Milano, la città delle grandi opportunità. Anche per chi lavora?

Continua il viaggio cominciato la scorsa settimana alla scoperta di cosa si celi realmente dietro i primati di Milano. Dopo aver trattato in modo specifico dell’operazione Expo e dei legami politico-imprenditoriali che hanno portato alla realizzazione del ‘grande evento’, ci concentriamo adesso sul mondo del lavoro: dai nefasti effetti del Jobs Act agli appalti nei servizi comunali, dal processo di de-industrializzazione alla crisi che ha colpito il solitamente florido e benestante settore bancario. Quanto emerge è una Milano decisamente più sbiadita di quanto vorrebbero raccontare grandi quotidiani ed improvvisati analisti.

In questi ultimi anni, abbiamo spesso sentito parlare di Milano (anche da parte di giornali come il Financial Times e il New York Times) come esempio di città virtuosa e all’avanguardia. La giunta Pisapia ha investito molto nell’organizzazione di Expo,  nella costruzione e nell’ampliamento delle linee metropolitane,  valorizzando l’idea (portata avanti dall’attuale giunta Sala) che Milano sia pronta per competere con le grandi capitali europee. Il dibattito sullo spostamento del Salone del Libro da Torino a Milano, l’idea di valorizzare gli spazi utilizzati nel 2015 per Expo (idea che nei fatti si sta dimostrando molto difficile da realizzare), la disponibilità da parte del Sindaco Sala per l’organizzazione delle Olimpiadi nel 2028 in città, vanno lette in questo senso. Dal punto di vista lavorativo, è la città italiana che offre più possibilità e dove gli stipendi sono più alti. Milano (considerando anche le province di Lodi e Monza) risulta essere la quarta area economica in Europa in termini di PIL dopo Parigi, Londra e Madrid. Sempre più multinazionali estere decidono di aprire sedi in città (un terzo delle multinazionali estere con sedi in Italia sono in questa zona). Ad esempio Google si trasferirà nel 2017 dalla provincia alla città. Anche a livello turistico, è diventata la città con maggiore afflusso (7,5 milioni di visitatori nell’anno di Expo, numeri simili previsti alla fine del 2016). Spesso “il modello” Milano è stata contrapposto a Roma, ritenuta invece una città invivibile, piena di corruzione e sprechi. Stiamo quindi parlando di una città che sembra essere un piccolo gioiello da esportazione. Ma è davvero così?

Il lavoro

La riforma del lavoro targata Renzi (Jobs Act) era stata presentata come la riforma che avrebbe dovuto portare ad una stabilizzazione dei rapporti di lavoro. I dati che si sono susseguiti nel corso dei mesi successivi hanno dimostrato proprio il contrario. I nuovi contratti a tempo indeterminato, modificati dall’abolizione dell’articolo 18, non hanno affatto eliminato le varie forme di precarietà. Una delle principali conseguenze di questa riforma è stato il boom dell’utilizzo dei voucher. In particolare in Lombardia c’è stato un costante aumento tra gennaio e giugno: se a gennaio sono stati venduti 1,7 milioni di voucher , il numero è salito a 2 milioni a febbraio, 2,2 a marzo, 2,3 ad aprile, 2,4 a maggio, fino ad arrivare ai 2,5 milioni a giugno. Durante l’estate ne sono stati venduti circa sette milioni, per un totale di 20 dall’inizio del 2016. A Milano la cifra di buoni venduti è 8 milioni: + 30% rispetto al 2015. Un lavoratore pagato a voucher riceve mediamente 472 euro l’anno: questo dato influisce anche sulla retribuzione media annuale dei lavoratori milanesi, scesa dai 29000 euro del 2015 ai 28000 euro del 2016. La Lombardia, considerata una delle regioni più produttive, può vantare un altro primato: nessuna regione ha un utilizzo di voucher così alto. Nel centro commerciale di Arese, in provincia di Milano, la metà dei 2000 addetti è assunta tramite contratti a tempo determinato, a chiamata e voucher (fonte FILCAMS CGIL). Poiché un lavoratore può guadagnare fino ad un massimo di 7000 euro all’anno con il meccanismo dei voucher (di cui massimo 2000 pagati dallo stesso committente), alcune aziende (come ad esempio Burger King e Carrefour) hanno deciso di aggirare “l’ostacolo” tramite la rotazione dei lavoratori: esaurito il tetto, il lavoratore viene sostituito da un altro, e così via.

