Indovina chi viene a cena stasera? I padroni del Pd!

La politica, declinata come attività volta alla conquista e al mantenimento del consenso, necessita di ingenti risorse economiche. Questa banale constatazione sembra risultare ancora più veritiera in un’epoca caratterizzata dal crescente ricorso da parte dei partiti ad esperti e figure professionali di vario genere, da campagne elettorali dai costi a dir poco vertiginosi, e dalla necessità per leader ed aspiranti tali di nutrire personalissime strutture di auto-promozione. Inoltre, si deve anche sottolineare come all’aumentare dei costi della politica si sia affiancato negli ultimi anni un forte decremento dei suoi due tradizionali canali di finanziamento: i trasferimenti di denaro pubblico verso i partiti, all’interno di quell’ottica che li teorizza come public utilities; e le quote di tesseramento pagate da militanti ed affiliati alla singola forza partitica. Questo secondo trend, come ampiamente noto, non rappresenta certo una novità. Al contrario, la disaffezione ed il calo degli iscritti, è tendenza che affligge le cosiddette democrazie mature dagli ormai lontani anni sessanta. L’altro aspetto è invece recentissimo in Italia, dove un finanziamento pubblico mediamente benevolo nei confronti delle forze partitiche con rappresentanza politica nelle sedi istituzionali, è stato sostituito da trasferimenti minimi e quantitativamente poco significativi. Questo stato di cose sollecita ovviamente le forze partitiche a tracciare nuovi sentieri. In questa ricerca di soluzioni alternative, Matteo Renzi ed il suo Partito Democratico sono, come in altri campi del resto, all’avanguardia. Non che il boy-scout di Rignano abbia introdotto niente di nuovo. La sua forza non si trova infatti mai nel proporre qualcosa di realmente innovativo, ma al contrario risiede nell’impacchettare all’interno della giusta cornice di senso e con un perfetto timing quanto già sperimentato altrove o precedentemente.

La notizia di due sfarzose cene di gala in rapida successione durante la quale ciascuno degli invitati (800 a Milano e 900 a Roma) ha donato, alla presenza dell’onnipresente Presidente del Consiglio, la bellezza di 1000 euro al Partito Democratico ha gettato nel panico la minoranza interna. Cesare Damiano, immaginando che molti ospiti non fossero né lavoratori della logistica né operatori dei call-centers (ma perché tali signori si sono mai curati di loro?) si chiedeva allarmato se quello potesse essere considerato il loro pubblico di riferimento. La risposta alla stucchevole domanda retorica è per noi semplice ed evidente. Soprattutto però, riconosciamo al progetto renziano una grande coerenza e capacità organizzativa: due qualità di cui tutte le altre forze politiche, istituzionali e non, fanno ampiamente difetto. La sua visione del partito è semplice ed efficace. Questo deve essere ultra-leggero, con pochissimi e soprattutto totalmente ininfluenti iscritti, deve prevedere un fortissimo accentramento del potere decisionale nella leadership, e si deve finanziariamente sostenere attraverso le donazioni che provengono dai vari segmenti della borghesia italiana. Questo significa, in estrema sintesi, ri-abbracciare il principio che Max Weber vide come una delle caratteristiche fondanti, in materia di procacciamento delle risorse economiche, dei partiti dei notabili di inizio Novecento: pochi donano molto.

Come forse qualcuno saprà, tale modello organizzativo è stato successivamente sfidato dal partito di massa di ispirazione socialista, nato dalla graduale amalgama dei primi nuclei di organizzazione e resistenza dei lavoratori dipendenti. Qui la logica era diametralmente opposta. Date le ristrettezze economiche dei suoi membri nessun avrebbe infatti potuto auto-finanziare la propria organizzazione con un ammontare di risorse pari a quello elargito dalle classi benestanti ai propri fantocci politici. A questo faceva però da contro-altare la potenza dei numeri. Da un punto del finanziamento dell’attività politica il principio cardine della forza operaia divenne quindi: molti contribuiscono poco.

Oggi ci sembra che la partita sia tornata, pur nelle sue logiche e facilmente comprensibili differenze, ad essere molto simile a quella combattuta a fine Ottocento. In tal senso, proprio mentre la borghesia serra con ritrovata energia i propri ranghi, i subordinati dispongono di una sola arma per avere la possibilità di tornare ad esprime la propria forza: una moderna, stabile, e strutturata organizzazione. Per far questo però numerose utopie letali, per dirla à la Formenti, devono essere immediatamente sconfitte. La più grave di tutte è ovviamente l’idea che si possa essere influenti politicamente senza essere organizzati. Pena, far si che i molti continuino ad essere una moltitudine informe.

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