Energia: l’urgenza della Cina, l’Ucraina e i due forni di Putin

I dati sui consumi mondiali di energia spiegano le scelte di Pechino, la relativa tranquillità di Mosca e le diverse posizioni dei paesi europei.

[Carta di Laura Canali]

In aprile, i prezzi del greggio Brent e del Wti sono aumentati rispettivamente di quasi 3$/b (dollari al barile) e 1$/b, mentre il cambio euro/dollaro ha oscillato attorno a quota 1,38€/$.

Secondo i dati riportati dal Bp statistical review of world energy 2013, nel 2012 il consumo di energia primaria mondiale è stato di 12.477 tonnellate equivalenti di petrolio (Mtep), in aumento del 2,1% rispetto al 2011, quando aveva toccato i 12.225 Mtep. L’incremento è stato quindi pari a 252 Mtep, sostanzialmente equivalente all’energia consumata nell’arco di un anno dalla Francia (nel 2012, 245 Mtep), la 5ª economia a livello globale per pil nominale.

Nel 2012, i principali consumatori mondiali di energia sono stati: Cina, 2.735 Mtep (13%*); Stati Uniti, 2.209 Mtep (17%); Ue, 1.673 Mtep (56%); Federazione Russa, 694 Mtep (esportatore netto), India, 564 Mtep (38%), Giappone, 478 Mtep (93%), Brasile, 275 Mtep (13%) e Italia, 163 Mtep (80%) [*tra parentesi il livello di dipendenza inteso come il contributo delle materie prime energetiche importate sul totale del consumo di energia primaria del paese].

Tra le grandi economie importatrici di materie prime, gli unici ad aver diminuito la propria dipendenza dall’estero (dal 21% al 17% fra il 2011 e il 2012) sono gli Stati Uniti grazie alla tecnica rivoluzionaria, nonché contraddittoria da un punto di vista economico ed ecologico, dello shale gas e dello shale oil.

Al contrario, la Cina ha visto aumentare la propria dipendenza al 13% (nel 2011 era del 6%). Nel decennio 2003-2012, i consumi cinesi sono più che raddoppiati in termini assoluti, incrementando la loro quota sul totale mondiale dal 12,5% al 22%.

Tra le principali economie mondiali, l’unico esportatore netto è la Russia, che nel 2012 ha ceduto sui mercati internazionali 624 Mtep, pari al 47% di quanto prodotto (e al 90% di quanto consumato internamente).

La firma del contratto di 25 anni tra Rosneft e Cnpc (giugno 2013)  dal valore di 270 mld di $ (per la fornitura di 365 mln di t di petrolio) nonché l’imminente stipula dell’accordo trentennale tra Gazprom e Cnpc per la fornitura di iniziali 38 mld di m3 di gas naturale (che cresceranno nel tempo sino a 68 mld di m3, via Eastern route) certifica la possibilità da parte del Cremlino di sviluppare la cosiddetta politica dei “due forni”.

A ciò si aggiunga il rafforzamento della cooperazione strategica tra Mosca e Pechino. Questa situazione, tendenzialmente irreversibile, è la logica conseguenza della rapida redistribuzione dell’attività manifatturiera verso l’Asia, ma è anche figlia dell’impellente necessità di Cina e India di modificare la struttura del proprio mix energetico, muovendo dal massiccio utilizzo di carbone – rispettivamente pari al 68% e al 53% dei propri consumi totali – verso il più “pulito” e meno costoso (rispetto al petrolio) gas naturale, a oggi utilizzato solamente per il 5% da Pechino e il 9% da Nuova Delhi.

Come può l’Unione Europea affrontare tale contesto geopolitico? L’Ue – il cui mix energetico rispetto a quello globale è caratterizzato da un minor uso di carbone e da un maggiore utilizzo relativo di petrolio e nucleare, ma non di gas naturale (24%) – ha diverse opzioni, che paiono specchiarsi nelle differenti politiche perseguite dai suoi membri nella crisi in Ucraina.

La Polonia e i paesi baltici esprimono una posizione fortemente antirussa volta ad acuire il conflitto; la Gran Bretagna e la Svezia, che non sono membri dell’Unione economica e monetaria, si trincerano dietro l’opzione delle sanzioni statunitensi, volutamente poco efficaci secondo Stratfor. Germania, Italia e Spagna iniziano a premere per una via diplomatica, probabilmente dopo essersi resi conto che nel 2013, mentre gli scambi commerciali tra gli Usa e la Federazione Russa sono stati pari a 27.7 mld di dollari, quelli tra Bruxelles e Mosca hanno raggiunto i 410 miliardi.

Il presidente russo Vladimir Putin ha inviato il 10 aprile scorso una lettera ai capi di Stato e di governo dei paesi europei (18, di cui 5 extra Ue) che importano gas russo attraverso l’Ucraina. Nella lettera, Putin afferma che la Russia non può continuare a sostenere da sola gli sforzi per supportare l’economia ucraina e chiede agli altri leader europei di cooperare per stabilizzarla. A tal fine, egli invocava consultazioni immediate.

Nella sua risposta a nome dei 28 membri dell’Ue, il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, nonostante “concordi con la proposta di consultazioni con la Federazione Russa e l’Ucraina sulla sicurezza delle forniture di gas e sul transito”, spiega come il passaggio a un regime di pagamento anticipato del gas “è motivo di seria preoccupazione”. Questo infatti “implica il rischio di un’interruzione del servizio nella Ue e in altri paesi partner, minando lo stoccaggio del gas in Ucraina per le forniture nel prossimo inverno”.

La lettera del presidente russo può essere interpretata in più modi: l’ipotesi che va per la maggiore è che siamo dinanzi all’ennesimo ricatto all’Ue attraverso la leva del gas. Per altri invece si tratterebbe della legittima richiesta di chi non è più disposto a finanziare l’economia dell’Ucraina, prossima al default, visto che tra sconti e rinuncia ad esigere penali, solo attraverso le forniture, Mosca avrebbe sussidiato Kiev per 35.4 miliardi di $, dal 2009 ad oggi.

Non tragga in inganno il tema delle sanzioni, dietro le quali si celano interessi sempre meno convergenti tra le due sponde dell’Atlantico: forse, il futuro di parte dell’Europa e dell’Italia potrebbe passare per il “mancato contenimento” della Federazione Russa da parte degli Stati Uniti.

Anche la presunta compattezza della Nato potrebbe essere messa sotto scrutinio.

Demostenes Floros è un analista geopolitico ed economico. Ha collaborato con NE-Nomisma Energia.

(7/05/2014)
da Limes

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