Perché Karl Marx sosterrebbe il prefetto Luigi Varratta…

Queste brevi note ci sono state suggerite dall’intervento della dottoressa Sabrina Tosi Cambini al seminario “Accattonaggio e stato di diritto” tenutosi al Polo delle Scienze Sociali di Novoli a Firenze in data 16 aprile. Ringraziamo gli organizzatori ed i relatori per gli interessanti spunti di riflessione che ci hanno fornito. Omissioni, errori e distorte interpretazioni di quanto detto in tale sede rimangono ovviamente ascrivibili solamente a carico di chi scrive.

La personale avversione di Karl Marx nei confronti del sottoproletariato è cosa nota e conosciuta. In genere questa idiosincrasia tende ad essere interpretata a partire dal ruolo anti-rivoluzionario che questo composito e variopinto segmento sociale giocherebbe all’interno della contrapposizione di classe. Tale lettura però, appare ai nostri occhi non solamente limitata e parziale, ma anche eccessivamente distante dal nucleo centrale e forte delle riflessioni teoriche marxiane, che spingono invece ad una decriptazione dell’esistente a partire dai rapporti sociali di produzione in essere. Prima però di avventurarci in questa difficile impresa, ci sembra importante condividere, al fine di favorire ed incentivare un vaglio critico di quanto andiamo scrivendo, alcune considerazioni preliminari. In prima istanza, il paradosso echeggiato nel titolo riguarda la decisione del Prefetto di Firenze, Luigi Varratta, di mettere in campo a partire dallo scorso febbraio una serie di misure volte a contrastare ed inibire l’antica pratica dell’accattonaggio all’interno della stazione ferroviaria di Santa Maria Novella. Le disposizioni del Prefetto, applicate in un contesto nel quale non sussisteva, per ammissione dello stesso, la presenza di alcun reato, si prefiggevano specificatamente il semplice obiettivo di mantenere un alto standard di decoro in quella che viene considerata la principale porta d’accesso al centro cittadino. Come prevedibile, queste misure hanno innescato reazioni polemiche su un doppio fronte: quello giuridico e quello sociale. Nelle scorse settimane quindi, tanti articoli ed interessanti considerazioni sono state sviluppati all’interno delle suddette cornici di senso. Visto lo scarso spazio a disposizione e soprattutto data la nostra incapacità a fare meglio di quanto sia già stato scritto, non possiamo far altro che consigliare, per chi nutrisse curiosità in queste direzioni, alcuni dei link che trovate alla fine di questo articolo. La seconda premessa riguarda l’esigenza di giungere ad una precisa, o quantomeno ad una più limpida, definizione di sottoproletariato. L’impresa, a dispetto di quanto si possa pensare in prima battuta, non è affatto semplice. Andiamo con ordine. Karl Marx e Friedrich Engels utilizzano per la prima volta l’espressione tedesca lumpenproletariat, letteralmente proletariato straccione, ne L’Ideologia Tedesca, testo del 1845. Il termine sarà però oggetto di una costante attenzione da parte dei due autori che lo adopereranno, negli anni successivi, con sfumature alquanto eterogenee e per indicare soggetti anche molto diversi tra di loro. Proprio in considerazione di questo, si può dire che due centrali questioni sono state spesso sottaciute nella rilettura critica dell’opera marxiana. La prima riguarda la provenienza del sottoproletariato, aspetto che potrebbe essere decisivo per comprenderne il carattere. A tal riguardo, la descrizione data del sottoproletariato ne Il Manifesto del Partito Comunista, come classe formata dagli strati più bassi della vecchia società, contrasta fortemente con numerose elucubrazioni successive, dove, al contrario, se ne sottolinea il carattere strenuamente interclassista. Questo ci porta direttamente al secondo termine del contendere, ovvero l’appartenenza oppure l’estraneità del sottoproletariato rispetto al proletariato stesso. Detto più chiaramente: il primo deve essere considerato un’appendice del secondo, oppure rappresenta una classe a se stante? Qui riscontriamo alcune difficoltà. Infatti, se il proletariato rappresenta quella classe che non possedendo la proprietà dei mezzi di produzione deve costantemente vendere la propria forza-lavoro, il sottoproletariato è affine solamente alla prima parte di questa definizione. Distinguendosene però in quanto attore che non partecipando al ciclo produttivo evita di valorizzare capitale attraverso il proprio lavoro in cambio di salario e soprattutto a discapito di tempo di vita. Proprio questo decisivo elemento ci porta a considerare il sottoproletariato non una semplice propaggine del proletariato, ma una classe a se stante, in grado di perseguire obiettivi che possono anche essere contrapposti a quelli dei lavoratori. In conclusione, sembra utile ricordare, attraverso le parole di Marx, quali erano, ai suoi tempi, le figure che animavano il sottoproletariato:

(..) Insieme a rovinate ed avventurose propaggini della borghesia, c’erano vagabondi, soldati in congedo, ex galeotti, evasi, truffatori, imbroglioni, lazzeroni, borseggiatori, giocatori d’azzardo, protettori, gestori di case chiuse, portaborse (…) in breve l’intera, indefinita massa, proveniente da tutte le parti, che i Francesi chiamano la bohème.  

