FOCUS UCRAINA / L’escalation della guerra e l’inerzia della diplomazia

di Andrea Ferrario

La Russia ha messo in atto una pericolosa escalation militare nell’Ucraina orientale, mentre la diplomazia internazionale rimane sostanzialmente a guardare. Le politiche militari di Poroshenko si sono rivelate un fallimento e rimane all’ordine del giorno l’ipotesi di una federalizzazione (o meglio feudalizzazione) del paese, che costituirebbe per Putin un’importante leva di sostegno al proprio regime.

Il vertice di Minsk
Il 12 agosto le autorità di Mosca avevano annunciato a sorpresa l’invio di un grande convoglio di aiuti umanitari alle zone dell’Ucraina orientale colpite dalla guerra. Dopo una prolungata attesa ai confini la Russia ha deciso il 22 agosto di propria iniziativa di farlo entrare in Ucraina senza l’autorizzazione del governo di Kiev. Nelle prime ore la diplomazia internazionale ha reagito con parole dure e molti giornalisti hanno ipotizzato l’annullamento del vertice di Minsk del 26 agosto, ma alle parole non è seguito alcun fatto e la vicenda è stata rapidamente archiviata. Il summit di Minsk si è poi svolto regolarmente, preceduto da un viaggio di Angela Merkel a Kiev il 23 agosto. Merkel, dopo essersi dichiarata a favore della federalizzazione dell’Ucraina come anche il suo vice Gabriel, ha incontrato durante la sua visita i responsabili delle amministrazioni locali dell’Ucraina, una mossa che è stata interpretata da alcuni osservatori esteri per l’appunto come la conferma che le potenze europee stanno puntando a soluzioni federative imposte dall’alto. E’ importante nell’analizzare questi sviluppi tenere presente anche che la Germania è stata in prima linea nel chiedere e ottenere di fare sì che l’Accordo di associazione siglato dall’Ucraina con l’Ue passasse prima della sua ratifica (non a caso ancora non avvenuta) per un dialogo con Mosca che consentisse a quest’ultima di fare valere le sue ragioni.

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L’incontro svoltosi a Minsk tra i paesi dell’Unione doganale (Russia, Bielorussia, Kazakistan), alcuni commissari Ue e l’Ucraina ha visto una storica stretta di mano tra Putin e Poroshenko. Nel corso del vertice sono stati annunciati altri incontri che sembravano indicare il desiderio generale, e soprattutto dell’Ue, di approfondire la via diplomatica: per le prossime settimane è prevista la ripresa dei negoziati tra Russia, Ucraina e Ue sulle forniture di gas e di quelli tra le stesse tre parti per raggiungere un compromesso con Mosca riguardo alla ratifica dell’Accordo di associazione con l’Ue da parte dell’Ucraina. Inoltre a Minsk riprenderanno oggi gli incontri del gruppo di contatto tra Ucraina, Russia, Osce e “repubbliche popolari” (queste ultime saranno rappresentate dal loro leader politico, il neofascista Andrey Purgin). Ma già a partire dal giorno dopo il vertice si è registrato un inasprirsi delle tensioni, fino all’escalation del 28 agosto, quando Poroshenko ha annullato un viaggio in Turchia annunciando che era in corso un’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e a Kiev si è discussa l’opzione di dichiarare lo stato di guerra.

