Serbia: Geox, la scarpa che respira e soffoca operai e operaie

tratto da https://pungolorosso.wordpress.com/

Riprendiamo da “Courrier des Balkans”* la segnalazione di un rapporto di due Ong sulle imprese italiane di calzature e abbigliamento Geox, Tod’s e Prada, che contiene un particolare riferimento allo stabilimento Geox di Vranje, in Serbia (alle pagg. 49-55). Non amiamo l’ideologia di fondo di questi rapporti finalizzati a dare lezioni di etica e di comportamenti virtuosi ai pescecani del capitale transnazionale, ma la documentazione che esso fornisce è di sicuro interesse. Serve anche a toccare con mano i malefici effetti sulle condizioni dei lavoratori della distruzione della Jugoslavia, via secessioni e via guerre, operata sotto la regìa dell’Italia, dell’Unione europea, degli Stati Uniti e del Vaticano.

Meno di 7 mesi dopo la sua apertura nel gennaio 2016, la fabbrica Geox di Vranje [una cittadina della Serbia centrale, relativamente vicina alle frontiere con la Macedonia e la Bulgaria] è già in sciopero [lo sciopero, spontaneo, è avvenuto il 5 settembre scorso a seguito della imposizione di sabati lavoratori obbligatori in aggiunta all’usuale carico di straordinario, che è intorno alle 10 ore settimanali]. Il produttore italiano di calzature [Mario Moretti Polegato] aveva deciso di non tener fede agli impegni presi con il governo serbo, che tuttavia ha largamente finanziato l’impianto. Discesa nell’inferno della mondializzazione.

L’ong Clean Clothes Campaign e la campagna Change your shoes hanno pubblicato un rapporto [The real cost of our shoes, 2017] sul modo in cui funzionano le catene di produzione nell’industria dell’abbigliamento. Questo studio, che esamina le strategie di tre marchi conosciuti a livello mondiale – Tod’s, Geox e Prada – fornisce una panoramica dettagliata del loro funzionamento: ad un estremo della catena, prodotti costosi in confezioni raffinate, all’altro estremo, lontano dagli occhi del pubblico, condizioni di lavoro degradanti per una manodopera sempre più a basso costo.

La spietata corsa ai profitti modifica costantemente le modalità di produzione a scala mondiale mentre la mobilità dei capitali e le strategie di delocalizzazione e di adeguamento delle leggi a livello nazionale e internazionale, consentono un abbassamento continuo dei costi di produzione. L’installazione di stabilimenti nei paesi con manodopera a basso costo ha come conseguenza il deterioramento delle condizioni di lavoro, della stabilità dell’occupazione e dei salari a livello mondiale.

Gli immensi benefici registrati dai grandi gruppi industriali sono direttamente legati alle nuove condizioni del mercato mondializzato. E dunque lo scarto sempre più grande tra i costi di produzione e i prezzi di vendita delle merci è ben lungi dall’essere redistribuito in modo “equo” tra tutti gli attori della catena.

L’Europa dell’Est, nuova fabbrica del mondo
Lo sviluppo dell’industria tessile nei paesi poco sviluppati dell’Asia ha finito per far diminuire il livello dei salari a scala mondiale. Tanto è vero che oggi assistiamo ad un ritorno della produzione nell’Est dell’Europa.

In questi paesi devastati dalla cosiddetta ‘transizione’, il costo del lavoro è in realtà talvolta inferiore anche a quello esistente in alcuni paesi asiatici. Inoltre i governi fanno a gara a chi è in  grado di attirare maggiormente gli investimenti esteri, soprattutto creando delle “zone franche” con speciali norme di funzionamento, o offrendo tutta una serie di servizi come finanziamenti ulteriori per mezzo di sovvenzioni, infrastrutture a costo zero, esenzione dalle tasse sia per l’import che per l’export, sgravi fiscali, etc. Un altro vantaggio ad installarsi nei paesi dell’Est Europa è il cosiddetto Regime di perfezionamento passivo, un regime doganale specifico che permette alle imprese di esportare le materie prime fuori dall’Unione europea, poi di re-importare i prodotti semi-lavorati o finiti, il tutto pagando le tasse solo ed esclusivamente sul “valore aggiunto manifatturiero” [che viene determinato dall’impresa]. Le società possono così allargare le loro reti di produzione a un costo inferiore.