(K. Marx, Il Diciotto Brumaio di Luigi Buonaparte, 1852)

Dopo questa lunghissima introduzione, sembra finalmente possibile entrare nel merito di quanto affermato dalla dott. Tosi Cambini. Questa ha infatti sottolineato come, nonostante la presenza di situazioni anche molto diverse, vi sia una percentuale non residuale di soggetti che sceglie l’accattonaggio non come l’ultima possibilità di sopravvivenza, ma come una scelta coscienziosa di vita. Inoltre, il rifiuto del lavoro che si collega alla pratica dell’accattonaggio, rappresenterebbe un interessante tentativo di sottrarsi agli infernali meccanismi del sistema economico vigente, sintetizzabili nella molto abusata, ma sempre esplicativa, triade del produci, consuma, crepa. In questo vi è certamente qualcosa di vero. Soprattutto però, questo ordine di discorso ha lo straordinario vantaggio di declinare l’attesa per un complessivo stravolgimento dei rapporti di forza in un hinc et nunc di indiscutibile fascino. Tuttavia, tale atteggiamento a noi sembra fallace dal punto di vista teorico con riferimento ad almeno due aspetti. Il primo riguarda la ridistribuzione di ricchezza che avviene con la donazione di piccoli spiccioli che molte persone, o forse semplicemente qualcuno, decide di fare al mendicante di turno. Infatti, per quanto il gesto avvenga nella massima autonomia da parte del soggetto donante, la questione centrale riguarda la provenienza della ricchezza che finisce nelle tasche di chi mendica. Ovviamente, a tal proposito è assolutamente ininfluente chi sia materialmente ad offrire gli spiccioli, dato che l’intera ricchezza circolante è prodotta esclusivamente attraverso il furto di tempo perpetuato ai danni di chi quotidianamente è costretto a vendere la propria forza-lavoro. Tale furto, come noto, si basa sul pagamento di un salario corrispondente solamente ad una minima parte delle ore passate sul luogo di lavoro. Per questo, chi sceglie l’accattonaggio, pur apparentemente rompendo le logiche di funzionamento del sistema, ha in un’ultima istanza un atteggiamento parassitario non nei confronti del capitalismo, ma nei riguardi di chi da quel sistema è sfruttato. Il secondo aspetto che vogliamo evidenziare muove dalla presunzione che la decisione di scegliere volontariamente l’accattonaggio sia nei fatti un chiaro portato dell’individualismo liberale, che presuppone la salvezza personale di fronte ad un pericolo, piuttosto che il tentativo di perseguire una fuoriuscita collettiva. La naturale obiezione è ovviamente che una simile condotta di vita può benissimo essere potenzialmente rivoluzionaria, qualora molti decidano di abbracciare l’esempio mostrato da altri. Pensiamo che la storia abbia mostrato la costante fallacità delle teorie rivoluzionarie osmotiche, ma ammettiamo, per ipotesi, che questa nostra granitica certezza si basi sulla nostra incapacità di immaginare quello che non è stato ancora. Cosa accadrebbe se tutti i salariati abbracciassero l’idea dell’accattonaggio? Semplice, non sarebbe prodotta più ricchezza ed una gravissima crisi economica ed alimentare metterebbe a rischio finanche la sopravvivenza del genere umano. Al contrario, e qui siamo veramente nel campo delle ipotesi apparentemente molto remote, cosa accadrebbe se tutti i salariati scegliessero una prospettiva rivoluzionaria? Combinando questa ad altre condizioni favorevoli, si potrebbe immaginare una collettiva appropriazione dei mezzi di produzione e quindi una straordinaria riduzione della giornata lavorativa che presumibilmente non supererebbe i 60 minuti giornalieri. Perché il cuore del problema non è il rifiuto del lavoro genericamente inteso, ma l’uscita da questo sistema di produzione. Un sistema che il sottoproletariato tende a rafforzare, piuttosto che ad indebolire. Per tutto questo, ironicamente si intende, abbiamo detto che Karl Marx starebbe con Luigi Varratta.

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