Allegoria 1977-2001

Un giorno il professor Domenico Bendalusi si trovò in una situazione in cui non poteva andare avanti né tornare indietro. Siccome quando ne parleremo ci troveremo bloccati anche noi, conviene sbrigare subito le pratiche di rito.

Così dunque era l’uomo: non aitante ma nemmeno fiacco, di appetiti costanti ma non travolgenti, uso all’ironia ma di questa nemico. Di sé diceva:

«Mi chiamo Domenico Bendalusi. Sono professore di Sociologia alla Sapienza di Roma. Dei miei anni di insegnamento (associato dal 1977, ordinario dal 1982 al 2001), ricordo che all’inizio sparavo boiate in buona fede sull’assorbimento della classe operaia nella piccola borghesia, e alla fine sparavo boiate in mala fede sulle politiche del lavoro e sui vantaggi della flessibilità, sperando segretamente che un avanzo delle Brigate Rosse prima o poi se ne accorgesse. Ricordo anche che hanno sparato a Marta Russo. Quando gli studenti mi chiedevano chi è stato (sì, quegli idioti alzavano la mano e chiedevano “professo’, ma chi è stato?”), io rispondevo: “Come disse Pasolini: io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.” Alcuni prendevano appunti.»

Sull’ironia aveva molto da dire:

«La faccenda dell’ironia e del disincanto iniziò nei primi anni ’80, ma in modo confuso, non troppo convinto. A quei tempi nessuno ci capiva niente su nulla. Credevamo che fosse perché eravamo giovani: la nuova generazione che si affacciava al mondo. Fresca di lotte studentesche. Una volta anch’io, come Massimo D’Alema, ho lanciato una molotov. Ma non era l’inesperienza il nostro tallone d’Achille: era il nostro cervello. Avevamo e naturalmente abbiamo ancora il cervello bacato, sbagliato. Eravamo come dei cani che cercano di mangiare con coltello e forchetta. I nostri discendenti e discepoli, quelli che alzano la mano in classe, verso i quali del resto non nascondo tutto il mio disprezzo, sono ancora peggio, sono come cani che hanno imparato a mangiare con coltello e forchetta. Fu attraverso la loro influenza che si passò gradualmente alla seconda fase dell’ironia e del disincanto. A forza di lasciarci guardare da quei banchi con quello sguardo ottuso, lo sguardo appunto di un cane seduto a una tavola imbandita, ci siamo, noi professori, imbaldanziti. Nel disprezzo e nel distacco da quei musi tonti, abbiamo elaborato e iniziato a diffondere un credo che ci permettesse, extrema ratio, di mantenere l’autorità per insegnare. Prendemmo a dire che nessuno ci capiva niente perché era impossibile capirci qualcosa, perché il capitalismo avanzato rendeva il mondo incomprensibile all’uomo contemporaneo almeno quanto la natura aveva reso il mondo incomprensibile all’uomo primitivo. La democrazia, che fino ad allora avevamo insegnato come male minore, divenne condizione naturale. Era impossibile non essere tolleranti. Era impossibile accendere la tv e non ridere. Era impossibile non farsi pena in coda alla cassa dell’Esselunga. Raccomandammo a tutti di guardarsi dalle ideologie, perché impedivano di cogliere le sfumature, i dettagli, gli unici dati certi dell’esperienza. L’unica cosa che volevamo, in realtà, con tutti gli artifici della nostra autorità molle, convessa, era essere finalmente costretti ad abdicare, essere cacciati dalle aule, e che l’Università fosse abolita. Dimostrare che avevamo ragione, che eravamo noi i maestri della fine della cultura. Nell’attesa, le punte più avanzate del corpo docente si dedicavano, con l’ammirevole anticipo sui tempi tipico degli intellettuali, alla pedofilia.

Era il tardo pomeriggio di sabato 21 luglio 2001. Avevo rimorchiato una mia allieva mostrando simpatia per i manifestanti di Genova…»

Se il professore permette, riprendiamo noi la parola.

La lezione, cui mancavano già tre quarti degli studenti che frequentavano il corso, si trascinava assurdamente e stancamente nel caldo, quando uno dei ragazzi gridò:

– Hanno ammazzato un manifestante!

Il professore sulle prime non capì, poi vide che il ragazzo brandiva il cellulare. Parve incupirsi, ma si sentì in dovere di dar credito alla notizia, e di sottolineare, qualora fosse confermata, la gravità dell’evento. Congedò gli studenti, i quali sciamarono chiedendosi se c’era una “riunione del Social Forum”. Una di loro indugiò un istante sulla porta, e poi tornò verso il professore, che stava riordinando i lucidi che aveva mostrato a lezione.

– Professore, – disse, – Lei non viene?

Qui torna comodo tornare ai ricordi in prima persona del Bendalusi:

«Era una bambina, ma alta più di me. Mentre rispondevo, le guardavo le spalle larghe e nude. Profumava di un profumo mieloso, e si vedeva che aveva una voglia prepotente di accoppiarsi con me. Si chiamava, miserevolmente, Gioia. Insistette affinché io le lasciassi il mio numero di telefono, così che lei potesse inviarmi un messaggio quando sarebbe stata fissata la protesta serale. Acconsentii.»