L’escalation militare
Da un paio di settimane l’operazione militare dell’esercito ucraino nel Donbass, dopo i successi ottenuti a luglio e la successiva situazione di stallo, incontrava sempre più difficoltà. Unità delle forze armate di Kiev si erano ritrovate accerchiate subendo pesanti perdite, alcuni posti di frontiera con la Russia erano stati riconquistati dai separatisti, che tra l’altro riuscivano a mettere sempre più in difficoltà l’esercito ucraino nel mantenere le posizioni là dove aveva tagliato i collegamenti tra Donetsk e Lugansk, mentre l’assedio delle due città non dava altro frutto se non quello di una inumana carneficina tra gli abitanti, soprattutto a Lugansk. Con il senno di poi, sia la caduta di Slovyansk, avvenuta con ogni probabilità in base ad accordi tra le due parti, sia l’inspiegabile ritiro immediato delle forze separatiste fino a Donetsk si sono rivelati una trappola micidiale per l’esercito ucraino. Da una parte è impensabile conquistare le due città per mano militare, se non al prezzo di perdite enormi e di una catastrofe umanitaria di dimensioni colossali, dall’altra l’esercito di Kiev ha in tale modo lasciato sguarniti altri fronti. La dirigenza militare nominata da Poroshenko all’inizio dell’estate si è rivelata inetta e ha sacrificato ogni logica strategica alla necessità del presidente di ottenere rapidi successi alimentando un’ondata patriottica finalizzata a obiettivi di pura contingenza politica. I risultati di questa incapacità strategica si sono ben presto fatti vedere: i separatisti hanno conquistato nel corso della settimana la città di Novoazovsk, lungo la costa sul Mar Nero e distante 8 chilometri dal confine con la Russia, città dalla quale le sparute forze ucraine stanziatevi si erano precedentemente ritirate. Ora i separatisti puntano a riconquistare Mariupol, un’importante città portuale e industriale di 400.000 abitanti che dista soli 40 chilometri da Novoazovsk. Verso Mariupol starebbero convergendo rinforzi dell’esercito ucraino, la cui dislocazione però comporta una minore capacità di combattimento delle forze di Kiev nelle altre zone di guerra. Il timore a Kiev è che dopo Mariupol le forze separatiste possano puntare alla Crimea, dove si potrebbero congiungere con altre forze russe chiudendo così il resto dell’Ucraina sud-orientale con un semicerchio e, soprattutto, saldandosi con un potenziale militare molto rilevante. Va però subito specificato che la nuova offensiva sulle coste del Mar Nero è solo in minima misura attribuibile ai separatisti ed è stata opera in larga parte parte di forze russe, come testimoniato da un lungo elenco di fonti russe e internazionali presenti sul posto, che hanno rilevato la presenza di loro mezzi pesanti e loro uomini nell’ambito di un intervento che replica quello degli “omini verdi” a marzo in Crimea. D’altronde, è impossibile che i separatisti potessero aprire da soli questo nuovo fronte così lontano dalle zone in cui sono accerchiati, e l’attacco non può essere che partito dal territorio russo.

