Settembre 1920 – Lo “sciopero delle lancette” e il Biennio Rosso

tratto da https://contromaelstrom.com/ 

Nei giorni tra il 1° e il 4 settembre 1920 oltre 500.000 operai metallurgici occupano la gran parte delle fabbriche, in prevalenza metallurgiche a Milano, Genova, Roma, Napoli, Palermo e in altre città. Il momento centrale del “Biennio Rosso“.

Lo scontro tra operai e capitalisti era sorto su una vertenza operaia su aumenti salariali e riduzione di orario di lavoro, dopo anni e anni di ristrettezze e sacrifici “giustificati” dalla guerra. E anche per l’inflazione del dopoguerra che falcidiava i salari deilavoratori.

Ma ancor di più i padroni, dopo i grandi profitti nell’industria bellica, dovevano riconvertire e ristrutturare le fabbriche che erano servite all’avventura bellica. In questa delicato passaggio volevano far piazza pulita dell’organizzazione e della combattività operaia, per abbassare il costo del lavoro ed essere competitivi con gli altri capitali (nel secondo dopoguerra questa necessità del capitale è stata interpretata dalla Democrazia Cristiana con i governi antioperai). Lo stesso scontro avveniva anche in Gran Bretagna dove il capitale, per mezzo della ristrutturazione/riconversione, riuscì a distruggere il valido movimento degli “Shop Stewart”; in Germania venivano fortemente ridimensionati i consigli di fabbrica (che nel 1918 avevano fermato la guerra e spazzato via l’impero).

La battaglia era iniziata fin dalla primavera con lo “sciopero delle lancette” (l’ora legale era stata applicata durante la guerra dalle industrie per risparmiare energia, ma non piaceva agli operai. In realtà la questione era il potere dei Consigli di fabbrica. L’episodio da cui prende il nome avviene il 22 marzo 1920: la Commissione Interna delle “Industrie Metallurgiche” si oppone all’ora legale e un operaio riporta indietro le lancette. La Direzione usa il pugno di ferro licenziando tre operai della Commissione Interna e multandola; la risposta dei lavoratori è uno sciopero che durerà tre giorni).

Dalla primavera all’estate la battaglia che aveva già segnato dieci scioperi generali e alcuneguardiarossaserrate dei padroni. La Fiom in agosto convoca un congresso straordinario invitando anche rappresentanti del Psi e della CGdL (gli iscritti al sindacato in quell’anno erano 3.500.000, di cui 2.150.000 nella sola CGdL) e, il 21 agosto, si parte con “l’ostruzionismo” (rallentamento della produzione) su scala nazionale e, in caso di serrata, la parola d’ordine è: occupazione delle fabbriche.

La prima mossa padronale prende corpo a Milano, dove il 30 agosto due mila operai delle Officine Romeo & C. (poi Alfa Romeo) trovarono i cancelli chiusi e la fabbrica presidiata dalle truppe.

Anche in altri settori cresce lo scontro: in quel 1920 tra febbraio e marzo si moltiplicavano gli scioperi e manifestazioni dei braccianti caricati dalla forza pubblica. Il 1° maggio furono indetti cortei nelle principali città che venivano aggrediti e dispersi dalla polizia come a Torino e a Napoli.

Ad agosto iniziavano le occupazioni delle terre abbandonate; il 24 agosto venivano occupati numerosi poderi dell’agro romano, l’occupazione di terre proseguivano nel mese di settembre: 100.000 braccianti occupavano le terre di 15 feudi del trapanese.

Il Psi aveva visto crescere gli iscritti: da 24.000 nel 1918 a 87.000 nel 1919 e ben 200.000nel 1920; nelle elezioni del novembre 1919 il Psi aveva ottenuto un grosso successo con circa due milioni di voti e 156 deputati eletti.

La maggioranza massimalista di Serrati, nel Psi, aveva fatto approvare alla Direzione nel dicembre 1918 una mozione che affermava “come obiettivo l’istituzione della repubblica socialista e la dittatura del proletariato”. Aveva anche fatto aderire il Psi alla III Internazionale sin dal marzo 1919. La stessa maggioranza aveva vinto il XIV congresso nazionale (Bologna dal 5 all’8 ottobre 1919), su una mozione che parlava esplicitamente della necessità dell’«uso della violenza per la conquista dei poteri», dell’«abbattimento degli organismi dello Stato borghese». Tante belle parole, ma nulla veniva fatto perché alle parole corrispondessero i fatti (un po’ come oggi: frasi roboanti, ma attività pratica di organizzazione delle masse pressoché nulla). Nessuna preparazione né organizzativa, né militare, e nemmeno un’attività per far conoscere alla classe quale tipo di scontro si delineava; venivano, al contrario, fatte circolare parole d’ordine «fare come in Russia», che nascondevano il vuoto programmatico e per i più suonava come la fiducia in un’attesa messianica. La realtà dell’azione concreta dei socialisti, di tutte le correnti, si esauriva nelle diatribe parlamentari di nessun interesse per i lavoratori né per le masse proletarie del paese, né per le necessità impellenti che la battaglia in corso contro il capitale e il suo stato esigeva.

Quell’importante iniziativa di lotta del comparto più avanzato e cosciente della classe operaia italiana, gestita dalla nuova forma di organizzazione operaia: i consigli, tradita e abbandonata si concluse miseramente.

L_Ordine_Nuovo_coverIl 9 settembre il direttivo della CGdL si riunì per fare il punto della situazione. In modo provocatorio il direttivo della CGdL e del Psi proposero alla sezione torinese del Psi (Gramsci, Terracini, Tasca, Togliatti, fondatori del’ordine nuovo) di iniziare il movimento insurrezionale, senza nemmeno l’appoggio di uno sciopero generale.

il giorno dopo, il 10 e l’11 settembre 1920, ebbe luogo il congresso CGdL allargato alla direzione del Psi nel quale si tenne la cruciale seduta in cui il Consiglio nazionale della CGdL. fu chiamato a deliberare su due mozioni contrapposte: una prevedeva di demandare «alla Direzione del Partito l’incarico di dirigere il movimento indirizzandolo alle soluzioni massime del programma socialista, e cioè la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio»; l’altra mozione, proposta dalla stessa segreteria della CGdL (dal “destro” Ludovico d’Aragona, segretario generale CGdL dal 1918 al 1925, quello stesso che il 4 gennaio 1927, in seguito ai provvedimenti emessi dal fascismo decise l’autoscioglimento dell’organizzazione e nel 1947 usci dal Psi e con Saragat formò il Psdi), prevedeva invece, quale obiettivo immediato della lotta, non la rivoluzione bensì solamente «il riconoscimento del sindacato e di aprire una trattativa generale col governo». In pratica quel percorso che verrà poi chiamato “consociativismo”. Vinse quest’ultima ai voti (qualcuno disse che “si era messa ai voti la rivoluzione”).

Molto si è scritto, molte analisi e molta polemica è stata fatta su questo importante episodio della lotta di classe.  Qui riporto alcune righe di Antonio Gramsci:

«Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all’altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l’immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe»

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