Non va molto meglio per i lavoratori delle mense comunali. I dipendenti della partecipata del Comune “Milano Ristorazione” sono circa 2000: si occupano di servire i pasti (e delle pulizie dei locali) nei nidi, nelle materne, nelle scuole primarie e secondarie.  Nessuno di questi è però dipendente di “Milano Ristorazione”, bensì delle quattro imprese che hanno vinto gli appalti per il servizio. La CGIL denuncia innanzitutto il mancato versamento della liquidazione e delle spettanze di fine rapporto dopo il cambio di appalto (avvenuto a fine agosto) per 900 addetti. Nonostante la legge imponga come limite massimo due mesi per la liquidazione del dipendente, le aziende vincitrici dell’appalto ipotizzano un versamento  a rate fino a maggio. Errori (al ribasso) nella busta paga non sono così rari. Nel solo mese di settembre il margine di errore è salito fino al 30%. Infine i contratti: sempre secondo la CGIL, ci sono due ordini di problemi. Il primo è l’utilizzo di contratti economici (come quello delle pulizie anche per chi svolge altre mansioni); il secondo è che spesso i contratti firmati dai lavoratori contraddicono il CCNL di riferimento.

Nei primi decenni dopo la guerra Milano era una città con un  significativo insediamento industriale. A partire dagli anni ’80 il processo si è invertito. Fabbriche che hanno chiuso (con conseguente perdita di posti di lavoro) per lasciare spazio alla speculazione edilizia: centri commerciali, nuove case (spesso rimaste invendute) per soddisfare gli appetiti dei palazzinari. Ci sono tuttavia lotte esemplari che dimostrano quanto la classe operaia sia forte e pronta a combattere. Nell’estate del 2009 cinque lavoratori dell’Innse (zona Lambrate) salgono sul tetto della fabbrica per impedirne la chiusura. Riescono a fermare lo smantellamento e la fabbrica viene rilevata dall’industriale Camozzi, che promette di recuperare anche l’area pubblica intorno alla fabbrica. Il piano di rilancio industriale 2010-12 rimane carta straccia.  A settembre 2015 parte la cassa integrazione ordinaria, sospesa solamente durante le feste. Ma da gennaio 2016 viene richiesta da parte dell’azienda la cassa straordinaria, contrastata dalla FIOM come illegittima. Solo a settembre il governo convoca le parti, arrivando a questa ipotesi di accordo: i Camozzi propongono i prepensionamenti con la legge Fornero, “offrendo” in cambio un investimento di poco più di un milione, sette assunzioni e l’allungamento fino al 2030 della destinazione d’uso industriale d’area. La FIOM sottopone l’accordo che viene bocciato all’unanimità. Dopo molte promesse i lavoratori non si fidano più. La risposta dell’azienda non tarda ad arrivare: in fabbrica possono entrare solo sei persone per la manutenzione, gli altri fuori, tenuti d’occhio dai vigilantes. I lavoratori, pur andando avanti con determinazione, accusano in primis la FIOM di averli lasciati soli. Ma non intendono mollare e lasciare che la fabbrica chiuda. Un altro esempio è la Alstom di Sesto San Giovanni, paese che confina con la città di Milano. Qui è partita l’occupazione a settembre, dopo che a gennaio la General Electric ha annunciato 249 esuberi (con la conseguente chiusura). Sono una sessantina i lavoratori che occupano la fabbrica, dandosi il cambio. A novembre hanno intrapreso anche la via legale con lo scopo di impugnare i licenziamenti. La mobilità durerà ancora per tutto il 2017, ma i lavoratori non sembrano intenzionati ad attendere pazientemente il passare dei mesi, consci che tra un anno non ci sarà più nemmeno questo appiglio.

Negli ultimi decenni Milano si è trasformata nella città dei servizi e delle banche. Siamo cresciuti col mito del “posto fisso” in banca, con l’idea che fosse un lavoro più qualificato e soprattutto più garantito rispetto al lavoro in catena di montaggio. Ma i dati di Banca d’Italia, ben più solidi dei miti, ci dicono altro: 8500 lavoratori in meno nel settore bancario negli ultimi 5 anni. A livello regionale il totale è di 11700, il 50 % di tutta Italia. Questo avviene anche perché oramai le banche tendono ad esternalizzare alcuni servizi, appaltandoli ai call center, dove il precariato regna sovrano e dove vengono applicati contratti peggiorativi (come ad esempio quello delle Telecomunicazioni). Il capitalismo, in assenza di una risposta inadeguata da parte delle organizzazioni dei lavoratori, ha continuato a distruggere le forze produttive. Cominciando prima dalle categorie ritenute più deboli, senza però risparmiare nessuno. E Milano non fa eccezione. Abbiamo però già visto qualche segnale di opposizione: i lavoratori Barclays, scesi in piazza meno di un anno fa, devono essere l’esempio per gli altri. Una risposta non solo a chi propone i licenziamenti , ma anche alle burocrazie sindacali sempre più rassegnate ad accettare la situazione.

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