Le misteriose morti e scomparse di soldati russi
Come se non bastasse in Russia è scoppiato il caso delle morti improvvise di soldati di battaglioni dell’esercito russo, seppelliti in vari cimiteri del paese e riguardo ai quali i vertici militari di Mosca non forniscono alcuna spiegazione plausibile. In seguito al moltiplicarsi di questi casi numerose mogli di soldati hanno denunciato di avere perso ogni contatto con i mariti a partire dal 16 agosto, data in cui avevano gli stessi comunicato ai loro familiari l’imminente partenza per un’esercitazione nell’area di Rostov (cioè nell’immediata vicinanza dell’area di confine tra Ucraina e Russia). Alcuni di loro hanno comunicato che probabilmente vi sarebbero rimasti fino a novembre e che avevano ricevuto l’ordine di portare con sé anche gli indumenti invernali. Esercitazioni nell’area di Rostov, affermano le mogli, erano avvenute in passato, ma mai i loro mariti avevano interrotto le comunicazioni telefoniche durante il loro svolgimento. Contemporaneamente, il Comitato delle Madri dei Soldati, un’autorevole organizzazione indipendente russa nata ai tempi dell’invasione dell’Afghanistan, denunciava centinaia di casi di familiari di soldati russi che avevano perso ogni contatto con i propri cari o che addirittura li avevano visti tornare in una bara senza spiegazioni. Le mogli, che hanno anche organizzato picchetti di fronte al comando militare di Kostroma (una delle città in cui ci sono stati più casi di militari “spariti”), hanno tutte ricevuto minacce velate da parte di funzionari e dirette da parte di soggetti anonimi. A livello ufficiale, funzionari dell’esercito hanno promesso alle mogli che avrebbero ricevuto notizie sul luogo in cui si trovano i loro mariti entro domenica 31 agosto (ieri): la promessa non è stata mantenuta. Il Comitato delle Madri è stato subito messo dal Cremlino nella lista degli “agenti esteri”, un elenco mirato a screditare le organizzazioni che vi vengono inserite accusandole di ricevere finanziamenti dall’estero, accusa che nel caso del Comitato è falsa e non sostenuta da alcuna prova. Alcuni giornalisti che indagavano su questi fatti sono stati aggrediti, così come un deputato del partito di opposizione Yabloko. A completare infine questo quadro la settimana scorsa è arrivata la cattura da parte delle forze militari ucraine di dieci soldati dell’esercito russo in un blindato all’interno del territorio ucraino, nell’area di Lugansk. La spiegazione del Cremlino è che il blindato si era perso durante un’esercitazione sul confine, ma risulta grottesca alla luce del fatto che il mezzo è stato catturato a ben 20 chilometri dalla frontiera. La spiegazione più probabile è che il mezzo si sia sì perso, ma quando era già all’interno del territorio ucraino nell’ambito di un’operazione militare della quale i soldati non erano stati informati, come avveniva d’altronde normalmente ai tempi dell’invasione dell’Afghanistan.

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A questo va aggiunto che i separatisti non dispongono certo delle forze per fare fronte da soli all’offensiva militare dell’esercito ucraino: l’ex comandante Strelkov, quando era ancora in carica, aveva denunciato a più riprese l’indifferenza della popolazione locale e il fatto che le due “repubbliche popolari” non riuscivano a reclutare uomini in loco. La situazione per loro è sicuramente peggiorata negli ultimi due mesi, dopo che si sono ritirati a Donetsk e il conflitto si è trasformato in una guerra a tutto campo nella quale la popolazione, certo nella sua maggioranza non schierata con Kiev, vede nei separatisti solo delle forze autoritarie che portano loro la guerra in casa. D’altronde in questi giorni il premier e comandante militare della Repubblica Popolare di Donetsk (RPD), Aleksandr Zakharchenko, ha dichiarato che nelle fila delle sue truppe combattono “tre-quattromila russi”, alcuni dei quali volontari, altri militari in pensione, altri ancora militari in attività che hanno deciso di “passare le loro vacanze combattendo nel Donbass”. Si tratta di una valutazione secondo noi realistica, che corrisponde più o meno alla metà di quello che è un calcolo approssimativo delle forze dei separatisti (si veda il nostro articolo “Come sono dislocati i separatisti e perchè non hanno un sostegno attivo di massa”): in pratica le “repubbliche” in questi sei mesi sarebbero riuscite a reclutare in tutto solo circa 4.000 abitanti locali. Richiamiamo infine l’attenzione sulla coincidenza tra alcune date: l’operazione del convoglio umanitario russo è stata annunicata il 12 agosto, negli stessi giorni, poco prima e poco dopo Ferragosto, il Cremlino ha richiamato in patria a Mosca i capi militari e politici della RPD, ed è il 16 agosto che i soldati russi hanno comunicato ai loro familiari l’improvvisa partenza per le “esercitazioni a Rostov”. Tutto è successo nel giro di meno di una settimana: si tratta di coincidenze certo non casuali e che fanno pensare a mosse pianificate in anticipo.