Per esempio Tod’s si appoggia su una rete di fornitori che hanno sede nelle regioni italiane in cui la manodopera costa di meno. La politica di Prada è di rilocalizzare la produzione in Europa, in Italia e soprattutto nell’Europa dell’Est. Quanto a Geox, tutti i principali fornitori si trovano fuori dall’Italia, in Asia e in alcuni paesi dell’Est Europa.

Dividere per comandare meglio
Se l’esternalizzazione di alcune fasi della produzione ad imprese terze non è una novità, ciò che è inedito, per contro, è il fatto che oggi esistono delle imprese che non hanno proprie fabbriche: la produzione è realizzata totalmente, in questi casi, dalle imprese in sub-appalto.

Il processo di produzione, molto frammentato, si svolge di rado per intero in una sola fabbrica. Sono rare le eccezioni a questa regola: Tod’s, che produce integralmente le calzature di alta gamma nei propri stabilimenti, e Geox, che possiede in Serbia uno stabilimento adibito alla produzione di scarpe di gamma medio-bassa (ma che rappresenta soltanto il 3% della produzione totale di questo marchio).

Numerose imprese che stentano a vendere la propria produzione sono pronte a diventare i sub-appaltatori delle grandi marche mondiali. Queste, allora, possono dettare le proprie condizioni di produzione alle imprese “collaboratrici” costrette spesso a siglare contratti svantaggiosi. Secondo alcune inchieste, le somme versate dalle grandi marche alle imprese di sub-appalto talvolta non sono sufficienti neppure a coprire i costi di produzione. Le scadenze di consegna molto strette e i prezzi molto bassi costringono, inoltre, queste imprese in sub-appalto ad esternalizzare, a loro volta, alcune fasi del processo produttivo ad imprese in una posizione ancora più sfavorevole, con condizioni di lavoro e salari ancora peggiori.

Serbia: il caso Geox
Il modo di funzionare della Geox in Serbia è oggetto di uno studio particolare nel rapporto, e conferma le numerose irregolarità e infrazioni del Codice del lavoro rilevate dai media.

Lo stabilimento Geox è stato inaugurato a Vranje nel gennaio 2016, grazie ad un contributo del governo serbo di 11 milioni di euro, in cambio del quale la società italiana si impegnava ad assumere 1.250 persone, pagando loro un salario superiore del 20% al salario minimo legale. Tuttavia, fino a settembre 2016 la Geox ha versato alla maggior parte dei propri dipendenti solamente il salario minimo, e spesso le ore di lavoro straordinario non figuravano sulle buste paga, e tanto meno erano pagate. I lavoratori, inoltre, hanno riferito di assunzioni con contratti di lavoro non regolari, licenziamenti illegittimi, molestie verbali, nonché di condizioni di lavoro e di sicurezza sul lavoro insoddisfacenti.

Dopo che alcuni operai di Geox hanno deciso di denunciare pubblicamente le loro pessime condizioni di lavoro, la pressione dei media ha portato, almeno in parte, i suoi frutti. I salari sono stati aumentati, le ore di straordinario sono state riportate entro limiti legali, e ad oggi due sindacati sono stati registrati.

Nonostante ciò gli operai continuano a denunciare numerose irregolarità, e Clean Clothes Campaign ha avvertito la sede della società il 13 febbraio 2017. Geox non ha accettato di esprimersi pubblicamente sulla situazione esistente nella propria fabbrica in Serbia. Ma il rapporto precisa che, malgrado i salari siano aumentati in base a quanto previsto dall’accordo concluso con le autorità serbe, risultano comunque insufficienti a garantire ai lavoratori e alle lavoratrici un livello di vita dignitoso. Secondo le ultime inchieste, il salario più basso è di 235 euro mensili, mentre si stima che in Serbia la spesa mensile di un nucleo familiare di tre persone sia in media di 527 euro.

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Pubblicato in “Courrier des Balkans” del 19 maggio 2017, traduzione di Chloé Billon – il titolo originale è “A Vranje la Geox calpesta il diritto del lavoro”, ma riprendiamo qui il titolo attribuito a questo pezzo dal sito “Alencontre”, che lo ha segnalato. Questo stesso sito segnala che la Geox, che nel 2015 aveva soltanto 543 dipendenti diretti, ha delocalizzato la propria produzione in una serie di paesi con forza-lavoro a basso costo tra cui, oltre la Serbia, la Polonia, l’Ungheria, la Slovacchia, la Turchia, la Cina, Macao, il Vietnam.

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