Villaggi del cancro e sfruttamento dei lavoratori. Due documentari sulla Cina

“Non mangerei mai i miei prodotti neanche se tu li comprassi per me”. In questa frase pronunciata da un contadino cinese c’è tutta la disperazione di chi in Cina vive nei pressi di industrie che scaricano la loro acqua nei mari e nei fiumi e avvelenano l’ambiente e le persone. “Potresti anche pagarmi, ma non lo mangerei”- prosegue il contadino rivolgendosi ad un’attivista di Greenpeace che lo stava intervistando per il documentario “Textile Towns in the Shadows of Pollution“.

Oggi in Cina 320 milioni di persone non hanno accesso a acqua potabile pulita, il 40% delle acque di superficie nel Paese è inquinato, il 20% dell’acqua da bere è considerata contaminata in alcuni casi da sostanze cancerogene, in altri da sostanze che diventano cancerogene una volta sversate in acqua. Ricordati da Chiara Campione, project leader della campagna The Fashon Duel sul sito di Greenpeace, questi sono solo alcuni dei numeri impressionanti che l’inquinamento idrico ha prodotto in Cina e che ha indotto l’associazione ambientalista a creare la campagna Detox per convincere i grandi marchi della moda a eliminare le sostanze tossiche con le quali le loro industrie avvelenano i le acque cinesi.

Dietro i numeri, però, c’è la storia di uomini e donne che soffrono, si ammalano, muoiono, privati di quel bene universale chiamato acqua. Il tutto nell’indifferenza delle autorità locali che per anni hanno negato il problema, censurato le denunce, ostracizzato chi si lamentava.

Nel documentario realizzato da Greenpeace l’ambientalista Wei Dongying ricorda le prime denunce portate all’attenzione dello Xiaoshan Environmental Bureau e come i funzionari governativi scelsero di stare dalla parte delle industrie che inquinano. Scuse per negare il problema e rassicurazioni sull’assenza di conseguenze per la salute delle persone sono stati per anni il ritornello che ha dovuto subire chiunque denunciava la gravità della situazione. Qualche settimana fa il governo cinese ha finalmente ammesso l’esistenza dei villaggi del cancro, eppure ancora nulla è stato fatto.

Ora non si può più tornare indietro, l’inquinamento testimonierà ancora per anni la nefandezza di uno sviluppo industriale ottuso, preoccupato solo di tutelare gli interessi delle grandi industrie anche a scapito della salute dei cittadini. Un cinismo che mostra esplicitamente l’aspetto peggiore del capitalismo, quel volto truce che abbiamo conosciuto anche in Itala, a Taranto come nella Terra dei fuochi e in tutti gli altri luoghi dove gli interessi economici di pochi hanno prevalso sui diritti di tutti.

Vicende drammatiche che legano in un filo nero macchiato dal sangue dei morti tutte le zone del mondo dove governo, industrie o organizzazioni criminali hanno scelto il denaro e rinnegato i diritti umani. Vicende che, come ricorda Wei Dongying, bisogna continuare a raccontare e per le quali bisogna continuare ad indignarsi e a protestare perché le future generazioni non ci rimproverino di non aver fatto nulla per evitare questo scempio.

Dreamwork China, ovvero sogni e diritti di una nuova generazione nella fabbrica del mondo.

Intorno all’area metropolitana di Shenzhen, nella provincia meridionale del Guangdong, giovani lavoratori parlano delle proprie vite, esistenze precariamente in equilibrio tra aspettative, difficoltà e desideri per il futuro. Intorno a loro, attivisti e organizzazioni indipendenti si impegnano per dare peso e sostanza a parole come diritti, dignità, uguaglianza.

Il corto è un estratto dal documentario integrale (55 minuti), scritto e diretto da Tommaso Facchin e Ivan Franceschini.

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