Il coinvolgimento russo non è una novità
Va subito precisato che il coinvolgimento russo nel conflitto ucraino non è affatto una novità. E’ cominciato immediatamente dopo Maidan con il blitz militare per l’annessione della Crimea e le azioni evidentemente concertate dell’1 marzo (in quella data il parlamento russo autorizzava Putin a intervenire militarmente in Ucraina, mentre a Donetsk Pavel Gubarev, collegato al movimento neonazista russo RNE il cui leader è in buoni rapporti con il Cremlino, si autoproclamava “governatore popolare” e a Kharkov squadre di fascisti e stalinisti filorussi sgomberavano all’improvviso con la violenza il Maidan locale). E’ proseguito il 6-7 aprile con le occupazioni delle amministrazioni pubbliche del Donbass da parte di neofascisti legati a doppio filo con l’estrema destra russa collegata al Cremlino, e poi il 12-13 con le occupazioni militari di varie città da parte di soldati russi provenienti dalla Crimea, come ha in un secondo momento chiarito lo stesso comandante Strelkov e con lui altri protagonisti dell’azione. Tra fine maggio e inizio giugno si è fatto nuovamente evidente con l’arrivo massiccio di ceceni e altri “volontari” della Federazione Russa a Donetsk, e successivamente è diventata evidente la disponibilità da parte dei separatisti di ingenti armamenti pesanti russi. A giugno poi dettagliate inchieste avevano rivelato come a Rostov e in altre città russe fossero stati aperti uffici di reclutamento di volontari presso strutture dell’esercito russo. Una decina di giorni fa numerosi giornalisti delle fonti internazionali più disparate avevano rilevato il passaggio di una grande colonna di mezzi dell’esercito russo in Ucraina. Perché Poroshenko allora ha lanciato l’allarme invasione in modo così drammatico solo adesso? In considerazione di quanto scritto sopra, la nostra spiegazione è che il motivo principale sia il fallimento della sua strategia militare di fronte all’apertura del fronte sud da parte dei separatisti/dei russi, un fallimento che rischia di mandare a monte la sua carriera politica e dal quale deve cercare di distrarre l’opinione pubblica mantenendo a ogni costo vivo il “patriottismo” e cercando di coinvolgere le potenze internazionali. Ciò non toglie che sul terreno vi sia stato effettivamente un salto di qualità da parte di Mosca e che la sua escalation sia reale e pericolosa, ma su questo torneremo più sotto.

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Il fronte interno di Poroshenko
Sul fronte interno Poroshenko deve fare fronte a svariati problemi. Oltre a quelli delle imminenti elezioni a ottobre e della disastrosa situazione economica, di cui abbiamo già parlato nei nostri ultimi articoli, ce ne sono altri più immediati. Vi è un’evidente crescita dell’insoddisfazione tra la popolazione per la mobilitazione in corso e il forte aumento del numero delle vittime di una guerra che ora appare sempre più fallimentare, come testimoniano le reiterate proteste di famigliari dei soldati. A Kiev c’è poi stata un manifestazione di un migliaio di persone con una folta presenza di comandanti dei “battaglioni privati” ed elementi dell’estrema destra, che rischiano di rubare terreno politico ai progetti di Poroshenko. Infine l’oligarca e governatore della regione di Dnepropetrovsk, Igor Kolomoyskiy, ha subito approfittato della crisi militare per mettere in atto una mossa molto astuta: ha convocato una riunione della sua regione con i vertici di quella di Zaporozhie, nella quale ha dichiarato di assumersi la responsabilità per la difesa militare delle due regioni e dell’area della regione di Donetsk attualmente oggetto dell’offensiva dei separatisti e della Russia, cioè l’area meridionale il cui centro è Mariupol, dove è concentrata una grande parte del patrimonio aziendale dell’oligarca suo rivale, Rinat Akhmetov. In questo modo il già potente Kolomoyskiy, che oltre alla regione di Dnepropetrovsk controlla attraverso un suo uomo anche quella di Odessa, estende di fatto il suo feudo a quella di Zaporozhie e a parte di quella di Donetsk.

