso principale allo sviluppo del capitalismo cinese. Il loro ruolo si è ulteriormente rafforzato nel 2009, quando la marea di liquidità  riversata nell’economia dalle autorità centrali per cercare di arginare gli effetti della crisi economica ha avuto come canale principale proprio i governi delle province e delle grandi città, con i loro programmi immobiliari e infrastrutturali. Pechino ha uno scarso controllo sulle politiche economiche delle amministrazioni locali, che costituiscono la base di quello che molti hanno definito, con un po’ di fantasia, un sistema neofeudale. Le politiche fiscali accentuano questi aspetti, perché prevedono che la grande maggior parte delle imposte riscosse a livello locale vada al governo centrale (e quindi ai poderosi apparati repressivi e burocratici, nonché al finanziamento delle grandi aziende statali alla base del potere della “borghesia rossa” che controlla gli apparati centrali). I governi locali sono così incentivati a ricorrere alla speculazione immobiliare e finanziaria per fare quadrare i loro bilanci, da una parte, e per rafforzare il loro potere economico “neofeudale”. Poiché le norme legali in teoria vietano loro di svolgere direttamente tali tipi di operazioni, i governi locali si sono dotati di appositi “veicoli finanziari”, società sotto il loro controllo, ma che formalmente sono soggetti giuridici autonomi. Queste società sono uno dei fattori che più ha contribuito all’esplosione del debito degli ultimi anni e continuano a marciare indisturbate su questa strada. Per esempio, come riferisce la Reuters, nel primo trimestre di quest’anno hanno aumentato del 178%, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, le emissioni di obbligazioni per finanziarsi. Il governo centrale aveva cercato di arginare il fenomeno adottando svariate misure nel 2014, ma l’anno scorso, di fronte allo scoppio della bolla del mercato azionario, ha fatto frettolosamente marcia indietro e ha addirittura allargato le maglie per quanto riguarda la possibilità delle amministrazioni e dei loro veicoli di indebitarsi per varare progetti infrastrutturali. Si tratta di progetti nella maggior parte dei casi del tutto inutili, che incanalano fondi verso attività improduttive, come per esempio lo sviluppo di infrastrutture turistiche in regioni che non hanno alcuna appetibilità per i visitatori o i progetti immobiliari che producono città fantasma. La Reuters cita fra i tanti come esempio eloquente quello della costruzione nella provincia del Guizhou, una delle più povere della Cina, di uno stadio grande il doppio di quello del Barcellona. Che dire poi dello studio condotto dall’agenzia statale per la pianificazione, secondo cui gli alloggi di cui è programmata la costruzione nell’ambito dei progetti per la realizzazione di “nuovi distretti” varati dalle amministrazioni locali sono in grado di accogliere 3,4 miliardi di persone (la Cina, lo ricordiamo, ha poco più di 1,3 miliardi di abitanti)? Una delle più grandi città cinesi, Chongqing, ha registrato nel 2015 una crescita del Pil pari a circa il 10%, ma i suoi investimenti in infrastrutture sono cresciuti del 30%. La crescita registrata da Chongqing però è un’eccezione, mentre non lo è la sua politica di drogare la crescita con enormi investimenti infrastrutturali. Nel complesso, delle 31 province cinesi 25 hanno registrato un rallentamento della crescita nel 2015. Tra di esse vi è quella di Guangdong, la maggiore economia regionale e la principale esportatrice della Cina. Due province, quella economicamente rilevante di Liaoning e quella di Heilongjiang, sono addirittura passate in recessione. Nonostante questo, gli investimenti immobiliari delle amministrazioni locali sono aumentati nel complesso di oltre il 6% rispetto a un anno prima e quelli infrastrutturali di quasi il 20%, come riferisce il “South China Morning Post”.

[Nell’articolo che pubblicheremo a giorni per completare questo nostro panorama cinese parleremo del documentario “The Chinese Mayor” (2015), che descrive nei dettagli gli effetti del connubio bolla finanziaria-burocrazia in Cina, e del film collettivo “Ten Years”, uscito di recente a Hong Kong e che è emblematico degli umori anti-Pechino ormai maggioritari tra i giovani dell’ex colonia britannica]

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