Un’ora e mezza più tardi, ed erano quasi le otto, il professore ricevette un sms dalla ragazza: “Professore il raduno è saltato, preparano i pullman per stanotte. Incontriamoci all’edificio *** tra 20 min. Baci Gioia.”

Il professore prese la sua valigetta e si diresse all’edificio ***. Per strada c’era poca gente, mentre il caldo torrido si scioglieva nell’afa serale.

Il cancelletto del cortile esterno dell’edificio *** era aperto. La facciata incombeva minacciosa, con le sue travature metalliche aggettanti innestate sui resti un vecchio edificio borghese distrutto durante la guerra. In portineria non c’era nessuno, pareva che tutto il dipartimento fosse deserto. Nel mezzo dell’atrio, salivano due doppie rampe di scale che si incrociavano a metà altezza, formando una X. Una delle rampe sboccava in direzione dell’uscita, e l’altra verso lato opposto, dove si aprivano i labirintici corridoi degli uffici, della biblioteca, delle sale studio. La “ʌ” formata dai gambi inferiori della X era da un lato una parete di cemento a vista che ospitava una fila di bacheche, mentre dall’altro la parete era sempre di cemento ma spoglia. Fra due fotocopiatrici dismesse e impolverate, si apriva una porticina di metallo.

Il professore si grattava la testa perplesso. Era incerto se arrischiare una telefonata potenzialmente compromettente. In quella, la porticina, che era accostata, si aprì. Se ne affacciò Gioia, e disse:

– Vieni, ti faccio vedere una cosa.

Rientrò prima che lui potesse rispondere. Ma anche qui conviene rifarsi alla viva voce del professor Bendalusi, stavolta un po’ più a lungo:

«Scossi la testa e mi avvicinai alla porta. Sentivo i suoi passi scendere delle scale che non vedevo. Proprio mentre afferravo la maniglia, sentii un’esclamazione sorpresa, poi un rapido accelerare dei passi, un grido e una serie di tonfi come di qualcosa che rotola.

– Gioia! – chiamai, e corsi dentro.

Un breve andito male illuminato piegava bruscamente verso destra, e da lì scendeva ripida una gradinata. Una decina di metri più in basso, su un pianerottolo, stava Gioia distesa e immobile, ovviamente morta.

Ero furioso. Questa cretina si era rotta l’osso del collo. Non che non mi dispiacesse, ma mi aveva messo in una brutta situazione. Posto che nessuno mi avesse visto entrare, potevo ancora svignarmela, magari con calma, cercando un’uscita sul retro. Dovevo solo pulire la maniglia, e controllare che fosse morta per davvero. Mi accostai al corpo. Non c’era sangue, ma il collo era girato male. Posai l’indice e il medio sulla carotide, feci una certa pressione, aspettai, ma non c’era battito.

Accanto alla ragazza, sul pavimento, c’era una specie di bastone spezzato. Una metà era stretta nel pugno di lei, l’altra a mezzo metro di distanza. La raccolsi. Era un corto randello di granito, levigato; pochi centimetri sotto la parte apicale, una scanalatura formava un anello. Mentre soppesavo il curioso oggetto, mi resi conto che il pianerottolo non portava da nessuna parte. Né sbocchi, né porte. Che cosa mi aveva voluto mostrare la ragazza? Il manganello di pietra? Questa scala cieca?»

Nel mezzo della parete centrale c’era un foro. Il professore si sentì molto astuto quando gli venne in mente di provare a inserire la mazza nel foro, ma non accadde nulla. Tastò le levigate pareti béton brut in lungo e in largo, ma niente.

– Eppure dev’esserci un doppio fondo, – si disse.

Guardò nuovamente il cadavere, le spalle nude e impolverate.

Risalì i gradini lentamente, voltandosi per scrupolo indietro più volte. Si chiuse la porticina alle spalle, pulì la maniglia con un lembo di camicia. Decise per pigrizia di prendersi il rischio di uscire dal lato principale, e ci riuscì senza problemi, sgusciando dietro la portineria silenziosa, attraversando rapido il cortile su cui gravavano incongrui pilastri d’acciaio, allontanandosi infine a passo moderato dall’edificio ***, ormai protetto dall’anonimato della metropoli.

Questo, almeno, stando a quanto abbiamo visto. Ma la versione del dottor Bendalusi è molto diversa. Ci pare che il suo resoconto contraddica l’evidenza empirica, ma d’altra parte il diretto interessato dovrebbe essere la persona più qualificata a dar conto di sé. Non sappiamo cosa pensarne, perciò non resta forse che lasciare a lui l’ultima parola:

«Guardai nuovamente il cadavere, le spalle nude e impolverate, gli occhi sgranati. Così finisce l’allegoria. Stupida, vuota e un po’ sconcia ma compiuta. E davvero non c’è altro. Una volta vidi una puntata di “Ai confini della realtà” in cui una donna scopriva che poteva fermare il tempo semplicemente dicendo “basta”. L’universo si fermava, e lei continuava a muoversi, a vivere. Per me l’opposto: l’universo ruota su se stesso, e io sono immobile. Forse ho pronunciato per caso la parola magica.»

Ma qui di magia, o di metafisica, se ne vede ancor meno che di realtà.

Gregorio Magini su Collettivomensa

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