Riempire il vuoto: una riflessione sul 15 novembre livornese

manichino impiccatoPartiamo da un dato di fatto: in Italia c’è, da ormai almeno un ventennio, un vuoto politico. Diciamo pure una voragine. Vuoto politico nel senso che, a fronte di un mondo dei lavoratori che ancora ovviamente esiste (seppur reso, ad arte, sempre più eterogeneo e scomposto con le riforme del mercato del lavoro degli ultimi decenni), manca invece un soggetto che le istanze di quel mondo riesca a metterle tutte insieme in un unico progetto politico.

Chiariamo subito, il vuoto di cui parliamo non è un vuoto elettorale. Quando questo vuoto di cui parliamo si riempirà, ne trarranno infatti giovamento le forze elettorali (nazionali e locali) già esistenti che riusciranno a recepirne le istanze, oppure un partito/movimento nuovo che oggi non c’è. Ma questo ci interessa il giusto. Usando l’espressione “progetto politico” intendiamo invece ovviamente il suo significato essenziale, il nucleo originario di una sostanza che prende forma con propri concetti e parole d’ordine, a prescindere da chi poi vorrà farne una sintesi elettoralistica (e su questo noi non abbiamo mai avuto paraocchi di alcun tipo né in un senso né in un altro).

Dicevamo dunque di questo soggetto. Dei lavoratori. Non semplicemente “del lavoro”. Bene specificare la differenza tra due concetti apparentemente vicini ma in realtà ben diversi tra loro. Per 20 anni siamo stati costretti a sorbirci infatti l’idea che c’era un centrosinistra che tutelava “il lavoro”, senza capire mai come, visto che le sue ricette erano anch’esse (come quelle delle destre) fatte di flessibilità, precarietà, tagli a stipendi e pensioni et cetera. Ora è arrivato Renzi che ha un po’ messo la parola fine a questa ipocrisia, nel senso che ha gettato la maschera e oggi incarna il partito degli imprenditori che devono “creare lavoro”, chiudendo quindi il cerchio di qual è (e di quale è sempre stato per loro) il concetto di forza politica “del lavoro”. Un concetto secondo il quale bisogna togliere diritti così arrivano nuovi imprenditori a “creare lavoro” per darlo anche a chi oggi non ce l’ha. Una equazione mai dimostrata, ma che suona bene per il mondo patinato dei salotti renziani e delle serate con i vip finanziatori a 1000 euro a cena.
Un soggetto, questo di cui parliamo, che non può ovviamente essere la Cgil. Troppo presa negli ultimi 20 anni ad andare a braccetto con il centrosinistra di cui sopra, nonché oggi a stringersi forte con quella “ala sinistra del Pd” (…..) composta dagli stessi soggetti di quei “centrosinistra” di cui sopra che tra l’altro, forse non se ne sono ancora accorti quelli della Cgil, sta già cedendo per poche briciole sul Jobs Act di Renzi. Troppo presa, anche, a cercare ad ogni occasione utile quella nauseante “unitarietà” con Cisl e Uil che hanno messo le loro firme (spesso anche insieme alla stessa Cgil) sullo smantellamento dei diritti dei lavoratori in Italia e sull’arretramento inesorabile e drammatico delle loro condizioni.
Questa premessa, per arrivare al corteo livornese di sabato scorso. A nostro avviso, con tutte le dovute prudenze dovute alla “gioventù” di questo percorso e alla attuale situazione emergenziale della città di Livorno dal punto di vista occupazionale, in quella manifestazione era presente il germe, un embrione, di ciò che abbiamo descritto sopra. Certo, il quadro di cui abbiamo parlato è nazionale e la manifestazione di sabato era solo cittadina, ma sarebbe potuta avvenire in qualsiasi altra città. Ciò che stiamo analizzando è infatti il “modello”.
Solo un osservatore disattento non avrà infatti notato che il riuscitissimo corteo di sabato nella nostra città (3mila persone in giornata di pioggia, lo ricordiamo) era altro rispetto ad una normale manifestazione di Cgil-Cisl-Uil. Era altro per la composizione, per le rivendicazioni, per il piglio conflittuale. Era un corteo di lavoratori e per i lavoratori, non semplicemente un corteo “per il lavoro”. Non c’era l’aria del “noi siamo buoni, dateci lavoro”, c’era la giusta e sana rabbia di chi rivendica la propria dignità. Un corteo che ha dimostrato che si può portare i lavoratori in piazza (tanti) anche con parole d’ordine di conflitto sociale, perché i Renzi e i Davide Serra il conflitto con noi lo fanno e senza pietà. E la risposta non può e non deve essere la pace, la calma, il “senso di responsabilità” dei sindacati-stampella del Pd o peggio ancora il leghismo razzista di Salvini che furbescamente strizza l’occhio al mondo dei lavoratori con il referendum sulla legge Fornero. No, la risposta deve essere la determinazione e la “cattiveria”, perché chi non arriva alla fine del mese e intorno a sé vede (in altri) ricchezza è normalmente incazzato, non “democraticamente” arrabbiato.
Lavoratori pubblici e privati, precari, atipici, disoccupati, pensionati. Questo è il mondo che deve stare insieme individuando come propria linea guida il concetto di redistribuzione della ricchezza ed il cosa e come produrre (sia esso un bene o un servizio). Quindi lo ripetiamo, il corteo livornese di sabato (o meglio, quel modello) è un embrione da coltivare, da incoraggiare, da imitare. Quando poi quel modello sarà talmente maturo da riuscire a connettersi anche con tutte le altre parti importantissime delle lotte per la difesa dell’ambiente, dei beni comuni, del diritto all’abitare, del diritto allo studio e di tutti gli altri settori nevralgici, allora saremo veramente sulla strada per la vittoria.
Finché questa forza di virare verso modell alternativi non ci sarà, ci dovremo sorbire le ricette Renzi-Rossi, sostenute anche dai media locali e nazionali, in cui privatizzazioni e smantellamento dei servizi saranno l’unica prospettiva in cambio di qualche briciola di investimento in infrastrutture. Oppure dovremo vivere in balìa del primo fondo di investimento straniero che viene qua a spremere le ultime gocce di profitto per poi volatilizzarsi dopo qualche anno.
Senza Soste redazione – 18 novembre 2014
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