L’Ue non decide nulla e dà tempo a Putin
A livello internazionale sono volate parole grosse, ma sempre attente a non tradursi mai nel sostantivo “invasione” in riferimento alle mosse della Russia. L’Ue nel suo summit del 30 agosto ha disposto la messa a punto di nuove, e non meglio definite, sanzioni entro una settimana, la cui adozione però “dipenderà dagli ulteriori sviluppi nell’Ucraina orientale”. A Bruxelles non c’è nessuna intenzione, nemmeno di fronte agli ultimi sviluppi, di andare a uno scontro con la Russia, come testimoniano le parole di José Barroso: “Siamo pronti ad adottare sanzioni di nuovo livello, ma abbiamo già espresso un chiaro sostegno all’Ucraina. Se ci sarà un’ulteriore escalation del conflitto le adotteremo. Non vogliamo però una nuova guerra fredda. Le sanzioni sono solo un mezzo per dimostrare il nostro disaccordo con le azioni della Russia. Non vogliamo andare a un confronto con la Russia e speriamo che anche la Russia non lo voglia”. Da parte sua Matteo Renzi ha rincarato la dose: “è in gioco l’idea di Europa e il rapporto con il vicino più grande che l’Europa ha, che è la Russia che potrebbe svolgere un ruolo, se fosse dentro la comunità internazionale, ad esempio nel dialogo con la Siria”. Inoltre l’Ucraina ha ricevuto un secco “no” sia dalla Nato che dall’Ue alla richiesta di ricevere forniture militari. Obama ha anch’egli usato termini moderati, o forse è più preciso dire volutamente confusi, nelle sue dichiarazioni riguardo agli aspetti concreti. In realtà è un modello che si replica dall’inizio della crisi ucraina, a partire dall’avvio della quale i paesi occidentali hanno pacificamente ingoiato il boccone enorme della Crimea, hanno chiuso gli occhi sulle operazioni di occupazione di metà aprile, sul referendum di maggio e sulla successiva massiccia presenza di “volontari” russi, hanno rapidamente dimenticato l’abbattimento del Boeing e ancora più rapidamente l’”invasione” del convoglio umanitario russo. Si sono invece moltiplicate nel tempo le iniziative di pace che, dopo la breve tregua di fine giugno, si sono fatte sempre più prive di sostanza.

Le ipotesi sulla Nato e l’opzione delle forze “eurasiatiche”
Per quanto riguarda la Nato, un’organizzazione che con il suo allargamento e il cambiare degli scenari mondiali si è fatta negli anni più recenti decisamente più inefficace e farraginosa, c’è stata la proposta da parte del premier ucraino Yatsenyuk di un progetto di legge per cancellare dalla legislazione del paese l’impegno dell’Ucraina a rimanere un paese al di fuori dei blocchi militari, con la relativa specificazione da parte del premier che ciò sarebbe un preludio all’avvio di un processo di adesione all’Alleanza Atlantica. Il segretario della Nato Rasmussen ha dichiarato che le porte dell’alleanza sono sempre aperte. Ricordiamo che la legge sulla neutralità era stata introdotta in Ucraina nel 2010 da Viktor Yanukovich, dopo che il suo predecessore Yushchenko aveva spinto per un processo di adesione alla Nato, ipotesi che però si era chiusa nel 2008 dopo la guerra tra Russia e Georgia perché l’Occidente non aveva più alcuna intenzione di irritare Putin. Riguardo alle ipotesi di adesione dell’Ucraina alla Nato riteniamo nel complesso realistiche le valutazioni formulate in un’intervista al sito Gazeta.ru da Aleksandr Khramchikhin, dell’Istituto per le analisi politiche e militari, anche se per il futuro non immediato non siamo così sicuri come lui: “E’ evidente che la Nato non accoglierà l’Ucraina, non solo oggi, ma nemmeno in futuro. In primo luogo, si tratta di un paese in stato di guerra. In secondo luogo, la Nato non ha alcun bisogno di un conflitto con la Russia. E tutte queste minacce nei confronti di Mosca… l’Occidente è pronto a dare un aiuto a Kiev solo sotto forma di ripetute dichiarazioni. Finora Kiev non ha ricevuto alcun altro tipo di aiuti. [..] Subito dopo la guerra dell’agosto 2008 in Georgia le élite locali e la dirigenza del paese erano assolutamente convinte che al massimo entro un anno il paese sarebbe entrato nella Nato. Sono passati sei anni e ormai non se ne parla nemmeno più”. Inoltre difficilmente il progetto di legge passerà in un parlamento ormai dimissionario e quella di Yatsenyuk è con ogni probabilità solo un’operazione di pubbliche relazioni a uso interno. Secondo voci non ufficiali, ma ampiamente riportate dalla stampa, la Nato potrebbe decidere di insediare un ufficio di comando a Stettino, in Polonia, e di creare una forza di rapido intervento di 4.00-10.000 uomini dislocata in vari paesi non dell’Est, ma pronta a intervenire nella regione. La Nato ha già intensificato le proprie esercitazioni in paesi che confinano con la Russia ma, come nota il “Financial Times”, rispetto alle analoghe esercitazioni della Russia sono state finora di piccola entità: la più grande, quella di maggio nel Baltico, ha coinvolto 6.000 uomini, mentre quella russa di febbraio ai confini con l’Ucraina e i paesi del Baltico ha coinvolto 150.000 uomini. Ogni decisione in merito verrà comunque esaminata in occasione dell’imminente summit Nato del 4-5 settembre, data in cui diventerà comunque più chiara anche la posizione generale dell’alleanza riguardo al conflitto ucraino. Sul fronte russo ed eurasiatico vanno registrate due nuove iniziative. Da una parte la creazione da parte di Mosca di una nuova forza di peacekeeping per rapidi interventi formata da 5.000 uomini e incentrata proprio sulle unità di assalto aerotrasportate dalle quali provengono molti dei soldati di cui i famigliari hanno perso le tracce in queste settimane. Dall’altra c’è la dichiarazione della ODKB (Organizzazione dell’Accordo sulla Sicurezza Collettiva) di essere pronta a prendere parte a operazioni di mantenimento della pace. L’ODKB, creata nel 2003, è un’organizzazione militare “eurasiatica” formata da Russia, Bielorussia, Kazakistan, Armenia, Tagikistan e Kirghizia. Ci sembra valga la pena di citare questa notizia perché recentemente Bielorussia e Kazakistan hanno adottato una politica di equidistanza tra Ucraina e Russia che è stata molto apprezzata dall’Occidente, come testimoniato dal fatto che l’ultimo summit si è tenuto a Minsk su iniziativa di Lukashenko.

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Conclusioni
Con gli avvenimenti ancora pienamente in corso e la presenza di dinamiche complesse è impossibile fare valutazioni esaurienti. Si può solo notare che Putin è stato molto abile nel gestire la crisi. Dopo essere riuscito a fare passare senza conseguenze l’annessione della Crimea è riuscito a mettere in atto una escalation progressiva che dal sostegno alle repubbliche è passata passo per passo a mosse sempre più eclatanti e sfacciate, riuscendo in ogni occasione a ottenere un avallo di fatto a livello internazionale. Nelle ultime settimane inoltre è riuscito a trasformare quella che sembrava una disfatta dei separatisti in una nuova avanzata. Rimane ora da vedere se riuscirà a fare passare anche il suo evidente coinvolgimento diretto nell’offensiva militare dei separatisti. Il tutto va letto anche alla luce di quanto sta succedendo sulla scena del Medio Oriente, ben più importante per i paesi imperialisti, in conseguenza dell’avanzata dell’IS. In un momento di frenetico e ancora non risolto rimescolamento delle alleanze tra Usa, Iran, Siria, Russia, Israele, Turchia e Arabia Saudita, è chiaro che né l’Ue né gli Usa desiderano una degenerazione aperta della situazione in Ucraina, da una parte, e un peggioramento sostanziale delle relazioni con la Russia, dall’altra. Mosca tra l’altro recentemente è stata molto attiva sul fronte mediorientale, a partire dalle forniture militari all’Iraq, fino alla firma di un importante memorandum con l’Iran e all’incontro tra Putin e il presidente egiziano Al-Sissi: insomma la Russia era già un attore dal quale non si può prescindere sul teatro del Medio Oriente, ma ora lo sta diventando ancora di più.

Rimaniamo convinti che la soluzione di una “federalizzazione” dell’Ucraina, che vista la situazione reale sarebbe piuttosto una sua “feudalizzazione” garantita dai paesi imperialisti, sia il fine ultimo al quale punta Putin e sul quale sono disposti a convergere sia l’Ue che gli Usa, a condizione che si creino condizioni stabili e per loro accettabili. In tale modo la Russia manterebbe un controllo indiretto sull’Ucraina riuscendo così ad aumentare il suo profilo internazionale essendo l’attore da cui dipendono i destini dell’area. In alternativa per Mosca potrebbe essere accettabile una forma di indipendenza del Donbass sul modello di quella della Transdnistria, tuttavia molto più problematica da gestire. Prendersi carico del Donbass e della sua popolazione sarebbe infatti per il Cremlino un onere enorme e tutto sommato inutile (anche se, non va dimenticato, un annessione del Donbass o addirittura dell’intera Ucraina sud-orientale gli darebbe un prestigio senza precedenti a livello interno).

Ma cosa ha spinto Mosca a combattere questa guerra? A noi sembra che ci siano alcuni fini evidenti. Innanzitutto quello di fermare Maidan: dal 2011 l’esperienza a livello globale ha dimostrato che le mobilitazioni popolari di massa hanno un livello di contagiosità molto più alto che in passato, sebbene per ora rimangano molto confuse e disorganizzate. Il rischio di un contagio per la Russia era alto – da questo punto di vista il successo però è già stato ottenuto, visto che Maidan è stata subito fermata spostando l’attenzione sull’emergenza Crimea e su quella Ucraina orientale, e poi seppellita definitivamente dal nuovo potere ucraino e dagli oligarchi (e annessi) che lo gestiscono. Rimane la necessità per Putin di conservare la sua “area vitale” politico-economica che coincide in buona parte con l’ex Unione Sovietica, di mantenere la stretta sul paese e sui suoi vertici mantenendo uno stato di mobilitazione e di aumentare le sue leve internazionali in un momento in cui la sua economia, fortemente dipendente dall’integrazione nel sistema capitalistico mondiale, sta sempre più perdendo colpi e non dispone di altri strumenti, se non la potenza militare e le risorse energetiche, per garantire la sopravvivenza della propria borghesia. Se è così, i rischi sono altissimi, perché vorrebbe dire che per il regime di Putin il successo dell’”operazione Ucraina” è di importanza a tale punto vitale che l’opzione di un intervento aperto e a tutto campo non può essere escluso. Da parte sua l’Occidente non ha nessuna voglia di arrivare a uno scontro con la Russia e per ora sembra fare di tutto per evitarlo, per i motivi già citati sopra. Allo stato attuale per gli occidentali il gioco (una guerra tra potenze nucleari, o una nuova Guerra Fredda) non vale la candela (un paese povero e difficilmente gestibile come l’Ucraina). Tutto dipende però dallo scenario mondiale, attualmente molto instabile e dalle dinamiche incerte – non è da escludersi che nel tempo all’Occidente potrebbe convenire una linea più dura, o addirittura una nuova Guerra Fredda, ma questo salto di qualità per il momento non sembra essere all’orizzonte.

da http://crisiglobale.wordpress.com/

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